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Martedì, 20 Maggio 2025

Appaiono evidenti gli effetti dell’Intelligenza Artificiale - mi riferisco a quella categoria di tecnologie di cui “ChatGpt” è la più nota - sul mondo delle arti visive, della musica, della letteratura e sull’industria dell’entertainment. Insomma, sul lavoro, sia esso prestato in forma autonoma sia subordinata, che implica un elevato grado di creatività.

Il fenomeno si sta imponendo oggi prepotentemente all’attenzione degli studiosi e degli operatori giuridici, ma l’origine dell’espressione “intelligenza artificiale” risale molto indietro nel tempo. Personalmente, l’ho incontrata per la prima volta durante i miei studi universitari nel libro del prof. Vittorio Frosini (1922-2001), Cibernetica, diritto e società (Edizioni di Comunità, Milano 1968, ristampato nel 2023 dalle Edizioni Roma Tre-Press) che, già a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, aveva affrontato l’indagine delle conseguenze della rivoluzione tecnologica nell’ambito delle scienze umane. Nel testo l’autore ipotizzava addirittura la possibilità di una “coscienza artificiale” e descriveva l’uomo come anello di congiunzione tra il mondo della natura e il mondo della tecnica, tra la bestia e la macchina ormai capace di apprendimento e di giudizi di valore.

Nei primi anni Novanta il filosofo e artista Tomás Maldonado (1922-2018) avvertiva che sarebbe stato necessario misurarsi con le ripercussioni dell’intelligenza artificiale sul processo creativo artistico e prevedeva che le tecnologie emergenti avrebbero determinato una «dematerializzazione della nostra realtà nel suo complesso», segnatamente nel campo dell’arte, evidenziando peraltro che l’idea di dematerializzazione aveva già avuto un ruolo importante nei programmi e manifesti delle neoavanguardie artistiche e in particolare dell’arte concettuale (Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1993, p. 10).

Il superamento della corporea fisicità dell’oggetto artistico è oggi contrassegnato dai cosiddetti NFTs (Non-fungible tokens), in grado di certificare l’autenticità dell’arte digitalizzata (id est, l’autenticità dell’opera tradotta in immagine digitale) mediante il sistema della blockchain, utilizzato, nel mondo della finanza, per le criptovalute. Questa tecnologia sembra sancire il “mutamento di paradigma”, da lungo tempo in corso, realizzatosi attraverso le forme dell’arte contemporanea (arte concettuale, ready-made, performance), le quali hanno raggiunto un tale grado di astrazione e concettualizzazione da mettere in crisi il postulato, generalmente riconosciuto nella dottrina del diritto d’autore, che non siano le idee a essere protette, ma la loro espressione.

Con riferimento alle opere connotate dalla prevalenza dell’idea sull’espressione, lo storico dell’arte Jean Clair (Considérations sur l’État des Beaux-Arts. Critique de la modernité, Gallimard, 1983, p. 20) ha detto, parafrasando ironicamente René Magritte (1898-1967), che esse dovrebbero essere identificate mediante la didascalia “Ceci est une œuvre d’art” (“Questa è un’opera d’arte”). Di fronte a tale cambio di paradigma, causato da opere che talvolta sembrano avere come unico scopo quello di creare disturbo e che quanto più sono misere tanto più sono cospicui al loro riguardo i commenti degli esegeti, vi è chi ha parlato di “morte dell’arte”, di “nuova iconoclastia” e di un “folle rancore” dell’artista «che non riesce a raggiungere le altezze del passato» (Dalmazio Frau, Crociata contro l’arte, Idrovolante Edizioni, 2017, p. 133).

Come ha notato un giurista americano, oggi l’arte si sottrae a ogni intento definitorio con la conseguenza che i tentativi di circoscriverne giuridicamente il concetto si dimostrano velleitari se non controproducenti (D. McClean, The Trials of Art, Ridinghouse, London, 2007, 26). Eppure, in mancanza della possibilità di una definizione, non solo di carattere giuridico, l’arte rischia di snaturarsi, di trasformarsi in qualcosa di evanescente, di perdere la propria autonomia e il proprio fondamento ontologico, di ridursi a «enigma senza soluzione né mistero» (Elémire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990, p. 62).

