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Giovedì, 01 Maggio 2025

Un cristiano nel braccio della morte. Il mio impegno a fianco dei condannati, con Prefazione di Papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024, pp. 192), più che una testimonianza autobiografica, è la condivisione di un’esperienza di vita forte e sconvolgente. Il protagonista è Dale Recinella, avvocato di successo a Wall Street (sede della Borsa di New York) che, dopo un’esperienza grave di malattia, decide a quarant’anni suonati di cambiare radicalmente vita dedicandosi ad una particolare “categoria” di poveri: i condannati a morte nelle carceri statunitensi, assistendoli spiritualmente come “cappellano laico”.

La sua storia di accompagnamento e sostegno delle persone condannate alla pena capitale ed ai loro familiari è una testimonianza della vicinanza misericordiosa di Dio agli esclusi ed ai dimenticati, come raccontato in occasione del suo intervento all’incontro “Papa Francesco. Misericordia e missione”, che si è tenuto al Meeting di Rimini il 24 agosto 2024. Attraverso gli oltre trent’anni di ministero nelle carceri, infatti, Recinella ha sperimentato direttamente «che accompagnare quanti sono ai margini dentro ai recinti di filo spinato significa entrare nella misericordia di Dio. […] Poco a poco, un appuntamento di preghiera per volta, gli uomini diventano più che semplici nomi sulle divise carcerarie blu. Emergono persone reali, con storie reali e vite reali» (Dale Recinella, Meglio accendere una candela che maledire il buio, L’Osservatore Romano, 24 agosto 2024, p. 4).

Si capisce quindi come il tono narrativo del libro Un cristiano nel braccio della morte riesca a coinvolgere il lettore in una storia incredibile e di grande impatto emotivo perché l’Autore, classe 1951, laureato in legge e in teologia, insieme alla moglie Susan, dopo l’esperienza personale d’incontro e di conversione a Gesù ha deciso fin dal 1998 di accompagnare spiritualmente i condannati a morte in alcuni dei penitenziari della Florida. Si tratta di uno Stato nel quale il metodo ordinario di esecuzione è l’iniezione letale e, pochi giorni dall’appena citato intervento di Recinella al “Meeting per l’amicizia fra i popoli” di Comunione e Liberazione, ovvero il 29 agosto del 2024, con tale brutale metodo è stata eseguita l’ultima (per ora) sessantottesima esecuzione della pena capitale eseguita in Florida dal 1997 ad oggi.

La vicenda umana e spirituale di Dale Recinella è conosciuta in Italia anche per gli articoli scritti negli ultimi anni per il quotidiano ufficioso della Santa Sede L’Osservatore Romano. Il suo recente libro-testimonianza, però, descrive a tutto tondo come sia stato possibile che un uomo, con in testa ben altri traguardi da raggiungere nel proprio futuro, sia diventato “a tempo pieno” il cappellano, da professionista laico, marito e padre di famiglia, dei condannati alla pena capitale. Una missione sempre più difficile e delicata se, come rileva Papa Francesco nella sua Prefazione, le esecuzioni capitali ormai, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di odio e di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso sia per i condannati sia per il corpo delle nostre società civili.

«A Dale Recinella vorrei quindi - aggiunge il Pontefice -, dire un grazie sincero e commosso: perché la sua azione di cappellano nel braccio della morte è una tenace e appassionata adesione alla realtà più intima del Vangelo di Gesù, che è la misericordia di Dio, il suo amore gratuito e indefesso per ogni persona, anche per coloro che hanno sbagliato. E che proprio da uno sguardo d’amore, come quello di Cristo sulla croce, possono trovare un senso nuovo al loro vivere e, anche, al loro morire».

