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Domenica, 10 Novembre 2024

Invece di occuparmi delle solite cianfrusaglie di cronaca socio-politica di questi giorni, cercherò di elevare il mio dilettantismo giornalistico con una figura eccezionale che ha sviluppato il senso della “carità” nella Chiesa e nel mondo. Mi riferisco a S. Vincenzo de' Paoli, che si ricorda proprio oggi. Una straordinaria figura vissuta nel XVII secolo, e che si è spenta proprio il 27 settembre 1660. Casualmente ho letto la sua storia nel Volume, “La Chiesa dei tempi classici”; Tomo I, “Il Grande secolo delle anime”, della monumentale “Storia della Chiesa del Cristo” di Daniel Rops, che ho trovato insieme ad altri volumi, presso la “bancarella” dei libri del Santuario della Consolata a Torino. Rops impiega 55 pagine (“Un costruttore della Chiesa moderna: San Vincenzo de' Paoli”) per descrivere l'immensa opera di “Monsieur Vincent”, come lo chiamavano nella sua Francia. La Storia della Chiesa ma non solo, gli riserva un posto considerevole. “Iniziatore del senso sociale, in un epoca in cui finiva di rompersi la solidarietà della città, del comune e del feudo che durante il Medioevo consolava le miserie,[...] egli ha saputo associare tutte le classi in un unico sforzo per alleviare la miseria degli uomini, suscitando tante generosità individuali che la Francia ne è stata mutata”. S. Vincenzo è stato l'iniziatore dell'epoca moderna di quella numerosa schiera di Santi, che invece di affidarsi alle sirene di utopici progetti di solidarietà verso gli ultimi, si sono operati in prima persona, fondando associazioni, congregazioni di uomini e donne per risolvere le tante miserie umane presenti nel loro tempo. Vincenzo aveva ben saputo metterci l'umanità profonda, la vera carità aiutando veramente e concretamente gli uomini del suo tempo.

Era nato lontano da Chatillon, in un angolo della Francia, figlio di un povero contadino. Ben presto diventò uomo di chiesa, frequentando gli studi, anche quelli universitari. Ad appena vent'anni fu ordinato prete. E nella sua vita operosa, ha sfiorato la schiavitù, subendo perfino il sequestro da parte dei turchi che lo portarono a Tunisi per essere venduto, acquistato da un padrone, venne successivamente liberato. Rops scrive che ad un certo punto a cominciare dal 1610, misteriosamente, fu “invaso dalla santità”, aiutato da un aristocratico di nascita e di cultura, grande mistico, Pietro de Berulle, poi diventato cardinale. De Berulle, diventa il suo direttore di coscienza, il suo confessore, il suo modello vivente. Su consiglio del cardinale de Paoli diventa precettore dei tre figli del potente Filippo Emanuele de Gondi. Qui è rimasto ben otto anni, in questo periodo incontrò un altro uomo che lo avrebbe ulteriormente cambiato, il vescovo di Ginevra, S. Francesco di Sales. Nei mesi trascorsi a Parigi, con lui Vincenzo ebbe diversi colloqui. E parlò di tutto, della Fede, delle missioni, della direzione delle anime, della politica. S. Francesco divenne il suo nuovo maestro, dopo la sua morte, Vincenzo prese la decisione di operare nella società per dedicarsi interamente ai poveri. ”Taglierà tutti gli ormeggi che ancora lo tengono legato”. Trentacinque anni di operosità per gli ultimi di ogni genere. Colpisce la sua apertura spirituale. Non cerca affatto di brillare nella dialettica e nel gioco delle idee. Cercherà di trovare la soluzione a tutti i problemi che si impongono al suo tempo. Tuttavia, “è anche il contrario del sognatore, di un fabbricatore di sistemi; è preciso, realista; ha tutti e due i piedi sulla terra”. Una frase regola ogni suo atteggiamento: “Dio non ci chiede nulla che sia contrario alla ragione”. Vincenzo è il contrario del polemista, “impegnato nei più vivi dibattiti, vi conserverà sempre la misura, mostrandosi caritatevole con gli uomini di cui condannerà le tesi”.