Le applicazioni dell’intelligenza artificiale, con le loro enormi potenzialità e la loro capacità di generare testi complessi e immagini, si inscrivono in questo contesto e rendono ancora più problematica la sopravvivenza di spazi di originalità e creatività umane. Ciò esercita un influsso dissuasivo sulla disposizione dell’artista a esprimersi attraverso le sue opere e a renderne partecipe la collettività, contribuendo al progresso sociale e culturale. Nello sforzo di esprimere qualcosa di autenticamente nuovo, impresa di per sé vieppiù ardua, l’artista si trova infatti a fronteggiare anche la concorrenza dell’intelligenza artificiale, a meno che non riesca a strumentalizzarla ai fini della propria creatività.

Oggi, le espressioni più all’avanguardia dell’arte contemporanea sono sussumibili nel concetto di arte in quanto un circolo ristretto di finanzieri, grandi mercanti, direttori di musei (cioè i padroni del mercato) decidono in tal senso. Il criterio epistemologico della falsificabilità non può più essere applicato all’opera d’arte contemporanea: non esiste alcun metro, al di là del giudizio discrezionale dei suddetti soggetti, per affermare che un’opera sia artistica o che non lo sia. L’intelligenza artificiale si inserisce in questo processo rischiando di ridurre ulteriormente il campo dell’autenticità creativa suscettibile (e meritevole) di tutela giuridica.

Come evidenzia lo sciopero a oltranza degli sceneggiatori americani, l’intelligenza artificiale non insidia soltanto la creatività ma anche i posti di lavoro. È auspicabile che, come avvenuto in passato, anche in questo caso la capacità della tecnologia di sostituirsi ai lavoratori si dimostri più debole della forza complementare che aumenta la domanda di manodopera umana altrove. Tuttavia, secondo alcuni studiosi questo è soltanto un pio desiderio. La linea di pensiero più pessimistica rileva, infatti, che l’attuale rivoluzione tecnologica non è comparabile con le precedenti rivoluzioni industriali, essendo la prima skill-biased e le seconde unskill-biased. Queste ultime anziché favorire la competenza, favorivano la mancanza di competenza e, pertanto, se da un lato avessero reso obsolete certe figure professionali specializzate, dall’altro avrebbero offerto occupazione a masse di operai poco qualificati (in questo senso, v. D. Susskind, Un mondo senza lavoro. Come rispondere alla disoccupazione tecnologica, Giunti Editore, Firenze, 2022). Secondo questa corrente di pensiero, dunque, la minaccia della disoccupazione tecnologica sarebbe oggi reale, anche perché la gamma di compiti non suscettibili di essere automatizzati sarebbe destinata a ridursi sensibilmente. Si prospetterebbe un mondo con meno lavoro retribuito, in cui i disoccupati, beneficiari di un reddito universale di base, dovrebbero dare un contributo di solidarietà svolgendo attività socialmente utili (lavoro non salariato).

In questo quadro a tinte fosche, oso esprimere una previsione ottimistica.

È noto che le macchine ormai prevalgono sugli esseri umani in molti campi e, in particolare, nel gioco degli scacchi. Esse, tuttavia, sono meno efficienti in giochi, come il poker, caratterizzati da bluff, da tattiche di inganno, da comportamenti apparentemente irrazionali e dall’imprevedibilità del caso. Queste caratteristiche sono presenti anche nelle negoziazioni e specialmente nelle trattative sindacali, situazioni in cui ciascuna delle parti tende a massimizzare il proprio vantaggio utilizzando a pieno la propria forza contrattuale anche a scapito di una soluzione equilibrata. Nessun negoziatore che abbia fiducia nella propria capacità persuasiva delegherebbe a una macchina la composizione della controversia, salvo che non sia in una posizione di assoluta debolezza (ma, in tal caso, la controparte si opporrebbe). Io penso allora che questo genere di attività continueranno per molto tempo a essere appannaggio degli esseri umani.