«Il Vangelo - ribadisce a tal proposito il Santo Padre - è l’incontro con una Persona viva che cambia la vita: Gesù è capace di rivoluzionare i nostri progetti, le nostre aspirazioni e le nostre prospettive. Conoscere Lui vuol dire riempire di significato la nostra esistenza perché il Signore ci offre la gioia che non passa. Perché è la gioia stessa di Dio» (Papa Francesco, La pena di morte non fa giustizia ma è un veleno per la società, L’Osservatore Romano, 19 agosto 2024, p. 7).

Quello di Recinella e di tutti i “cappellani delle carceri”, conclude Papa Francesco nella Prefazione, è in definitiva «un compito difficilissimo, rischioso e arduo da praticare, perché tocca con mano il male in tutte le sue dimensioni: il male compiuto verso le vittime, e che non si può riparare; il male che il condannato sta vivendo, sapendosi destinato a morte certa; il male che, con la pratica della pena capitale, viene instillato nella società. Sì, come ho più volte ribadito, la pena di morte non è in alcun modo la soluzione di fronte alla violenza che può colpire persone innocenti. Le esecuzioni capitali, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso per il corpo delle nostre società civili. Gli Stati dovrebbero preoccuparsi di permettere ai detenuti la possibilità di cambiare realmente vita, piuttosto che investire denaro e risorse nel sopprimerli, come fossero esseri umani non più degni di vivere e di cui disfarsi. Nel suo romanzo “L’idiota” Fëdor Dostoevskij sintetizza così, in maniera impeccabile, l’insostenibilità logica e morale della pena di morte, parlando di un condannato alla pena capitale: “È una violazione dell’anima umana, niente altro! È detto: “Non uccidere”, e invece, perché lui ha ucciso, altri uccidono lui. No, è una cosa che non dovrebbe esserci”. Proprio il Giubileo dovrebbe impegnare tutti i credenti per chiedere con voce univoca l’abolizione della pena di morte, pratica che, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona!” (n. 2267). Inoltre, l’azione di Dale Recinella, senza dimenticare l’importante apporto di sua moglie Susan come traspare dal libro, è un grande dono per la Chiesa e per la società degli Stati Uniti, dove Dale vive e opera. Il suo impegno come cappellano laico, proprio in un posto davvero disumano come il braccio della morte, è testimonianza viva e appassionata alla scuola della misericordia infinita di Dio. Come il Giubileo straordinario della Misericordia ci ha insegnato, non dobbiamo mai pensare che possano esistere un nostro peccato, un nostro sbaglio o una nostra azione che ci allontanino definitivamente dal Signore. Il suo cuore è già stato crocifisso per noi. E Dio può solo perdonarci. Certo, questa infinita misericordia divina può anche scandalizzare, come scandalizzava tante persone al tempo di Gesù, quando il Figlio di Dio mangiava con i peccatori e le prostitute. Lo stesso fratello Dale deve far fronte a critiche, rimostranze e rifiuti per il suo impegno spirituale accanto ai condannati. Ma non è forse vero che Gesù ha accolto nel suo abbraccio un ladrone condannato a morte? Ebbene, Dale Recinella ha davvero capito e testimonia con la sua vita, ogni volta che supera la porta di una prigione, in particolare quella che lui chiama “la casa della morte”, che l’amore di Dio è senza confini e senza misura. E che anche il più turpe dei nostri peccati non deturpa agli occhi di Dio la nostra identità: restiamo suoi figli, da lui amati, da lui custoditi e considerati preziosi» (Papa Francesco, Città del Vaticano, 18 luglio 2024).

Per il suo impegno sociale e spirituale Dale Recinella ha ottenuto negli ultimi vent’anni molteplici riconoscimenti da importanti istituzioni statunitensi e internazionali. Solo per citarne alcuni nel 1997 la Notre Dame University (Indiana) l’ha nominato Cittadino e credente esemplare, nel 2000 i cappellani dell’Union Correctional Institution della Florida l’hanno insignito del riconoscimento di Cittadino volontario dell’anno e, da ultimo, la Pontificia Accademia per la Vita (PAV) gli ha assegnato nel 2019 il premio Custode della vita destinato «a personalità non appartenenti all’ambito accademico che, nella vita privata e professionale, si sono distinte per significative azioni a sostegno tutela e promozione della vita umana».

