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Locandina del film

Dopo mesi di annunci, ritardi e smentite finalmente è arrivato anche in Italia l'ultimo – attesissimo – lavoro del regista polacco, autentica leggenda vivente in Patria, Andrzej Wajda (già universalmente noto, oltre che per L'uomo di ferro (1981) e Danton (1983), soprattutto per Katyn (2007), nomination all'Oscar come miglior film straniero nel 2007) su Lech Walesa, il fondatore del sindacato Solidarność – il primo indipendente oltre-Cortina – nonché Presidente della Repubblica (1990-1995) della Polonia libera all'indomani della caduta del comunismo. La pellicola, tradotta in italiano come Walesa, l'uomo della speranza (Walesa. Czlowiek z nadziei) e girata nel 2013, della durata di 127 minuti e distribuita dalla Nomad Film, è pure entrata già nel guinness dei primati perchè è uno dei pochi film mai realizzati che parlano di uomini politici di primo piano della storia recente mentre i soggetti di cui si tratta sono ancora vivi e in piena attività (oggi Walesa, che peraltro ha visto e apprezzato il film, ha 71 anni). La produzione è interamente polacca e anche gli attori (a parte la nostra Maria Rosaria Omaggio, qui nelle vesti della giornalista Oriana Fallaci (1929-2006)) sono stati scelti da Wajda tutti in loco. Il risultato è un film decisamente 'europeo', dai ritmi lenti e, a tratti, tipicamente slavo, che rifugge dagli spettacolarismi gratuiti di Hollywood come dai kolossal, a cui comunque era stato accostato sulle prime da alcuni critici, trattandosi della narrazione delle gesta e di una vicenda eroica di popolo che forse non ha eguali nel periodo recente (in quale altro Paese comunista un sindacato di opposizione al governo poteva contare su 10.000.000 [dicesi milioni] di iscritti?).

La trama, in breve, è presto detta: Oriana Fallaci (allora inviata speciale del settimanale L'Europeo) nel 1982 si reca a Varsavia per intervistare il capo carismatico di quel sindacato che sta inaspettatamente dando del filo da torcere al regime, Lech Walesa (interpretato da Robert Wieckiewicz), un 'semplice' elettricista di appena ventinove anni ma già con la stoffa, e l'oratoria, di un navigato leader politico (il testo dell'intervista è oggi integralmente riprodotto in O. Fallaci, Intervista con il Potere, Rizzoli, Milano 2009, Pp. 630). L'incontro avviene nel periodo più drammatico della lotta di liberazione polacca, tra la diffusione a macchia d'olio degli scioperi in tutto il Paese e l'introduzione della legge marziale decretata dall'allora segretario del Partito Operaio Unificato Polacco (come si chiamava ufficialmente il partito comunista) Wojciech Jaruzelski (1923-2014). I vivaci dialoghi tra i due (se la Fallaci era già nota per aver affrontato a viso aperto l'ayatollah Ruhollah Khomeini (1902-1989) rifiutandosi di portare il velo, il giovane Walesa non era certo uno che calcolava abitualmente le parole) vengono così inframezzati dalle crude immagini (di repertorio e cinematografiche) di quanto accadeva in quei mesi nelle strade di Danzica, Lodz, Poznan e la stessa Varsavia. Si vede così - e anche solo per questo il film meriterebbe la visione - come la versione polacca del socialismo reale non fu affatto 'dolce', più 'soft' o tendenzialmente 'moderata' come ancora ultimamente taluni storici hanno invece sostenuto quasi a voler dire che quello non era poi davvero un Paese comunista. Nelle manifestazioni di piazza di allora non furono pochi i semplici operai, studenti o padri di famiglia che vennero inseguiti, torturati e massacrati dalla milizia del regime. Anche il martirio efferato di padre Jerzy Popieluszko (1947-1984), il cappellano di Solidarność, riscopritore delle “Messe per la Patria” che - attraverso il rilancio clandestino di Radio Free Europe - divennero celebri poi a Occidente per l'ingente risveglio di fede popolare che riuscirono a generare, non fu che uno dei tanti in un periodo obiettivamente terrificante nell'Europa Orientale della seconda metà del Novecento.