 

Un cristiano nel braccio della morte. Il mio impegno a fianco dei condannati, con Prefazione di Papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024, pp. 192), più che una testimonianza autobiografica, è la condivisione di un’esperienza di vita forte e sconvolgente. Il protagonista è Dale Recinella, avvocato di successo a Wall Street (sede della Borsa di New York) che, dopo un’esperienza grave di malattia, decide a quarant’anni suonati di cambiare radicalmente vita dedicandosi ad una particolare “categoria” di poveri: i condannati a morte nelle carceri statunitensi, assistendoli spiritualmente come “cappellano laico”.

La sua storia di accompagnamento e sostegno delle persone condannate alla pena capitale ed ai loro familiari è una testimonianza della vicinanza misericordiosa di Dio agli esclusi ed ai dimenticati, come raccontato in occasione del suo intervento all’incontro “Papa Francesco. Misericordia e missione”, che si è tenuto al Meeting di Rimini il 24 agosto 2024. Attraverso gli oltre trent’anni di ministero nelle carceri, infatti, Recinella ha sperimentato direttamente «che accompagnare quanti sono ai margini dentro ai recinti di filo spinato significa entrare nella misericordia di Dio. […] Poco a poco, un appuntamento di preghiera per volta, gli uomini diventano più che semplici nomi sulle divise carcerarie blu. Emergono persone reali, con storie reali e vite reali» (Dale Recinella, Meglio accendere una candela che maledire il buio, L’Osservatore Romano, 24 agosto 2024, p. 4).

Si capisce quindi come il tono narrativo del libro Un cristiano nel braccio della morte riesca a coinvolgere il lettore in una storia incredibile e di grande impatto emotivo perché l’Autore, classe 1951, laureato in legge e in teologia, insieme alla moglie Susan, dopo l’esperienza personale d’incontro e di conversione a Gesù ha deciso fin dal 1998 di accompagnare spiritualmente i condannati a morte in alcuni dei penitenziari della Florida. Si tratta di uno Stato nel quale il metodo ordinario di esecuzione è l’iniezione letale e, pochi giorni dall’appena citato intervento di Recinella al “Meeting per l’amicizia fra i popoli” di Comunione e Liberazione, ovvero il 29 agosto del 2024, con tale brutale metodo è stata eseguita l’ultima (per ora) sessantottesima esecuzione della pena capitale eseguita in Florida dal 1997 ad oggi.

La vicenda umana e spirituale di Dale Recinella è conosciuta in Italia anche per gli articoli scritti negli ultimi anni per il quotidiano ufficioso della Santa Sede L’Osservatore Romano. Il suo recente libro-testimonianza, però, descrive a tutto tondo come sia stato possibile che un uomo, con in testa ben altri traguardi da raggiungere nel proprio futuro, sia diventato “a tempo pieno” il cappellano, da professionista laico, marito e padre di famiglia, dei condannati alla pena capitale. Una missione sempre più difficile e delicata se, come rileva Papa Francesco nella sua Prefazione, le esecuzioni capitali ormai, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di odio e di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso sia per i condannati sia per il corpo delle nostre società civili.

«A Dale Recinella vorrei quindi - aggiunge il Pontefice -, dire un grazie sincero e commosso: perché la sua azione di cappellano nel braccio della morte è una tenace e appassionata adesione alla realtà più intima del Vangelo di Gesù, che è la misericordia di Dio, il suo amore gratuito e indefesso per ogni persona, anche per coloro che hanno sbagliato. E che proprio da uno sguardo d’amore, come quello di Cristo sulla croce, possono trovare un senso nuovo al loro vivere e, anche, al loro morire».

«Il Vangelo - ribadisce a tal proposito il Santo Padre - è l’incontro con una Persona viva che cambia la vita: Gesù è capace di rivoluzionare i nostri progetti, le nostre aspirazioni e le nostre prospettive. Conoscere Lui vuol dire riempire di significato la nostra esistenza perché il Signore ci offre la gioia che non passa. Perché è la gioia stessa di Dio» (Papa Francesco, La pena di morte non fa giustizia ma è un veleno per la società, L’Osservatore Romano, 19 agosto 2024, p. 7).