La modernità, lo sappiamo, si è identificata sostanzialmente con tre fattori: a) la storia dell’uomo in ogni sua variante, da quella individuale a quella sociale; b) la secolarizzazione che ha prodotto infine l’immanentismo assoluto; c) il controllo della natura da parte dell’uomo.

Basta leggere le opere fondamentali dedicate alla filosofia della storia da Karl Löwith (1897-1973) a Henri Marrou (1904-1977) per comprendere che il Moderno si è preteso dominio esclusivo della storia umana, dunque luogo e condizione essenziale della Weltgeschichte, ovvero della storia del mondo. In questo preciso senso, il Moderno ha trovato in Hegel – e non poteva che essere così – il suo mèntore filosofico ideale. Infatti, nel disegno hegeliano di una filosofia della storia conchiusa in sé stessa e in se stessa autolegittimantesi, nel dominio storico e logico di una razionalità assoluta, si celebravano i fasti della modernità di Napoleone, dello Stato etico e del primato teoretico dello Spirito Assoluto. Marx e il materialismo storico sono certamente il frutto maturo e, ad un tempo, contraddittorio, di questa figura di razionalismo assoluto immanentista. Il comunismo e l’ideologia violentemente statolatrica del totalitarismo staliniano, strumenti del controllo totale della società, compiono in maniera tragicamente esemplare il percorso del razionalismo assoluto hegeliano.

Sarà questa la lettura che tanto Lenin quanto Togliatti daranno del comunismo come pensiero della rivoluzione e dell’egemonia del Partito sulla società. Su questo fondamento nasce e sulla crisi di questo fondamento entra profondamente in crisi l’intero progetto del Moderno. Caduto il Muro di Berlino, del Moderno non si potrà più ragionare secondo gli schemi originari. E ciò condizionerà inevitabilmente anche le concezioni politiche radicalmente anticomuniste quali il liberalismo (oggi, a dire il vero, da ripensare interamente) e il socialismo democratico e liberale. Cosa accade, in sostanza, con l’implosione del “comunismo di Stato” e, dunque, del progetto ideologico del Moderno? In primo luogo, un fatto: la fine della storia. Il politologo statunitense Francis Fukuyama, in realtà, non ha avuto tutti i torti, da buon allievo di Hegel e Kojève, a scrivere un saggio come il noto La fine della storia e l’ultimo uomo (1992). Salvo che il suo schema, riduttivamente occidentalista con ritorni di matrice razionalistica e infine ideologica, il che introduce un’immagine di Occidente liberaldemocratico un po’ artificiosa (anche se non irreale, come molti suoi critici hanno detto, prendendo un abbaglio), non spiega le successive vicende in cui è coinvolta la modernità, non più identificabile con la storia universale del mondo. Finisce, così, la storia come Storia Universale del Mondo, come Weltgeschichte, e questo evento, del tutto imprevisto, ha molte ripercussioni sul presente. Una prima evidente conseguenza è l’emergere di un multiversum storico, cioè di molte storie regionali e locali, che si pongono oggi in modo nuovo ed originale al centro delle vicende mondiali dell’umanità, pur rimanendo, almeno a prima vista, sul piano geografico e culturale, in periferia. Ma così non è: la periferia del mondo non è più distante dal centro dei grandi fatti mondiali, dalle precipitazioni ed accelerazioni delle crisi, anche, spesso, dalle catastrofi mondiali. Inoltre, continenti come l’Africa, tanto quella settentrionale, quanto quella sub-sahariana e, ancora, la Cina, l’India, la Russia, ma anche la Cecenia e la Nuova Zelanda, e paesi come la Svezia, la Danimarca e la Norvegia, sono in questo tempo assai centrali e cruciali: mille storie uniche che sembrano trovare una nuova identità in un concetto divenuto, di fatto, un grande contenitore astratto, la globalizzazione, un concetto ancora sostanzialmente da pensare, nei suoi fondamenti. Ecco, dunque, che la secolarizzazione e l’immanentismo assoluto non forniscono più le chiavi ermeneutiche per comprendere il disfacimento del modello originario che fa capo alla modernità. E perché? Intanto, a causa della presenza invasiva di alcuni fenomeni di fondamentalismo religioso, i quali si rovesciano poi in nichilismi violenti. Il terrorismo islamico è il trait d’union tra la disgregazione della modernità, che non ha mai toccato profondamente le radici culturali, etiche e sociali dell’Islam e l’Occidente scristianizzato, da un lato, e dall’altro fortemente debitore a Benedetto XVI di una visione della storia compiuta sia sul versante teologico, sia sul versante politico. Benedetto XVI è il Papa che parla alla storia, drammaticamente immerso in essa, come ha detto agli ebrei durante le giornate della gioventù a Colonia. E questo Pontefice, inoltre, non recide affatto il legame con la verità, quando dialoga con l’Islam, distinguendo perfettamente tra l’apertura a tutti i semina Verbi, cioè i segni del Divino, seguendo la sensibilità teologica e la dottrina dei Padri della Chiesa e lo svuotamento del messaggio cristiano, che deve essere sempre incentrato decisamente sulla Verità di Cristo. E quando il fondamento è altro, avviene lo svuotamento del Cristianesimo. Su questa base spirituale, con un forte impianto cristologico, la realtà del Cristianesimo si concreta come sostanza viva della storia, pur alla fine del suo percorso moderno, e riapre il discorso, anche sul piano intellettuale, sui fondamenti della Cristianità. L’esito della riscoperta della Croce di Cristo: la centralità di un Cristo non compassionevole, repellente anche a Nietzsche, ateo raziocinante e perciò non piegato al “pensiero unico” del devozionalismo caritatevole.

