Intelligenza Artificiale e lavoro creativo
Appaiono evidenti gli effetti dell’Intelligenza Artificiale - mi riferisco a quella categoria di tecnologie di cui “ChatGpt” è la più nota - sul mondo delle arti visive, della musica, della letteratura e sull’industria dell’entertainment. Insomma, sul lavoro, sia esso prestato in forma autonoma sia subordinata, che implica un elevato grado di creatività.
Il fenomeno si sta imponendo oggi prepotentemente all’attenzione degli studiosi e degli operatori giuridici, ma l’origine dell’espressione “intelligenza artificiale” risale molto indietro nel tempo. Personalmente, l’ho incontrata per la prima volta durante i miei studi universitari nel libro del prof. Vittorio Frosini (1922-2001), Cibernetica, diritto e società (Edizioni di Comunità, Milano 1968, ristampato nel 2023 dalle Edizioni Roma Tre-Press) che, già a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, aveva affrontato l’indagine delle conseguenze della rivoluzione tecnologica nell’ambito delle scienze umane. Nel testo l’autore ipotizzava addirittura la possibilità di una “coscienza artificiale” e descriveva l’uomo come anello di congiunzione tra il mondo della natura e il mondo della tecnica, tra la bestia e la macchina ormai capace di apprendimento e di giudizi di valore.
Nei primi anni Novanta il filosofo e artista Tomás Maldonado (1922-2018) avvertiva che sarebbe stato necessario misurarsi con le ripercussioni dell’intelligenza artificiale sul processo creativo artistico e prevedeva che le tecnologie emergenti avrebbero determinato una «dematerializzazione della nostra realtà nel suo complesso», segnatamente nel campo dell’arte, evidenziando peraltro che l’idea di dematerializzazione aveva già avuto un ruolo importante nei programmi e manifesti delle neoavanguardie artistiche e in particolare dell’arte concettuale (Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1993, p. 10).
Il superamento della corporea fisicità dell’oggetto artistico è oggi contrassegnato dai cosiddetti NFTs (Non-fungible tokens), in grado di certificare l’autenticità dell’arte digitalizzata (id est, l’autenticità dell’opera tradotta in immagine digitale) mediante il sistema della blockchain, utilizzato, nel mondo della finanza, per le criptovalute. Questa tecnologia sembra sancire il “mutamento di paradigma”, da lungo tempo in corso, realizzatosi attraverso le forme dell’arte contemporanea (arte concettuale, ready-made, performance), le quali hanno raggiunto un tale grado di astrazione e concettualizzazione da mettere in crisi il postulato, generalmente riconosciuto nella dottrina del diritto d’autore, che non siano le idee a essere protette, ma la loro espressione.
Con riferimento alle opere connotate dalla prevalenza dell’idea sull’espressione, lo storico dell’arte Jean Clair (Considérations sur l’État des Beaux-Arts. Critique de la modernité, Gallimard, 1983, p. 20) ha detto, parafrasando ironicamente René Magritte (1898-1967), che esse dovrebbero essere identificate mediante la didascalia “Ceci est une œuvre d’art” (“Questa è un’opera d’arte”). Di fronte a tale cambio di paradigma, causato da opere che talvolta sembrano avere come unico scopo quello di creare disturbo e che quanto più sono misere tanto più sono cospicui al loro riguardo i commenti degli esegeti, vi è chi ha parlato di “morte dell’arte”, di “nuova iconoclastia” e di un “folle rancore” dell’artista «che non riesce a raggiungere le altezze del passato» (Dalmazio Frau, Crociata contro l’arte, Idrovolante Edizioni, 2017, p. 133).
Come ha notato un giurista americano, oggi l’arte si sottrae a ogni intento definitorio con la conseguenza che i tentativi di circoscriverne giuridicamente il concetto si dimostrano velleitari se non controproducenti (D. McClean, The Trials of Art, Ridinghouse, London, 2007, 26). Eppure, in mancanza della possibilità di una definizione, non solo di carattere giuridico, l’arte rischia di snaturarsi, di trasformarsi in qualcosa di evanescente, di perdere la propria autonomia e il proprio fondamento ontologico, di ridursi a «enigma senza soluzione né mistero» (Elémire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990, p. 62).