Quello di Recinella e di tutti i “cappellani delle carceri”, conclude Papa Francesco nella Prefazione, è in definitiva «un compito difficilissimo, rischioso e arduo da praticare, perché tocca con mano il male in tutte le sue dimensioni: il male compiuto verso le vittime, e che non si può riparare; il male che il condannato sta vivendo, sapendosi destinato a morte certa; il male che, con la pratica della pena capitale, viene instillato nella società. Sì, come ho più volte ribadito, la pena di morte non è in alcun modo la soluzione di fronte alla violenza che può colpire persone innocenti. Le esecuzioni capitali, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso per il corpo delle nostre società civili. Gli Stati dovrebbero preoccuparsi di permettere ai detenuti la possibilità di cambiare realmente vita, piuttosto che investire denaro e risorse nel sopprimerli, come fossero esseri umani non più degni di vivere e di cui disfarsi. Nel suo romanzo “L’idiota” Fëdor Dostoevskij sintetizza così, in maniera impeccabile, l’insostenibilità logica e morale della pena di morte, parlando di un condannato alla pena capitale: “È una violazione dell’anima umana, niente altro! È detto: “Non uccidere”, e invece, perché lui ha ucciso, altri uccidono lui. No, è una cosa che non dovrebbe esserci”. Proprio il Giubileo dovrebbe impegnare tutti i credenti per chiedere con voce univoca l’abolizione della pena di morte, pratica che, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona!” (n. 2267). Inoltre, l’azione di Dale Recinella, senza dimenticare l’importante apporto di sua moglie Susan come traspare dal libro, è un grande dono per la Chiesa e per la società degli Stati Uniti, dove Dale vive e opera. Il suo impegno come cappellano laico, proprio in un posto davvero disumano come il braccio della morte, è testimonianza viva e appassionata alla scuola della misericordia infinita di Dio. Come il Giubileo straordinario della Misericordia ci ha insegnato, non dobbiamo mai pensare che possano esistere un nostro peccato, un nostro sbaglio o una nostra azione che ci allontanino definitivamente dal Signore. Il suo cuore è già stato crocifisso per noi. E Dio può solo perdonarci. Certo, questa infinita misericordia divina può anche scandalizzare, come scandalizzava tante persone al tempo di Gesù, quando il Figlio di Dio mangiava con i peccatori e le prostitute. Lo stesso fratello Dale deve far fronte a critiche, rimostranze e rifiuti per il suo impegno spirituale accanto ai condannati. Ma non è forse vero che Gesù ha accolto nel suo abbraccio un ladrone condannato a morte? Ebbene, Dale Recinella ha davvero capito e testimonia con la sua vita, ogni volta che supera la porta di una prigione, in particolare quella che lui chiama “la casa della morte”, che l’amore di Dio è senza confini e senza misura. E che anche il più turpe dei nostri peccati non deturpa agli occhi di Dio la nostra identità: restiamo suoi figli, da lui amati, da lui custoditi e considerati preziosi» (Papa Francesco, Città del Vaticano, 18 luglio 2024).

Per il suo impegno sociale e spirituale Dale Recinella ha ottenuto negli ultimi vent’anni molteplici riconoscimenti da importanti istituzioni statunitensi e internazionali. Solo per citarne alcuni nel 1997 la Notre Dame University (Indiana) l’ha nominato Cittadino e credente esemplare, nel 2000 i cappellani dell’Union Correctional Institution della Florida l’hanno insignito del riconoscimento di Cittadino volontario dell’anno e, da ultimo, la Pontificia Accademia per la Vita (PAV) gli ha assegnato nel 2019 il premio Custode della vita destinato «a personalità non appartenenti all’ambito accademico che, nella vita privata e professionale, si sono distinte per significative azioni a sostegno tutela e promozione della vita umana».