Ama gli uomini, perché ama Dio, “nonostante le loro mediocrità e le loro miserie, che egli conosce meglio di ogni altro; Li ama proprio per esse”. Ama gli uomini perchè ha preso sul serio i due primi comandamenti del Vangelo. Rops è un po' polemico nei confronti di chi in Francia ha snobbato il Santo, collocandolo tra gli ignoranti, per tenerlo fuori dalla schiera gloriosa dei grandi spirituali. Senza dubbio S. Vincenzo, scrive Rops: “non ha arricchito di nuove concezioni la speculazione religiosa; non ha, come il suo maestro Berulle, dato l'avvio dottrinale a tutta una scuola: Non ha neppure pubblicato nulla di suo”. Ma il suo pensiero mistico e spirituale ha lasciato una impronta profonda. La sua dottrina unisce quella dei suoi maestri. Egli prepara il volto della Chiesa del futuro. Probabilmente il suo successore sarà S. Alfonso de' Liguori. Tuttavia egli riassume un principio fondamentale, quello che S. Paolo ha formulato in termini insuperabili: “vivere in Cristo”. “Vivere la Croce, vivere la passione di Cristo, significa anche vivere il suo infinito amore per gli uomini”. A questo punto Rops elenca e descrive le sue grandi creazioni, a cominciare dalle Missioni. Essendo un frequentatore della Casa Gondi, ne approfitterà per intraprendere, “un'opera multiforme, le cui realizzazioni si collocheranno su ogni specie di piani, un'opera insieme sociale, morale, teologica, pastorale ed anche politica, la cui varietà sorprende non meno che l'ampiezza, la sola che potrà permettergli di portare a buon fine il suo temperamento di capo, servito da un vero genio organizzatore”. Vincenzo è della stessa razza dei santi fondatori come S. Benedetto, S. Domenico, S. Ignazio. Toccando con mano la miseria spirituale delle campagne francesi, crea in lui una esigenza di apostolato. Ecco allora l'esigenza delle Missioni, che si dovevano ripetere per essere veramente incisive. Anzi dovevano essere erette ad istituzione. “Ciò presupponeva quindi l'esistenza di squadre di sacerdoti che facessero della missione il loro scopo fondamentale”. Fu creata una Congregazione della Missione, per le spese immediate ci pensava madame de Gondi. Inoltre arrivarono donazioni di locali e di chiese. Ben presto questa compagnia di preti della Missione vengono chiamati anche Lazzaristi. Girano di villaggio in villaggio, vi passano da quindici giorni a un mese, predicando, parlando dappertutto. Attenzione, parlando in modo semplice; le prediche devono essere semplici, niente “eloquenza cattedratica”. Se si vogliono commuovere i curoi, bisogna parlare con tutto il cuore. Senza frasi oratorie,senza enfasi. Le Missioni furono fondamentali per il popolo, per farlo ritornare alla fede. Non solo ma anche nella Corte del re di Francia, Vincenzo mandò i suoi predicatori.