In un contesto del genere, poi, non potevano mancare ovviamente i riferimenti ai viaggi di Papa Giovanni Paolo II, a partire dal primo - 'storico' - svoltosi dal 2 al 10 giugno 1979, che determinò un entusiasmo di massa oltre ogni aspettativa. Come osservò qualche giornalista: “Bastava vedere la marea umana che seguì, contro le disposizioni esplicite delle autorità, passo dopo passo il pellegrinaggio di Wojtyla nel suo Paese per capire che il regime avrebbe avuto i giorni contati”. E tuttavia non fu affatto così facile proprio perchè la presa di Mosca - e dei servizi di spionaggio sovietici - era quantomai forte e il braccio di ferro, sfiorando la guerra civile, durò ancora a lungo: addirittura dieci anni, fino al 1989 appunto, quando fu la stessa Polonia a inaugurare la stagione della primavera della libertà oltre-Cortina. Il film, peraltro, racconta tutta la vicenda a partire dalla prospettiva personale di Walesa e dalla sua famiglia, privilegiando un punto di vista quindi privato e non pubblico. La maggior parte delle scene (a parte il confronto con la Fallaci) sono in effetti girate proprio a casa-Walesa e ritraggono con semplicità fotografica la difficile vita quotidiana della moglie e dei numerosi figli del capo di Solidarność. Si badi, non si tratta però qui di un tocco d'intimismo poetico del regista, ma di un altro tassello 'dimenticato' della storia del Paese: a ritirare il premio Nobel per la pace nel 1983 dovette andare infatti proprio la moglie di Walesa, Danuta, perchè il marito si trovava agli arresti domiciliari e si temevano rappresaglie durissime, come l'espulsione immediata dalla Polonia (già imposta peraltro al resto del direttivo di Solidarność, spedito a Bruxelles). D'altra parte, la lente d'ingrandimento sul Walesa-privato permette anche di cogliere degli aspetti di dettaglio, e di ambiente, legati alla tradizione spirituale e religiosa polacca che altrimenti difficilmente verrebbero fuori in una rivisitazione meramente politica. Il film termina con la rimessa in libertà di Walesa, la legalizzazione di Solidarność e quindi l'alba dei fatti del 1989, fino al successivo viaggio a Washington, negli USA, dove venne ricevuto dalle Camere riunite del Congresso che gli tributarono minuti di applausi ininterrotti (presidente in carica per la cronaca era George Bush Sr., che gli conferì la “Medaglia della Libertà”, la più alta onoreficenza civile). Il resto, come si suol dire, è cronaca politica di questi giorni e, soprattutto a Varsavia – dove l'eredità morale di Walesa è ancora molto contesa – piuttosto sentita. Per quel che qui più interessa, però, cioè la coltivazione della buona memoria storica e dell'identità dell'Europa, il film di Wajda ci pare che passi ottimamente l'esame e, con i recenti Katyn e Le vite degli altri, vada a scrivere un'altra pagina importante su quello che è stato per davvero il costo umano, civile, morale e religioso del comunismo realizzato (anche e soprattutto quello meno denunciato come tale ex post) non venti secoli fa ma appena venti o trent'anni fa.

 

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Il grande repertorio italiano, il melodramma da esportazione, il balletto più popolare: una stagione estiva ricca ed articolata quella del Teatro di San Carlo che vedrà il Massimo napoletano adeguarsi agli standard internazionali con la prima edizione di un festival al cui centro emerge la visionaria rilettura di Madama Butterfly firmata Pippo Delbono.

Per la prima volta, in ogni singolo week end del mese di luglio, si alterneranno ben tre spettacoli diversi di Opera e balletto e, a ottobre, ancora un titolo d'opera.