La modernità, lo sappiamo, si è identificata sostanzialmente con tre fattori: a) la storia dell’uomo in ogni sua variante, da quella individuale a quella sociale; b) la secolarizzazione che ha prodotto infine l’immanentismo assoluto; c) il controllo della natura da parte dell’uomo.

Basta leggere le opere fondamentali dedicate alla filosofia della storia da Karl Löwith (1897-1973) a Henri Marrou (1904-1977) per comprendere che il Moderno si è preteso dominio esclusivo della storia umana, dunque luogo e condizione essenziale della Weltgeschichte, ovvero della storia del mondo. In questo preciso senso, il Moderno ha trovato in Hegel – e non poteva che essere così – il suo mèntore filosofico ideale. Infatti, nel disegno hegeliano di una filosofia della storia conchiusa in sé stessa e in se stessa autolegittimantesi, nel dominio storico e logico di una razionalità assoluta, si celebravano i fasti della modernità di Napoleone, dello Stato etico e del primato teoretico dello Spirito Assoluto. Marx e il materialismo storico sono certamente il frutto maturo e, ad un tempo, contraddittorio, di questa figura di razionalismo assoluto immanentista. Il comunismo e l’ideologia violentemente statolatrica del totalitarismo staliniano, strumenti del controllo totale della società, compiono in maniera tragicamente esemplare il percorso del razionalismo assoluto hegeliano.

Sarà questa la lettura che tanto Lenin quanto Togliatti daranno del comunismo come pensiero della rivoluzione e dell’egemonia del Partito sulla società. Su questo fondamento nasce e sulla crisi di questo fondamento entra profondamente in crisi l’intero progetto del Moderno. Caduto il Muro di Berlino, del Moderno non si potrà più ragionare secondo gli schemi originari. E ciò condizionerà inevitabilmente anche le concezioni politiche radicalmente anticomuniste quali il liberalismo (oggi, a dire il vero, da ripensare interamente) e il socialismo democratico e liberale. Cosa accade, in sostanza, con l’implosione del “comunismo di Stato” e, dunque, del progetto ideologico del Moderno? In primo luogo, un fatto: la fine della storia. Il politologo statunitense Francis Fukuyama, in realtà, non ha avuto tutti i torti, da buon allievo di Hegel e Kojève, a scrivere un saggio come il noto La fine della storia e l’ultimo uomo (1992). Salvo che il suo schema, riduttivamente occidentalista con ritorni di matrice razionalistica e infine ideologica, il che introduce un’immagine di Occidente liberaldemocratico un po’ artificiosa (anche se non irreale, come molti suoi critici hanno detto, prendendo un abbaglio), non spiega le successive vicende in cui è coinvolta la modernità, non più identificabile con la storia universale del mondo. Finisce, così, la storia come Storia Universale del Mondo, come Weltgeschichte, e questo evento, del tutto imprevisto, ha molte ripercussioni sul presente. Una prima evidente conseguenza è l’emergere di un multiversum storico, cioè di molte storie regionali e locali, che si pongono oggi in modo nuovo ed originale al centro delle vicende mondiali dell’umanità, pur rimanendo, almeno a prima vista, sul piano geografico e culturale, in periferia. Ma così non è: la periferia del mondo non è più distante dal centro dei grandi fatti mondiali, dalle precipitazioni ed accelerazioni delle crisi, anche, spesso, dalle catastrofi mondiali. Inoltre, continenti come l’Africa, tanto quella settentrionale, quanto quella sub-sahariana e, ancora, la Cina, l’India, la Russia, ma anche la Cecenia e la Nuova Zelanda, e paesi come la Svezia, la Danimarca e la Norvegia, sono in questo tempo assai centrali e cruciali: mille storie uniche che sembrano trovare una nuova identità in un concetto divenuto, di fatto, un grande contenitore astratto, la globalizzazione, un concetto ancora sostanzialmente da pensare, nei suoi fondamenti. Ecco, dunque, che la secolarizzazione e l’immanentismo assoluto non forniscono più le chiavi ermeneutiche per comprendere il disfacimento del modello originario che fa capo alla modernità. E perché? Intanto, a causa della presenza invasiva di alcuni fenomeni di fondamentalismo religioso, i quali si rovesciano poi in nichilismi violenti. Il terrorismo islamico è il trait d’union tra la disgregazione della modernità, che non ha mai toccato profondamente le radici culturali, etiche e sociali dell’Islam e l’Occidente scristianizzato, da un lato, e dall’altro fortemente debitore a Benedetto XVI di una visione della storia compiuta sia sul versante teologico, sia sul versante politico. Benedetto XVI è il Papa che parla alla storia, drammaticamente immerso in essa, come ha detto agli ebrei durante le giornate della gioventù a Colonia. E questo Pontefice, inoltre, non recide affatto il legame con la verità, quando dialoga con l’Islam, distinguendo perfettamente tra l’apertura a tutti i semina Verbi, cioè i segni del Divino, seguendo la sensibilità teologica e la dottrina dei Padri della Chiesa e lo svuotamento del messaggio cristiano, che deve essere sempre incentrato decisamente sulla Verità di Cristo. E quando il fondamento è altro, avviene lo svuotamento del Cristianesimo. Su questa base spirituale, con un forte impianto cristologico, la realtà del Cristianesimo si concreta come sostanza viva della storia, pur alla fine del suo percorso moderno, e riapre il discorso, anche sul piano intellettuale, sui fondamenti della Cristianità. L’esito della riscoperta della Croce di Cristo: la centralità di un Cristo non compassionevole, repellente anche a Nietzsche, ateo raziocinante e perciò non piegato al “pensiero unico” del devozionalismo caritatevole.