Vincenzo de' Paoli era convinto che “dai preti dipende il Cristianesimo”. Santificare se stessi e portare la parola ai poveri. Per evangelizzare i popoli era necessario evangelizzare i suoi pastori. Troppi preti, specialmente nelle campagna vivevano a livello del loro popolo. “Molti erano pigri: 'la pigrizia è il vizio del clero”. Questa decadenza del clero, tormentava l'anima sacerdotale di Vincenzo. Pertanto, si applicò alla riforma del clero, come voleva il Concilio di Trento. E il modo migliore per riformare è quello di istituire i seminari veri e propri, che non erano all'inizio simili a quelli dei nostri giorni. Tornando all'opera caritativa di Vincenzo de' Paoli, bisogna ricordare anche le condizioni, letteralmente spaventose delle società di allora. Le guerre che avevano stremato la Francia, orde di soldati attraversavano le province in ogni senso, incendiando e saccheggiando. Poi c'erano le epidemie di ogni genere. “Il miracolo di Monsieur Vincent sta nel fatto che egli seppe tener testa a tutte le angosce provocate dagli avvenimenti e dall'incoscienza degli uomini [...]Sapeva imporre certi sacrifici con tanta imperiosa dolcezza!”. Alla Regina, ad Anna d'Austria, che esitava ad offrire i suoi diamanti, replicava graziosamente: “una regina non ha bisogno di gioielli!”.Nascono quasi spontaneamente le Dame di Carità, per lo più appartenenti all'alta società, principesse, duchesse, che frequentavano la casa di madame de Gondi. Una di queste Dame di Carità si distinse tra tutte: Luisa di Marillac (1591-1660), giovane vedova di un modesto borghese, un'anima fervente che trovò nella carità la risposta ai suoi dubbi e alle sue angosce, un'intelligenza tutta virile. Fu lei ad avere l'idea di una nuova fondazione: Le Figlie della Carità. Una delle istituzioni che fanno più onore alla Chiesa, quelle che nelle ore più buie, ci impediscono di disperare. Le suore di quel tempo si concepivano chiuse in un convento o dietro una grata. S. Francesco di Sales, invece aveva concepito delle giovani consacrate che vivessero in mezzo al mondo, lavorando per Cristo e per la Chiesa. Fino allora, la carità era soprattutto opera dei chierici, di religiosi e di signore agiate. Ora comparivano delle figlie del popolo, di quelle “buone ragazze di campagna”. Vincenzo impiegò le “suore grigie” dappertutto anche nelle zone di guerra a fare le prime infermiere. Tuttavia Vincenzo nonostante desse più fiducia alle donne, diede spazio anche agli uomini, istituendo la prima “Confraternita di Carità per gli uomini”, antenata delle “Conferenze di S. Vincenzo”, sviluppate due secoli più tardi da Ozanam. Il nostro de' Paoli si è occupato anche dei bambini cosiddetti “trovatelli”. In quei tempi feroci e desolati, un gran numero di madri abbandonano i loro bambini, per miseria o disperazione. Solo a Parigi sono migliaia. Si crea un'opera per loro e ci pensa Luisa di Marillac. Poi ci sono i mendicanti, mutilati di vari eserciti, vecchi abbandonati, uno stuolo numeroso. Poi ci sono i carcerati nelle prigioni anche a loro manda le sue Figlie della Carità. Arrivano a Monsieur anche donazioni anonime. Tutte queste opere che si moltiplicano, danno prestigio e il de' Paoli, nonostante la sua modestia, assume un posto sempre più considerevole in tutta la Francia. Il re Luigi XIII l'aveva ammirato senza riserve, nota Rops. Alla morte del Re, la regina Anna d'Austria col piccolo Luigi XIV si trovò in difficoltà di fronte ai gravosi impegni della reggenza. Anna per essere consigliata chiamò Vincenzo. Una direzione spirituale non troppo facile per il sacerdote. Monsieur Vincent diventa una potenza, un personaggio pubblico di cui si conosceva la influenza, “una specie di ministro senza portafoglio incaricato di ciò che noi oggi chiameremmo l'assistenza pubblica e le questione sociali”. Anche se c'era il cardinale Mazzarino che non sempre accettava di relazionarsi con Vincenzo dè Paoli, che consapevole di aver una influenza considerevole a Corte, cercò di servirsene per allargare il campo della sua carità. Sostanzialmente si trattava di far trionfare Cristo e la Chiesa. Qualcuno l'ha chiamata la sua azione politica. Comunque sia, con “bonaria semplicità, come sempre, egli mise al servizio delle idee che gli stavano a cuore i suoi accresciuti mezzi d'azione”. Comunque scrive Rops, Vincenzo non confuse mai “la carità di Cristo con i metodi della burocrazia statale; per lui l'amore degli uomini non si distribuiva amministrativamente”. E tuttavia Vincenzo da buon ministro senza portafoglio della carità, non ignorava i suoi doveri di occuparsi degli aiuti alle popolazioni, alle province devastate dalla guerra. Si occupò dell'assistenza ai profughi. Rops accenna ad una lettera di luogotenente generale che dovrebbe essere pubblicata dai manuali di Storia. L'ufficiale sosteneva che senza il Santo, il Paese sarebbe morto di fame e lo supplicava di essere ancora “il Padre della Patria”. Ma Vincenzo de Paoli non si occupò solo delle opere di carità, ma di servire la carità di Cristo, attraverso la difesa della Verità e del messaggio di Cristo. Affrontò le gravi questioni dell'eresia del Giansenismo, sempre con ferma dolcezza e col rigore misto di misericordia. Affrontò con gli stessi metodi anche i “fratelli” protestanti. Tuttavia secondo Daniel Rops, è difficile dare un'idea di quello che fu l'irradiazione del santo negli ultimi quindici anni. Le sue opere si moltiplicavano e soprattutto si diffondevano in tutta la Francia, ma anche negli altri Paesi europei. Alla sua morte un intero popolo sfila davanti al letto dove giace il povero corpo logorato. Le sue reliquie sono contese, li reclamano il Papa, i santuari, i vari re.

 

Si è svolto lunedì 16 settembre 2024, alle ore 17.00, presso l'Aula Consiliare 'Giorgio Fregosi' di Palazzo Valentini, sede della Città metropolitana di Roma Capitale, in via IV Novembre 119/a, la III edizione del prestigioso “Premio Internazionale San Giovanni Paolo II – Gran Gala per la Pace”.
Il Premio, ideato e promosso da Nino Capobianco, è un riconoscimento per l'impegno per la promozione della pace e contro ogni forma di violenza, in particolare quella di genere.
Presidente Onorario del premio è Franco Nero, premiato nel corso della II edizione, e la madrina Alessandra Canale. Conduttori: Margherita Frappa e Nino Capobianco.
Un omaggio a San Giovanni Paolo II. Il riconoscimento, dedicato al Santo che ha fatto della pace il valore fondante dell'umanità, e premia coloro che, attraverso il loro lavoro e le loro opere, contribuiscono a costruire un mondo più giusto e solidale.
Il Premio Internazionale San Giovanni Paolo II – Gran Galà per la Pace è strettamente legato al progetto A.MA.MI., lanciato nel 2018 per combattere il femminicidio e ogni forma di violenza...

Le categorie premiate e i premiati : 

Cinque le categorie per le quali verranno assegnati i premi.
Arte - riceveranno il premio: Simona D' Angelo, Giusy D’Arrigo, Natalia Simonova, Elena


Tomei, Dominika Zamara.
Benessere, Salute e Scienza – riceveranno il premio: Daniela de Feo, Gianluca
Franceschini.

Cultura e Informazione – riceveranno il premio:
Nello de Martino, Feliciana Di Spirito,
Andrea Giostra, George Labrinopoulos, Maria Luisa Lo Monte, Francesco Pionati.