Le applicazioni dell’intelligenza artificiale, con le loro enormi potenzialità e la loro capacità di generare testi complessi e immagini, si inscrivono in questo contesto e rendono ancora più problematica la sopravvivenza di spazi di originalità e creatività umane. Ciò esercita un influsso dissuasivo sulla disposizione dell’artista a esprimersi attraverso le sue opere e a renderne partecipe la collettività, contribuendo al progresso sociale e culturale. Nello sforzo di esprimere qualcosa di autenticamente nuovo, impresa di per sé vieppiù ardua, l’artista si trova infatti a fronteggiare anche la concorrenza dell’intelligenza artificiale, a meno che non riesca a strumentalizzarla ai fini della propria creatività.
Oggi, le espressioni più all’avanguardia dell’arte contemporanea sono sussumibili nel concetto di arte in quanto un circolo ristretto di finanzieri, grandi mercanti, direttori di musei (cioè i padroni del mercato) decidono in tal senso. Il criterio epistemologico della falsificabilità non può più essere applicato all’opera d’arte contemporanea: non esiste alcun metro, al di là del giudizio discrezionale dei suddetti soggetti, per affermare che un’opera sia artistica o che non lo sia. L’intelligenza artificiale si inserisce in questo processo rischiando di ridurre ulteriormente il campo dell’autenticità creativa suscettibile (e meritevole) di tutela giuridica.
Come evidenzia lo sciopero a oltranza degli sceneggiatori americani, l’intelligenza artificiale non insidia soltanto la creatività ma anche i posti di lavoro. È auspicabile che, come avvenuto in passato, anche in questo caso la capacità della tecnologia di sostituirsi ai lavoratori si dimostri più debole della forza complementare che aumenta la domanda di manodopera umana altrove. Tuttavia, secondo alcuni studiosi questo è soltanto un pio desiderio. La linea di pensiero più pessimistica rileva, infatti, che l’attuale rivoluzione tecnologica non è comparabile con le precedenti rivoluzioni industriali, essendo la prima skill-biased e le seconde unskill-biased. Queste ultime anziché favorire la competenza, favorivano la mancanza di competenza e, pertanto, se da un lato avessero reso obsolete certe figure professionali specializzate, dall’altro avrebbero offerto occupazione a masse di operai poco qualificati (in questo senso, v. D. Susskind, Un mondo senza lavoro. Come rispondere alla disoccupazione tecnologica, Giunti Editore, Firenze, 2022). Secondo questa corrente di pensiero, dunque, la minaccia della disoccupazione tecnologica sarebbe oggi reale, anche perché la gamma di compiti non suscettibili di essere automatizzati sarebbe destinata a ridursi sensibilmente. Si prospetterebbe un mondo con meno lavoro retribuito, in cui i disoccupati, beneficiari di un reddito universale di base, dovrebbero dare un contributo di solidarietà svolgendo attività socialmente utili (lavoro non salariato).
In questo quadro a tinte fosche, oso esprimere una previsione ottimistica.
È noto che le macchine ormai prevalgono sugli esseri umani in molti campi e, in particolare, nel gioco degli scacchi. Esse, tuttavia, sono meno efficienti in giochi, come il poker, caratterizzati da bluff, da tattiche di inganno, da comportamenti apparentemente irrazionali e dall’imprevedibilità del caso. Queste caratteristiche sono presenti anche nelle negoziazioni e specialmente nelle trattative sindacali, situazioni in cui ciascuna delle parti tende a massimizzare il proprio vantaggio utilizzando a pieno la propria forza contrattuale anche a scapito di una soluzione equilibrata. Nessun negoziatore che abbia fiducia nella propria capacità persuasiva delegherebbe a una macchina la composizione della controversia, salvo che non sia in una posizione di assoluta debolezza (ma, in tal caso, la controparte si opporrebbe). Io penso allora che questo genere di attività continueranno per molto tempo a essere appannaggio degli esseri umani.