E veniamo all’ultimo punto: l’impossibilità dell’uomo di dominare la natura. E così il cerchio si chiude, lasciando dietro di sé molti frammenti e spezzoni problematici, quasi ci trovassimo di fronte ad uno specchio rotto difficilmente ricomponibile in ogni sua parte. In breve: oggi non c’è più l’homo faber.

Dunque, scomparso l’uomo storico secolarizzato e dominatore della natura, cessa di esistere anche l’homo faber in quanto tale. Storia e natura risultavano compresi, nel Moderno, in un unico disegno universale. Oggi non è più così. In sostanza, non è più l’uomo a dominare la natura attraverso l’uso tecnicamente calibrato degli strumenti tecnologici, concepiti come mezzi sempre positivi e adatti a migliorare la vita dell’uomo, ma è la tecnologia a dominare l’uomo. La tecnologia si trasforma in entità autonoma, indipendente dal controllo dell’uomo. I laboratori sono ricettacoli di un nichilismo tecnocratico divenuto dominante e, insieme, inquietante.

Ecco il cortocircuito immanente all’azione umana. Un paradosso permanente che non può essere fronteggiato soltanto sul piano teorico e analitico, ma comporta un impegno etico e pratico. Di qui la ripresa dell’umiltà come antidoto antico alla prepotenza arrogante delle tecnostrutture. L’affidamento, nonostante tutto, alla strumentazione tecnologica, acriticamente assunta come la chiave della “salvezza” umana, produce una strana specie di nichilismo. Un nichilismo che risulta come inevitabile esito della debolezza dell’uomo, non più dominatore della natura e degli strumenti tecnologici, dei loro esiti sperimentali e pratici. Un nichilismo radicalmente differente da quello tematizzato sia da Nietzsche che da Heidegger, per non parlare di quello, insostenibile e teoreticamente infondato, di Severino. Un altro modello di nichilismo che chiude definitivamente l’epoca della modernità. Finisce, così, quella epoca moderna dominata dall’homo faber e inizia il momento storico del nichilismo tecnologico e tecnocratico. Non serve più Heidegger e la retorica del “solo un dio ci può salvare”. Servono nuove categorie. Il Soggetto cartesiano, tecnocrate e dominatore, capace di costruire certezze teoretiche ed epistemologiche da applicare alla natura, con il preciso obiettivo di conoscerla, non esiste più.

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