Istituzioni – riceveranno il premio: Maria Berardi, Fabio Capolei, Paolo Coscione,
Margherita Frappa, Don Sergio Mercanzin, Mario de Sclavis, Alberto Di Gianfelice,
Andrea Monaldi, Suor Paola, Nicola Pinto, Renata Polverini, Stefania Proietti, Matilde Siracusano, Pina Stabile, Valeria Toppetti.

Spettacolo e Sport - riceveranno il premio: Raffaello Balzo, Maria Grazia Cucinotta, Enio
Drovandi, Daniela Fazzolari , Michele Gammino, Carmela Mascio, Pascal Persiano,Valeria Pipoli, Riccardo Scamarcio, Emanuela Tittocchia, Miriana Trevisan, Benito Urgu, Massimiliano Varrese

 

 

 

 

Nei giorni scorsi due eventi si sono svolti all’attenzione di chi ha a cuore la crisi umana che attanaglia l’Occidente da almeno mezzo secolo, da quando esplose negli Anni 60 del secolo scorso. Una crisi antropologica che viene da lontano. Si tratta di una aggressione politica e militare da parte di un asse di Paesi uniti fra loro dal rifiuto delle libertà e dall’odio contro la civiltà occidentale, sia per come si è ridotta da decenni di secolarismo, sia per alcuni suoi valori qualificanti, che rimangono nonostante la crisi antropologica. Due eventi hanno cercato di affrontare questa crisi, il primo, Il Festival dell'umano, organizzato dal network Ditelo sui tetti, e la Manifestazione nazionale per la vita, entrambi svoltisi a Roma rispettivamente il 18/19 giugno e il 22 dello stesso mese.

Riprendo dal sito del Governo Italiano Presidenza del Consiglio dei Ministri (governo.it) l’interessante intervento che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che ha pronunciato al “Festival dell’Umano tutto intero”, nella sessione dedicata a “L’eccezione (antropologica) italiana per l’Europa e il mondo”. Vale la pena leggere le profonde riflessioni storiche, culturali, sociali, politiche e religiose. Ho cercato di sintetizzare parzialmente per il giornale.

L'intervento del Sottosegretario Mantovano al 1° Festival dell’«Umano tutto intero»: ’Eccezione (antropologica) italiana è utile al mondo?

L’Italia è un Paese sbagliato. Può dispiacerci, ma è così. È stato quasi sempre dalla parte sbagliata. Ha perduto tutti gli appuntamenti più significativi con la Storia: al momento della rivolta luterana è rimasto con la Chiesa cattolica; ha vissuto sì il Rinascimento, ma conferendo a esso un’impronta di fede; ha mostrato scarso entusiasmo per la Rivoluzione francese, tant’è che quando Napoleone ha condotto in Italia i lumi del progresso sulle baionette dei propri soldati, tutti i popoli della Penisola, chi più chi meno, si sono ribellati; sembrava aver estromesso il potere clericale con la formazione dello Stato unitario, ma poi lo sciagurato Concordato lo ha ripristinato. E così via, fino ai giorni nostri, che vedono nel governo Meloni l’apoteosi dell’anomalia: quella di un popolo che elegge una maggioranza sulla base di un programma elettorale, e questa maggioranza sostiene un governo che prova a essere coerente con quel programma. Sbaglio che più grave non si può, in controtendenza con la felice esperienza dell’ultimo decennio, che invece aveva visto formarsi governi a prescindere dalla variegata e mutevole volontà popolare”.

C’è un momento in cui questo “sbaglio” ha impresso il suo sigillo nella pietra. È descritto in uno di quei romanzi che non dovremmo stancarci di leggere coi nostri figli o coi nostri nipoti: si tratta di Quo vadis?, del polacco Henryk Sienkiewicz, a cui per quest’opera nel 1905 fu riconosciuto il premio Nobel per la letteratura. La storia è conosciuta: a Roma infuria la persecuzione di Nerone, e i Cristiani convincono Pietro ad allontanarsi dall’Urbe perché altrimenti sarebbe stato ucciso. Era una preoccupazione fondata, era più di un rischio: e peraltro da sempre i cristiani pregano per il Papa affinché “non tradat eum in ánimam inimicórum éius”. Così Pietro esce da Roma e inizia a percorrere la via Appia e, nel luogo dal quale adesso parte la strada che conduce alle catacombe di S. Callisto, incrocia un Uomo che invece si dirige verso Roma; non lo riconosce subito, anche se il viandante ha una immagine familiare. Gli domanda: Quo vadis, Domine? La risposta svela a Pietro chi è quell’Uomo e qual è il destino dell’Apostolo: Eo Romam, iterum crucifigi (vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente). Pietro comprende e torna sui suoi passi.

L’incontro, ripreso nel romanzo, deriva da una antichissima tradizione popolare, ricordata dal magistero pontificio. In quel sito sorge la piccola chiesa del "Domine quo vadis": fu visitata nel 1983 da Giovanni Paolo II, che definì quel luogo di "speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa". Perché di "speciale importanza”? Perché segna l’indissolubile originario legame fra Roma e la fede cristiana, e quindi fra l’Italia che ha Roma al centro, e il cristianesimo. Non è un legame solo confessionale: è un legame storico e culturale, che ha impresso nella nostra Nazione un sigillo materiale. Sì, anche quando non esisteva politicamente come Nazione, l’Italia è stata unita nella cultura e nella fede.