Avvio del San Carlo Opera Festival sotto il segno del talento eversivo di Delbono, uno dei registi più acclamati della scena contemporanea, che firma la doppietta di apertura Cavalleria rusticana (in scena il 12 luglio, Premio Abbiati della scorsa stagione, allestimento commissionato dal lirico napoletano) e un nuovo allestimento di Madama Butterfly di Giacomo Puccini (13 luglio ore 18). Sul podio per il titolo pucciniano Tito Ceccherini, da sempre incline al repertorio novecentesco, mentre un altro coetaneo di successo, Jordi Bernàcer (applauditissimo alla guida di Coro e Orchestra in Carmina Burana lo scorso anno), dirige il lavoro di Mascagni.

Con Cavalleria rusticana, - in scena il sabato 12, sabato 19, venerdì 25 luglio e sabato 2 agosto sempre alle ore 21 - Delbono, ripropone la sua visione “dall'interno” del melodramma verista e riconduce sulla scena anche alcuni dei suoi attori feticcio come Bobò. “L’atmosfera realistica dell’opera è decontestualizzata dalla mia presenza in scena – spiega Delbono - una presenza brechtiana o kantoriana, un segno di lucidità e sobrietà. Uno sguardo dall’interno che esalti le inquietudini e le sfumature dell’animo narrate nella vicenda di Cavalleria. Preferisco lavorare sulle persone e non sui personaggi e seguirli dall'interno della scena - prosegue Delbono - così anche i cantanti possono rivelarsi degli attori di grande intensità e anima e cantare con il corpo anche quando non cantano con la voce “.

Una prospettiva differente dunque, cui contribuisce la scenografia di Sergio Tramonti. “La scena è una camera acustica prospettica, un impianto fisso in legno, intonato alle caratteristiche planimetriche del teatro, – racconta Tramonti – in cui la dominante pittorica è una sorta di lacca rosso cinabro bruciato dall'alto e dal basso da scolature e vampate di nero. Le sfumature del nero esaltano la passionalità del rosso e come dicevano i pittori espressionisti (Munch su tutti...) lo fanno cantare”. Impreziosiscono l'allestimento i costumi di Giusi Giustino e luci di Alessandro Carletti. Di grande pregio il cast vocale composto da Anna Pirozzi - napoletana classe 1975 richiestissima dai più prestigiosi teatri al mondo- e Karina Flores nei panni di Santuzza, Rafal Davila in quelli di Turiddu, Giovanna Lanza sarà Lucia, ad Angelo Veccia è affidato il ruolo di Alfio, e ad Asude Karayavuz quello di Lola. Sul podio lo spagnolo Jordi Bernàcer, tra i più apprezzati direttori d'Orchestra della sua generazione.

Cavalleria è considerata il manifesto del verismo musicale e valse a Pietro Mascagni la celebrità. Melodramma in un unico atto su libretto di Targioni –Tozzetti e Menasci, tratto dall’ omonima novella di Giovanni Verga, l'opera torna al San Carlo dopo l'allestimento del 2012 che aveva appassionato pubblico e critica aggiudicandosi anche il prestigioso premio Abbiati per le scenografie firmate Sergio Tramonti.

 

 

Titolo immortale che da sempre affascina gli spettatori di tutto il mondo Madama Butterfly di Giacomo Puccini ritorna al San Carlo domenica 13 luglio alle ore 18 con la regia di Pippo Delbono e sarà in scena fino al 26 luglio. Sul podio Tito Ceccherini alla guida di Coro e Orchestra stabili. Ancora una volta Delbono metterà al centro del dramma il tema dell'abbandono e della solitudine, centrale in tutta la sua poetica così come nell'opera di Puccini, e ancora una volta lo farà a suo modo, rompendo il realismo e creando sulla scena prima di tutto uno spazio mentale dentro il quale si muovono e agiscono i personaggi. <<Questa è la seconda opera lirica che allestisco al San Carlo – afferma Delbono che ha esordito all'opera proprio al Massimo napoletano nel 2012 con Cavalleria – ed è la terza della mia vita. Come sempre faccio quando mi avvicino a questo genere artistico, tento di farmi assorbire totalmente dalla musica e di rendere appunto musicale sulla scena ogni singolo gesto di ogni personaggio, silenzi inclusi, in modo da far convergere il tutto verso un'unica, grande partitura. Anche qui metterò in scena Bobò col Kimono, credo sia l'unico in grado di sventolare il ventaglio senza banalmente “fare la recita”. Il mio intento infatti è trasgredire ma senza toccare l'opera di Puccini. Trasgredire non è modernizzare, ma guardare questo dramma da un altro punto di vista >>. In linea con questo sguardo diverso, le scenografie di Nicola Rubertelli che contribuiscono a creare una sensazione di astrazione, gli splendidi costumi di Giusi Giustino e il sapiente disegno luci di Alessandro Carletti.