E veniamo all’ultimo punto: l’impossibilità dell’uomo di dominare la natura. E così il cerchio si chiude, lasciando dietro di sé molti frammenti e spezzoni problematici, quasi ci trovassimo di fronte ad uno specchio rotto difficilmente ricomponibile in ogni sua parte. In breve: oggi non c’è più l’homo faber.

Dunque, scomparso l’uomo storico secolarizzato e dominatore della natura, cessa di esistere anche l’homo faber in quanto tale. Storia e natura risultavano compresi, nel Moderno, in un unico disegno universale. Oggi non è più così. In sostanza, non è più l’uomo a dominare la natura attraverso l’uso tecnicamente calibrato degli strumenti tecnologici, concepiti come mezzi sempre positivi e adatti a migliorare la vita dell’uomo, ma è la tecnologia a dominare l’uomo. La tecnologia si trasforma in entità autonoma, indipendente dal controllo dell’uomo. I laboratori sono ricettacoli di un nichilismo tecnocratico divenuto dominante e, insieme, inquietante.

Ecco il cortocircuito immanente all’azione umana. Un paradosso permanente che non può essere fronteggiato soltanto sul piano teorico e analitico, ma comporta un impegno etico e pratico. Di qui la ripresa dell’umiltà come antidoto antico alla prepotenza arrogante delle tecnostrutture. L’affidamento, nonostante tutto, alla strumentazione tecnologica, acriticamente assunta come la chiave della “salvezza” umana, produce una strana specie di nichilismo. Un nichilismo che risulta come inevitabile esito della debolezza dell’uomo, non più dominatore della natura e degli strumenti tecnologici, dei loro esiti sperimentali e pratici. Un nichilismo radicalmente differente da quello tematizzato sia da Nietzsche che da Heidegger, per non parlare di quello, insostenibile e teoreticamente infondato, di Severino. Un altro modello di nichilismo che chiude definitivamente l’epoca della modernità. Finisce, così, quella epoca moderna dominata dall’homo faber e inizia il momento storico del nichilismo tecnologico e tecnocratico. Non serve più Heidegger e la retorica del “solo un dio ci può salvare”. Servono nuove categorie. Il Soggetto cartesiano, tecnocrate e dominatore, capace di costruire certezze teoretiche ed epistemologiche da applicare alla natura, con il preciso obiettivo di conoscerla, non esiste più.