Il legame fra Roma e l’Italia si è dilatato in Europa e nel mondo. Lo ha ricordato di recente Ernesto Galli della Loggia, in un’editoriale sul Corriere della sera, quando ha elencato quelli che ha definito i caratteri ambientali, visivi e sonori tipici dell’Europa, che si ritrovano anche oltre gli Oceani, lì dove gli europei si sono radicati. Quei caratteri sono partiti da Roma e, percorrendo le vie consolari, hanno raggiunto ogni angolo dell’Europa e del mondo.

Quel sigillo ha lasciato il segno nella pietra, nel senso più concreto del termine: la piccola chiesa è stata edificata attorno all’impronta dei piedi che, sempre secondo la tradizione, Cristo ha impresso sul selciato della via Appia. Luogo di "speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa": nel momento in cui Pietro, pietra angolare su cui viene edificata la Chiesa, viene unito a Roma, perfino le pietre di Roma ne diventano testimoni per i millenni che seguiranno.

Quello che una robusta corrente del pensiero, della politica, dell’economia e della finanza considera da secoli uno “sbaglio”, inizia proprio da lì. Per Giovanni Paolo II non era uno “sbaglio”, lo definiva al contrario una “eccezione”, la c.d. “eccezione italiana”: il Papa Santo usava questa espressione per intendere la straordinaria resistenza della nostra Nazione attorno ai suoi principi identificativi.

Non voglio aprire il capitolo di quanto di questa eccezione sopravviva oggi. Il mix costituito da sentenze della Corte costituzionale, sentenze dei giudici di legittimità e di merito, e di leggi su materie eticamente sensibili approvate nelle ultime legislature, in particolare durante il governo Renzi, hanno circoscritto notevolmente l’area della eccezione. Questi provvedimenti hanno inciso sul comune sentire.

L'immagine della statua della maternità rifiutata dagli esperti del Comune di Milano è la sintesi di tutta questa deriva. Le immagini sintetizzano meglio delle parole. l’opera in bronzo, intitolata Dal 'latte materno veniamo', rappresenta una donna che allatta al seno un neonato, una stata donata dalla scultrice Vera Amodeo al capoluogo lombardo dai figli dell’artista. La sua posa doveva avvenire in una piazza della città, ma ha avuto il parere contrario della commissione del Comune, con la seguente motivazione: “La scultura rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, ragion per cui non viene dato parere favorevole all’inserimento in uno spazio condiviso”. E' la certificazione evidente che viviamo un periodo in cui ci stiamo allontanando dall’essere eccezione (viene in mente la furia che in alcune città USA ha portato alla rimozione delle statue di Colombo, et similia)! Sarebbe interessante capire cosa ne pensano i componenti della Commissione su come su come ciascuno di loro è venuto al mondo!

Ma, grazie a Dio, qualche residuo di anormalità in Italia c’è ancora. Se ne ha traccia non solo nello scandalo di un governo che si è formato in coerenza col voto popolare, ma pure in qualche profilo che, dalla prospettiva che affrontiamo oggi, e in particolare in questo panel, è stato poco scandagliato.

Il G7 dei capi di Stato e di Governo ha attestato l’importanza dell’avvio da parte dell’Italia del “piano Mattei per l’Africa”. L’Italia non arriva certamente per prima in Africa. Ma costituisce una eccezione il modo in cui, fra mille difficoltà, affrontando mille ostacoli, con mille incertezze, essa ha proposto e sta seguendo l’avvio del Piano. È una eccezione quanto alla modalità di interlocuzione con le singole Nazioni africane. Fa eccezione certamente rispetto a come in questi anni Russia e Cina intervengono in Africa: la Russia con contingenti in armi, aprendo nuove basi militari, appoggiando rivolgimenti violenti, tutelando l’estrazione delle materie prime nelle aree a maggiore rischio; la Cina con la sua finora inarrestata espansione infrastrutturale, commerciale e tecnologica.

Ma il modo italiano è differente anche rispetto ad altre Nazioni europee, che fino a un recente passato hanno utilizzato - e in parte ancora utilizzano - le incredibili ricchezze dell’Africa, con scarso ritorno per le popolazioni locali: adesso ne pagano il prezzo, essendo costrette a ridimensionare la loro presenza e a ritirarsi. Il Piano Mattei risponde a una logica differente: quella di un approccio paritario, che certamente distingue fra le Nazioni che mettono a disposizione le risorse, e le Nazioni destinatarie delle risorse medesime. Il sottosegretario risponde alle critiche  Rispondo a chi critica il Piano perché non sarebbe preciso nei dettagli: noi abbiamo scelto di stabilire la governance e le linee di fondo, e non intendiamo imporre nulla dall’alto. Il Piano Mattei non è un diktat: è un orizzonte entro il quale definire ogni singolo passo sulla base di un confronto paritario con gli interlocutori africani, rendendo sempre stretti i reciproci legami di fiducia e di collaborazione.