La candida Cio Cio San sarà interpretata dal soprano Raffaella Angeletti, accanto al tenore Vincenzo Costanzo che vestirà i panni di Pinkerton. Nel cast figurano anche Anna Pennisi nel ruolo di Suzuki, Marco Caria in quello di Sharpless, Andrea Giovannini (Goro), Abramo Rosalen (zio Bonzo), Nino Mennella (Principe Yamadori), Alessandro Lerro (Commissario imperiale), Miriam Artiaco (Kate Pinkerton) e Paolo Marzolo (Ufficiale del registro)

Alla guida di Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo (preparato quest’ultimo da Salvatore Caputo), salirà sul podio Tito Ceccherini, concentrato ad esaltare le più suggestive frasi dell’opera pucciniana con profonda espressività.

Scritta dopo il grande successo di Tosca, la tragedia giapponese in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa, ebbe una composizione decisamente travagliata e la sua prima assoluta, il 17 febbraio 1904 alla Scala di Milano, fu uno dei più clamorosi insuccessi della storia dell’opera: «con animo triste ma forte ti dico che fu un vero linciaggio. Non ascoltarono una nota quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, briachi d’odio. Ma la mia Butterfly rimane qual è: l’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito. E avrò la rivincita, vedrai, se la darò in un ambiente meno vasto e meno saturo d’odi e di passioni», così scriveva Puccini all’amico Camillo Bondi e così fu, l'eroina pucciniana divenne una delle più amate e affascinanti protagoniste della storia dell'opera.

Il San Carlo Opera Festival prosegue con la sempre sicura musica di Mikis Theodorakis per Zorba il Greco(in programma dal 18 luglio al 1 agosto), coreografia griffata made in New York del “figlio d'arte” Lorca Massine. Schierati per il Festival tutti i comparti artistici del Teatro di San Carlo: Coro, Orchestra e Corpo di Ballo. Chiude la rassegna, in ottobre, Elisir d'amore di Donizetti. Sul podio Giuseppe Finzi, regia di Riccardo Canessa, altro regista apprezzato in Italia e all'estero, già applaudito interprete di riletture di successo del titolo donizettiano.

 

Biglietti a partire da 20 euro

per info: 0817972331 – 412 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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In occasione della conclusione della presidenza europea della Grecia che passa il testimone alla Presidenza italiana, l’Ambasciata di Grecia a Roma ha il piacere di presentare ‘’Atene-Roma. Canzoni in viaggio…’’ con il soprano Sonia Theodoridou e lOrchestra Mobile, presso il Teatro Argentina, giovedì 19 giugno 2014, alle 21.00.

Sonia Theodoridou, soprano greca di fama internazionale, insieme all’Orchestra Mobile con la direzione del maestro Theodoros Orfanidis, interpreterà brani di compositori greci e italiani come Mikis Theodorakis, Manos Chatzidakis, Nino Rota nonché canzoni greche tradotte e interpretate da artisti italiani nel suggestivo scenario di uno dei più importanti teatri romani, il Teatro Argentina.

L’evento sarà realizzato in collaborazione con: Intralot Italia SpA, Gold Sponsor e Holycon srl, Comunità Ellenica di Roma e Lazio, Sponsors. L’ingresso nei palchi sarà libero fino ad esaurimento posti.