Quello del sacerdote e teologo spagnolo don Álvaro Granados (1964-2025) è stato un esempio di santità molto "normale", di quella «classe media della santità» di cui Papa Francesco ci ha parlato nell’Esortazione Apostolica “Gaudete et exultatesulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018, n. 7). Non certo “normale” è stato il sacrificio che, negli ultimi sette anni della sua vita, il Signore gli ha chiesto portando sul suo corpo la “croce” della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), una malattia degenerativa che gli ha interdetto progressivamente tutte le funzioni vitali. «È una malattia pesante, dura - ha detto della SLA -, ma mi ha permesso di maturare e soprattutto di capire quali sono le cose che veramente contano nella vita. Oltre al valore della fede cristiana, in questi anni di infermità, ho scoperto e riscoperto il grande valore delle relazioni umane, ciò per cui vale veramente la pena lottare in questo mondo. Chi ha molte relazioni con le persone è ricco, chi non ne ha è povero» (Giuseppe Muolo, “Ho la Sla, ma resto sacerdote fino in fondo”, Avvenire, 30 maggio 2024).

La forza per resistere ed offrire la malattia gli è sempre venuta dal Vangelo. Ma quali sono i passi che gli sono stati più di forza e di conforto nel momento della sofferenza? «C’è l’imbarazzo della scelta - ha risposto nel corso di un’intervista al quotidiano dei Vescovi italiani -. Ma mi ricordo spesso il passo della vedova al tempio, che con due spiccioli riesce a entusiasmare Cristo, cioè Dio. Io penso che offrendo a Lui le piccole cose della mia malattia, gli acciacchi, un dolore improvviso, un momento di disagio, è come se mi avvicinassi al comportamento della vedova. Non sto dando niente concretamente, ma per Dio è tanto, è tutto. Lo riempie di amore. Offrendo i piccoli e grandi disagi che attraverso, posso colmare di gioia il cuore di Dio. Questo mi entusiasma e mi aiuta a dare un senso alla mia malattia».

Anche la parte finale della sua esistenza don Álvaro l’ha vissuta ad imitazione «di coloro che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Gaudete et exultate, n. 7). Pochi giorni prima di morire nella sua piccola stanza della parrocchia di san Josemaría Escrivá, nel quartiere Ardeatino di Roma, dove ha vissuto per due periodi - per un totale di quindici anni - intervallati dal servizio accademico e pastorale prestato sempre nella Capitale ma abitando altrove, il sacerdote ha detto a una delle sue sorelle: «Chiedo al Signore la grazia di conservare la vita, così da potergli dare gloria con la mia malattia finché Lui lo vorrà».

Per tutti quelli che venivano a trovarlo, ha testimoniato il suo collega di università e “vicino di stanza” nella parrocchia di san Josemaría Escrivá Daniel Arasa Villar, don Álvaro «aveva una parola di conforto e, quando era più difficile per lui parlare, un orecchio attento con uno sguardo compassionevole. È evidente che, con il passare del tempo, l'affetto (la carità) stava plasmando la sua personalità e allargando il suo cuore. Non mancava mai di essere grato per un servizio, anche quando la maschera del ventilatore gli impediva quasi di parlare».