Questo vuol dire guardare all’Africa con spirito costruttivo e non predatorio. A chi dice che pensiamo di conferire risorse a Paesi di origine o di transito dei migranti, quasi fosse un corrispettivo perché loro controllino le partenze, rispondo che questa era l’impostazione dell’Unione europea nei confronti degli Stati europei di primo approdo prima che il governo italiano - quello in carica - la ribaltasse: in sintesi, denaro in cambio del trattenimento dei migranti. La dinamica del Piano Mattei è diversa: favorendo lo sviluppo negli Stati di origine, si creano le condizioni per non emigrare; curando la formazione di chi comunque intende lasciare il proprio Paese, ci si assicura già a monte, attraverso flussi migratori regolari, un percorso di integrazione anzitutto lavorativa. Abbiamo iniziato mettendo ordine nella quantità frammentata di risorse del nostro sistema di cooperazione: fermando gli interventi a pioggia, concentrandoci su progetti che lascino traccia.
È un approccio che rispetta non soltanto i popoli africani e i loro governanti, ma anche le singole persone. Dobbiamo stroncare la prospettiva che il modo per arrivare in Italia e in Europa sia quello di affidare il proprio denaro e la propria vita ai trafficanti, e di affrontare viaggi disperati. L’eccezione italiana deve essere anche questa, non quella di sostenere ong che si collochino al limite delle acque territoriali libiche o tunisine per raccogliere chi parte sui barchini: perché quel sostegno, anche solo finanziario, fatto anche con le migliori intenzioni, è un incentivo ai traffici di morte.

L’eccezione italiana fuori dall’Italia ha un altro scenario di riferimento: quello latinoamericano e si declina nella collaborazione per il contrasto al narcotraffico. I clan criminali mettono in ginocchio troppe aree del Sud e del Centro America, condizionano la vita quotidiana, distorcono l’economia, corrompono la politica. L’Italia fornisce know-how e concreta collaborazione per combattere questa deriva: la nostra legislazione è presa a modello, nostri funzionari e ufficiali delle forze di polizia svolgono attività di addestramento, nostri magistrati suggeriscono percorsi di indagini. Anche su questo terreno l’eccezione italiana si manifesta con efficacia.

Anche nel modo di trattare le crisi internazionali, a cominciare da quella in Ucraina e da Gaza, l’Italia fa valere il suo tratto. Penso, al netto degli aiuti in termini di difesa, a quanto l’Italia ha fatto e sta facendo per garantire l’energia elettrica in una parte significativa del territorio ucraino e all’avvio dei progetti per la ricostruzione a Odessa. Oppure, quanto a Gaza, all’impegno congiunto della nostra Difesa, dell’intelligence, degli Esteri, e della Salute, che finora ha permesso di tirare fuori da quell’inferno 58 bambini gravemente feriti e 98 maggiorenni, loro familiari, per condurli nei principali ospedali della nostra Penisola, per lo più pediatrici. È un gesto di concreta vicinanza a ciascuno di loro, ma è al tempo stesso un segnale di pace in quell’area: come abbiamo condannato l’attacco terroristico contro Israele, così soccorriamo, per quello che ci viene permesso, i piccoli che ne subiscono le conseguenze. E attraverso questo proviamo a stabilire condizioni di reciproca fiducia che permettano le interlocuzioni necessarie per comporre la crisi.

Chiudo da dove ho iniziato: dal legame fra Roma e Pietro, che è all’origine della eccezione italiana. Ci sono stati momenti in cui Pietro si è allontanato da Roma: non sono stati anni felici. S. Caterina da Siena è stata proclamata Patrona d’Italia anche per il suo impegno per riportare il Papa da Avignone a Roma. Sono molto grato alle associazioni che costituiscono il network Sui tetti, a chi lo promuove, e a chi ha organizzato questa due giorni di riflessione perché fornisce il suo contributo a che questo legame continui a esserci.
Nel 2001, dopo aver assistito alla proiezione di un nuovo film tratto dal romanzo di Henryk Sienkiewicz, Giovanni Paolo II commentò in questo modo: “Non si può capire l’odierno quadro della Chiesa e della spiritualità cristiana (se) non ritornando alle vicende religiose degli uomini che, entusiasmati dalla Buona notizia su Gesù Cristo, divennero i Suoi testimoni. Bisogna ritornare a questo dramma che si verificò nelle loro anime, in cui si confrontarono l’umano timore e il sovrumano coraggio, il desiderio di vivere e la volontà di essere fedele fino alla morte, il senso della solitudine davanti all’impassibile odio e nello stesso tempo l’esperienza della potenza che scaturisce dalla vicina, invisibile presenza di Dio e dalla comune fede della Chiesa nascente. Bisogna ritornare a quel dramma perché nasca la domanda: qualcosa di quel dramma si verifica in me?”.