Sonia Theodoridou ha recitato nei più importanti teatri d’opera d’Europa (opera di Frankoforte, Opera Nazionale di Berlino, Opera tedesca di Berlino, Teatro La Fenice di Venezia, Opera di Lyon e di Montpellier, Il Megaron di Atene, Il Teatro di Erode Attico ad Atene, Il Teatro Antico di Epidauro.

Il suo repertorio classico comprende alcuni dei ruoli lirici più importanti come Fiordiligi (Cosi fan tutte), Elvira (Don Giovanni), Violetta (La

Traviata), Euridice (Orfeo ed Euridice di Gluck), Santuzza (Cavalleria Rusticana), ecc.

L’Orchestra Mobile fu creata il 2010 con l’obiettivo di unire musicisti provenienti dall’Europa. La polifonia e le diverse influenze tradizionali degli artisti fanno di questa orchestra un caso unico nell`ambiente musicale europeo.

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Ricordate il titolo di un film che abbia trattato il tema della deportazione nei famigerati Lager nazionalsocialisti? Scommetto di sì. Vi viene in mente, invece, un film nel quale sia presente un sia pur minimo riferimento all’arcipelago concentrazionario dei GuLag sovietici? Non crediate di avere una scarsa cultura cinematografica se, per non fare scena muta, vi sentite costretti a consultare un motore di ricerca: l’unico film relativamente recente ad avere avuto un minimo di visibilità in Italia, tra i pochissimi che abbiano lambito la realtà dei GuLag, è stato The way back (2010) dell’australiano Peter Weir.

Stando così le cose, è naturale che attiri la nostra attenzione ogni rara avis che, al cinema, abbia osato evocare un fenomeno che, sebbene al riparo di una cortina d’oblio ancora toppo spessa (a quanti la parola «GuLag» non ricorda altro se non, per assonanza, la nota pietanza ungherese?), rimane tra i più raccapriccianti incubi realizzati del secolo XX.

Poco importa, quindi, che si tratti di un film girato nel 2008 e distribuito in Italia solo in DVD nel 2013. Vale la pena di parlare di Transsiberian, anche perché si tratta di un thriller di solido impianto, di quelli che non hanno bisogno di ricorrere a espedienti narrativi cervellotici per ritagliarsi un minimo di originalità ed essere accattivanti.

Ecco la trama: Roy (Woody Harrelson) e Jessie (Emily Mortimer), una coppia di coniugi con qualche problemino di relazione, decidono, dopo aver trascorso in Cina un periodo di volontariato spinti da motivazioni religiose, di raggiungere Mosca in treno, utilizzando la mitica linea transcontinentale transiberiana che in sei giorni percorre più di novemila chilometri passando per Vladivostok, Irkutsk e Novosibirsk. Sul treno incontrano Carlos, al cui fascino latino Jessie prova a resistere – ma con crescente difficoltà –, e la sua compagna Abby, finendo implicati in una storia di traffico di droga che li porterà ben presto a rimpiangere di non aver scelto l’aereo per tornare a casa.

Il regista Brad Anderson dà ai personaggi intensità e spessore psicologico. Il più noto dei volti è quello di Ben Kingsley, che interpreta il ruolo di uno scafato agente della narcoticie del quale – se vedrete il film nell’edizione doppiata in italiano – non potrete apprezzare la convincente inflessione russa del suo inglese.

L’unico altro dettaglio della trama che possiamo riportare senza correre il rischio di spoiler è la suggestiva ambientazione di uno degli snodi narrativi: una solitaria chiesa ortodossa diroccata nel bel mezzo della taiga siberiana, simbolo di bellezza violata e segno visibile di ferite non ancora rimarginate inferte alla terra russa dal totalitarismo comunista.

E i GuLag di cui si diceva in esordio?

Durante il viaggio, in un momento di convivialità sul treno, alcuni russi, un po’ divertiti dall’ingenuità dei compagni di viaggio americani, fanno a gara nel mostrare le loro cicatrici. A un certo punto, una persona anziana mostra il marchio della matricola da detenuto che ha sul braccio.

«Il GuLag?» chiede Roy. Il vecchio annuisce silenzioso.

«Che ti hanno fatto?» chiede Jessie.

«Scriveva poesie» le risponde uno dei russi. «In Siberia c’erano parecchi GuLag. Se vuoi documentarti sull’America basta comprare un libro. Se vuoi sapere della Russia, compra una pala. Sono in tanti a essere sepolti qui. Scienziati, preti, poeti…».

C’è bisogno di aggiungere altro? Buona visione!

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Premiato come “Miglior Testo Teatrale” nel 1988, 48 Morto che parla si basa su un fatto di cronaca, avvenuto in Cina negli anni Settanta. Su un autobus due ladri uccidono Ye Xiaoxiao, mentre gli altri passeggeri assistono senza intervenire. Il morto torna sulla terra per visitare i vivi, confrontarsi con i passeggeri indifferenti e ricontattare i suoi due migliori amici di infanzia: Tang Tiantian, la donna che ama, e Liu Feng, suo rivale negli affetti e nel lavoro. Ogni passeggero racconta al morto la sua storia per giustificare il comportamento passivo e indifferente e ogni storia diventa per il commediografo l’occasione per toccare alcuni problemi sociali scottanti nella Cina degli anni Settanta. Celebrata dai critici come un’abile combinazione di teatro brechtiano e realismo socialista, l’opera si snoda attraverso una struttura ad episodi dai toni epici e attraverso l’uso ingegnoso di un coro, i cui membri entrano ed escono dai diversi ruoli aiutando il pubblico a riflettere sull’azione teatrale, mentre Ye Xiaoxiao riflette sul suo viaggio nella vita.

Prima assoluta in Italia, 48 Morto che parla è il risultato del Laboratorio di Teatro Cinese, ideato e coordinato dalla prof.ssa di Lingua e Letteratura Cinese M. Cristina Pisciotta che, da otto anni, all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, svolge attività di divulgazione del teatro cinese attraverso testi inediti in Italia e in gran parte del mondo. La sperimentazione didattica, unica nel suo genere, punta all’apprendimento della lingua cinese in modo diverso da quello tradizionale: gli studenti entrano da protagonisti nella cultura cinese contemporanea partecipando allo studio in modo attivo. L’elemento caratterizzante è la recitazione bilingue: gli studenti-attori alternano, infatti, l’italiano e il cinese in modo che lo spettacolo risulti comprensibile ad un pubblico appartenente alle due diverse realtà culturali.

La sperimentazione, nelle passate edizioni, è stata accolta con grande interesse sia dagli ambienti accademici che da quelli dell’informazione e dello spettacolo (segnalato da Rainews24, Tg3, radio rai3, radio 101, da quotidiani nazionali e locali).  Le opere cinesi, tutte prime assolute in Italia, hanno poi partecipato al Festival del Mediterraneo dell’Estate Romana con grande successo di critica e di pubblico. L’ultima manifestazione è stata inoltre invitata dalla prestigiosa Accademia Teatrale di Shanghai.

L’evento è patrocinato dall’Istituto Confucio, dalla Fondazione Banco di Napoli, dall’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e dall’Adisu.

 

Liu Shugang è nato in Cina nel 1940. Fin da giovanissimo sviluppa un grande interesse per il teatro e per l’arte: i suoi primi drammi vengono, infatti, pubblicati sul giornale della scuola. Nel 1962 si diploma in recitazione e nel 1965 inizia ufficialmente la sua produzione teatrale come autore. Negli anni Ottanta ottiene notorietà e successo con Indagine su quindici casi di divorzio, un dramma di stampo brechtiano che esplora i dilemmi e l’impatto sociale del divorzio nella Cina contemporanea. Nel 1988, 48 Morto che parla vince il premio nazionale come “Miglior Testo Teatrale”. 48 Morto che parla, negli anni Novanta, è stato portato in scena anche nell’ex Unione Sovietica e a Singapore.