Le giornate che stanno per concludersi attestano quanto voi intendiate essere non soltanto testimoni ma soprattutto protagonisti, ciascuno per il suo, di questo incredibile dramma, in una Nazione eccezionale qual è l’Italia.

Il Caracalla Festival omaggia Giacomo Puccini nei cento anni dalla scomparsa con una nuova produzione di Tosca, proposta dal 5 luglio al 9 agosto con il progetto scenografico di Massimiliano e Doriana Fuksas, al loro debutto nell’opera lirica. La regia è affidata a Francesco Micheli, mentre sul podio sale Antonino Fogliani. Nei ruoli protagonistici grandi voci della lirica: Sonya Yoncheva, Vittorio Grigolo, Carmen Giannattasio e Saimir Pirgu. Orchestra e Coro, diretto da Ciro Visco, con la partecipazione della Scuola di Canto Corale, sono del Teatro dell’Opera di Roma. La drammaturgia è di Alberto Mattioli, i costumi di Giada Masi e le luci di Alessandro Carletti. Video di Luca Scarzella, Michele Innocente e Matteo Castiglioni. I movimenti coreografici sono di Mattia Agatiello.
«Tutto, in Tosca, a partire dai luoghi che scandiscono i tre atti, evoca la costruzione di regole, l’uso e l’abuso del potere - dice Francesco Micheli - La città di Roma, che ha concepito la grande potenza spirituale e quella temporale, la chiesa cristiana e l’impero Romano, vede questi due soggetti accomunati da un’identica forma di espressione: l’alfabeto capitolare latino. Quindi, nell’allestimento, diremo delle cose utilizzandolo: e se di solito Tosca è un’opera naturalista, lo spazio assoluto concepito da Massimiliano e Doriana Fuksas diventerà una sorta di pergamena su cui imprimere delle parole definitive, ovviamente in latino. Ma la messa in scena vuole essere anche un omaggio ad Anna Magnani, perché come Tosca è Roma, Roma è Anna Magnani. Tanto è vero che nel film Avanti a lui tremava tutta Roma lei è una sorta di Tosca novecentesca, una partigiana che lotta per la libertà».
Ad alternarsi del ruolo di Floria Tosca sono Carmen Giannattasio (5, 17, 26 luglio; 3, 7 e 9 agosto), già protagonista al Costanzi della regia di Alessandro Talevi che riprendeva la prima rappresentazione assoluta del 1900, e Sonya Yoncheva (24 e 31 luglio). A cantare Cavaradossi sono invece Saimir Pirgu (5, 17, 26 luglio), Vittorio Grigolo (24 e 31 luglio) e Arsen Soghomonyan (3, 7 e 9 agosto). Yoncheva e Grigolo tornano a interpretare insieme i protagonisti del più romano dei capolavori di Puccini dopo il grande successo ottenuto nella tournée della Fondazione Capitolina in Giappone a settembre 2023. Nella parte di Scarpia, invece, due formidabili interpreti: Claudio Sgura (5 luglio; 3, 7 e 9 agosto) e Roberto Frontali (17, 24, 26 e 31 luglio), che torna sul palcoscenico delle Terme romane dopo aver incarnato Rigoletto nell’allestimento di Damiano Michieletto la scorsa estate. Completano il cast Domenico Colaianni (Sagrestano), Saverio Fiore (Spoletta) e Vladimir Sazdovski (Angelotti).
Dal 16 luglio al 10 agosto l’omaggio a Puccini del Caracalla Festival 2024 prosegue con la messa in scena dell’ultimo lavoro del compositore lucchese, Turandot. Anche quest’opera viene proposta con il progetto scenografico di Massimiliano e Doriana Fuksas e la regia di Francesco Micheli, affiancati dallo stesso team creativo di Tosca. Diretta da Donato Renzetti, Turandot vede alternarsi nel ruolo della protagonista Angela Meade (16, 25, 28 luglio; 2 e 4 agosto) e Lise Lindstrom (6, 8 e 10 agosto), apprezzatissima protagonista del recente allestimento della Salome di Strauss con la regia di Barrie Kosky al Teatro Costanzi. Tra le voci più richieste del momento, Meade torna a cantare con l’Opera di Roma dopo il successo dell’Ernani del 2022 e sale per la prima volta sul palcoscenico di Caracalla a poco più di un mese dal suo debutto nel ruolo della principessa Turandot alla Los Angeles Opera. Nella parte di Calaf sono impegnati Luciano Ganci (16 luglio; 2, 4, 6, 8 agosto), Brian Jagde (25, 28 luglio) e Arsen Soghomonyan (10 agosto); in quella di Liù Maria Grazia Schiavo (16, 25, 28 luglio; 4 agosto) e Juliana Grigoryan (2, 6, 8 e 10 agosto). Piero Giuliacci canta l’imperatore Altoum, Alessio Cacciamani Timur. Ping, Pong e Pang sono rispettivamente interpretati da Haris Adrianos, Marcello Nardis e Marco Miglietta. Mattia Rossi, dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma, è impegnato nella parte di Un mandarino. Orchestra e Coro, diretto da Ciro e Visco, con la partecipazione della Scuola di Canto Corale, sono della Fondazione Capitolina.
La prima rappresentazione di Tosca è prevista per venerdì 5 luglio. Repliche mercoledì 17, mercoledì 24, venerdì 26 e mercoledì 31 luglio, sabato 3, mercoledì 7 e venerdì 9 agosto. Tutte le rappresentazioni iniziano alle ore 21.00.