 

Il Laboratorio di Teatro Cinese a Napoli

ORIENTE E OCCIDENTE

Progetto curato dalla prof.ssa M.C. Pisciotta

Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

 

Il Laboratorio di Teatro Cinese è un progetto di sperimentazione artistica e didattica nato nel 2005 presso il Dipartimento di Studi Asiatici (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”). Qui un gruppo di studenti mette in scena, ogni anno, opere teatrali cinesi contemporanee, usando congiuntamente la lingua italiana e quella cinese.

Il progetto, unico in Italia, ha portato all’allestimento di otto drammi, tutte prime assolute sia in Italia che in Europa (L’altra riva, Il libro dei monti e dei mari, Gesù Confucio e John Lennon, Rinoceronti in love, Una via del cavolo, Il crematorio, Mezzanotte all’Avana- Caffè, Le cronache di Sangshuping). Oltre a dare dei risultati eccellenti dal punto di vista didattico, le manifestazioni sono state accolte con grande interesse sia negli ambienti accademici che in quelli dello spettacolo.

Il Laboratorio di Teatro Cinese è ideato e coordinato dalla Prof.ssa M. Cristina Pisciotta (docente di Lingua e Letteratura Cinese presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”) e condotto dal regista Lorenzo Montanini (che ha curato adattamento, regia e preparazione artistica degli studenti di tutti gli spettacoli finora realizzati). L’elemento caratterizzante delle messe in scena è la recitazione bilingue: gli studenti, infatti, recitano in italiano e in cinese, in modo che lo spettacolo risulti comunque comprensibile ad un pubblico appartenente alle due diverse realtà.

Il Laboratorio di Teatro Cinese nasce, inoltre, con un interrogativo: come mettere in scena un teatro che appartiene ad una cultura così diversa come quella cinese in modo che risulti comprensibile al nostro pubblico? In uno studio riguardante i processi di prestito interculturale nella produzione scenica, M. Gissenwehrer osserva come la trasposizione di un testo drammatico straniero nel contesto teatrale indigeno possa evolversi secondo due percorsi, contraddistinti da opposte tendenze. Nel primo caso, un’intera rappresentazione è riprodotta esattamente dai membri della cultura locale, impiegando i segni teatrali dell’ “altro” in maniera imitativa. In queste circostanze, le divergenze fra i due sistemi culturali e l’estraneità del pubblico nei confronti delle convenzioni stilistiche e degli elementi culturali del modello adottato possono ostacolare notevolmente la ricezione del testo. Siamo di fronte ad una ricezione passiva e a una passiva riproduzione del modello straniero.Nella seconda ipotesi formulata da Gissenweher, un testo o un modello drammatico d’importazione straniera può essere rielaborato, trasformato e adottato al contesto locale, impiegando i segni teatrali della propria cultura al fine di generare significati pertinenti alle proprie circostanze e al proprio pubblico. Questa tendenza si può definire ‘ricezione produttiva’. L’elemento culturale estraneo è reso familiare e la diversità diventa uno strumento di interpretazione della propria identità. Il Laboratorio di Teatro Cinese mette in pratica entrambe le tendenze: in un primo momento, durante il corso, il testo viene puntualmente tradotto, cercando di comprendere la lingua e il contenuto dell’opera teatrale attraverso una ricezione imitativa – passiva. In un secondo momento, invece, nella messa in scena, si cercano di rendere familiari al nostro pubblico i segni di una cultura ‘altra’, senza per questo snaturare il testo e seguendo il metodo della ricezione produttiva.

Il Laboratorio di Teatro Cinese concorre alla divulgazione della cultura cinese a Napoli, città di antica tradizione orientalistica: è qui infatti che nel 1732 il sacerdote Matteo Ripa fondò il “Collegio dei Cinesi” (oggi divenuto l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”). Il progetto contribuisce anche alla difficile integrazione delle comunità cinesi sul territorio, offrendo un’opportunità di dialogo con l’ente che si occupa della formazione di personale specializzato nel settore orientalistico. Il teatro, tra le arti, è sempre stato il mezzo più adatto alla comunicazione, al dialogo, all’interazione tra persone di culture e lingue diverse.

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