 

Vi siete chiesti quale dovrebbe essere il discorso più importante che ogni politico o operatore sociale dovrebbe fare? Che cosa dovrebbe preoccupare maggiormente? Prendere atto che stiamo vivendo un'epoca dove L’inverno demografico nei Paesi occidentali avanza e si fa sempre più freddo. Da anni ormai gli studi, le ricerche e le statistiche lo ribadiscono costantemente. Tutti gli Stati Osce continuano a registrare un calo del tasso di fecondità e nell’area europea l’Italia, insieme alla Spagna, sono quelli con il tasso più basso (1,2 figli per donna). Fare queste riflessioni non significa stimolare il pessimismo o essere degli uccelli di malaugurio. Qualsiasi azione politica, sociale e culturale deve partire da qui, dal declino demografico. Collegato a questa questione c'è la piaga dell'aborto. Bisogna affrontare la “buona battaglia” contro l'aborto, per invertire il trend della denatalità. Vogliamo che l'inverno demografico venga sconfitto? Bisogna iniziare a combattere l'aborto senza fanatismi, pazientemente con un'azione culturale di sensibilizzazione delle nuove generazioni. Al momento attuale è impensabile voler cancellare la Legge 194, non ci sono le condizioni. Il lavoro da fare è quello che sta facendo il network “Ditelo sui Tetti” di Domenico Menorello, con il 1° Festival dell'umano “Pro Vita & Famiglia onlus”, di Jacopo Coghe e Maria Rachele Ruiu, di Family Day di Massimo Gandolfini. Un grande lavoro che sfocia nella grande manifestazione per la Vita a Roma. Quest'anno si è svolta il 22 giugno scorso con la partecipazione di circa trentamila persone.

Da troppi anni la dittatura ideologica dei cosiddetti diritti civili, mette in discussione la vita umana dal concepimento alla morte naturale, negli ultimi mesi si registra una vera e propria escalation dei vari promotori della cultura della morte. Perfino al G7, il presidente Emmanuel Macron si è lamentato perché mancava la citazione del diritto di aborto in un documento finale. I seguaci della cultura della morte invece di preoccuparsi della tragedia della denatalità che sta colpendo tutto l'Occidente, si preoccupano di promuovere aborti per tutti.

“Se non è questo un tentativo di indottrinamento ideologico contro ogni semplice buon senso, di imposizione di un pensiero profondamente antiumano ed immorale, c’è da chiedersi che cosa di più malvagio dobbiamo ancora aspettarci”, si chiede Massimo Gandolfini, promotore della Manifestazione “Scegliamo la Vita” del 22 giugno. Una manifestazione di un popolo che principalmente vuole diventare il “popolo per la vita”, pronto a sfilare per le vie della capitale allo scopo di manifestare pubblicamente la bellezza della vita, che supera e sorpassa tutte le devastanti ideologie mortifere, dall’aborto al suicidio assistito, all’eutanasia, alla vendita di esseri umani, in particolare di bambini”.

Il profeta Isaia, nell’VIII secolo avanti Cristo, condannava duramente coloro che “chiamano bene il male e male il bene”, esattamente come sta accadendo oggi, nel nostro tempo, quando l’eliminazione di un bimbo nel grembo materno viene presentato e promosso come una grande conquista sociale, un bene che la modernità deve patrocinare e difendere dai “fascismi” che lavorano per difendere il suo diritto alla vita. E che dire di un povero malato, sofferente e “disperato”, o anche più semplicemente depresso sotto il peso di una vita difficile, che invece di essere aiutato grazie ai tanti presidi della medicina palliativa, viene “dignitosamente” aiutato a suicidarsi, con l’ignobile pretesto del “l’ha chiesto lui”?

Certamente i mezzi di cui dispone la dittatura del pensiero unico, del politicamente corretto, sono enormi, ed il rischio della rassegnazione al male è davvero incombente. Ma non dobbiamo rassegnarci. “La storia ci insegna che le maggioranze corrotte, violente, inneggianti a principi in palese contrasto con la legge naturale e il senso dell’umano che è in ciascuno di noi, dopo un temporaneo effimero successo, sono crollate e quelle piccole, sparute minoranze che hanno difeso principi e valori che costruiscono il bene comune, hanno ricondotto i popoli sui binari della vera giustizia, libertà e pace”.

Oggi la cancel culture, il pensiero woke si propongono di silenziare, estromettere dal dibattito pubblico, ogni voce dissenziente, che ha il coraggio di “chiamare le cose con il loro nome” come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II in tema di aborto e eutanasia.

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