Nato a Madrid nel 1964, Álvaro Granados si era laureato in legge all'Università di La Laguna (Tenerife) nel 1988. Si è poi trasferito a Roma per studiare teologia nella Pontificia Università della Santa Croce (PUSC), dove ha conseguito anche un dottorato in filosofia nel 1996. È stato ordinato sacerdote della Prelatura personale dell’Opus Dei nel 1994 e, dal 1995 al 2006, ha lavorato come formatore presso il Seminario internazionale Sedes Sapientiae. È stato anche Rettore del Collegio Sacerdotale Tiberino e, nel 2009, ha conseguito il dottorato in Teologia Pastorale presso l'Università Lateranense. A tale disciplina don Granados ha dedicato il suo ultimo volume, La casa costruita sulla sabbia. Manuale di teologia pastorale (Edizioni Santa Croce, Roma 2022, pp. 392), che esprime nel modo più efficace la situazione dei cristiani che vivono nella post-modernità, ovvero individui immersi in un contesto nel quale la fede è diventata culturalmente impossibile

Il presupposto da cui parte nell’impostazione di questo libro è pienamente condivisibile: occorre rinsaldare le fondamenta sabbiose su cui poggia l’esistenza cristiana oggi, cui lo spirito del Concilio e la successiva rivoluzione del Sessantotto ha dato il “colpo di grazia”.

Come evangelizzare dunque l’uomo contemporaneo? Come rinsaldare la sua fede? Quali ostacoli culturali impediscono di raggiungere un’esistenza cristiana matura?

«L’idea di fondo - afferma - è che la Nuova evangelizzazione a cui è chiamata la Chiesa “in questa ora magnifica e drammatica della storia”, come ha definito l’epoca contemporanea san Giovanni Paolo II nella Christifideles laici, impone ancora una Prima evangelizzazione, non in senso cronologico, ma come impostazione di fondo presente in ogni segmento della pastorale. Una Prima evangelizzazione che tenga conto dell’humus culturale in cui vive l’uomo contemporaneo, della sua particolare sensibilità, dello stile di vita, dei motivi di una certa svogliatezza verso il discorso religioso e di uno sguardo distorto nei confronti dell’annuncio cristiano».

L’attuale crisi del “processo per diventare cristiani” può essere invertita quindi solo prendendo atto della reale situazione storica, rimodellando la teologia pastorale non solo a partire dalla pur doverosa precisione delle formulazioni (fides quae), ma anche sulla base delle caratteristiche dei destinatari e del loro contesto (fides qua). Infatti, come sostiene don Álvaro, «i tentativi di ripristinare questo processo sono falliti perché si sono concentrati quasi esclusivamente sul rinnovamento della catechesi, quando in realtà sono tutti gli elementi del processo che richiederebbero un ripensamento: la Prima evangelizzazione, la catechesi, la famiglia come luogo di trasmissione della fede, la questione educativa, la pastorale dei sacramenti, l’omelia e la pietà popolare».

Con la sua intensa attività pastorale e il suo modo esemplare di vivere la vocazione sacerdotale, nonostante i limiti imposti dalla malattia, Álvaro Granados ha lasciato un segno profondo in tutti noi che lo abbiamo conosciuto, come è stato anche dimostrato dai suoi affollati funerali, celebrati il 26 gennaio 2025 da mons. Fernando Ocáriz nella parrocchia intitolata al fondatore dell’Opus Dei alla presenza di oltre 600 persone. Nell’omelia della cerimonia funebre, fra l’altro, il Prelato dell’Opera che ha avuto modo di conoscere bene don Álvaro ha testimoniato di lui: «da più di sette anni affetto da una malattia molto grave, non si ribellò. Prese su di sé il giogo che il Signore gli aveva offerto. E se agli occhi di tutti il suo fardello sembrava ogni giorno più pesante, egli lo portava come se ogni giorno fosse più leggero, mentre il suo cuore diventava più dolce e umile, più identificato con il cuore di Gesù».

Sono da tempo continue le visite alla tomba di don Álvaro, collocata in un cimitero civile, anzi nel cimitero più grande d’Italia, il Flaminio-Prima Porta di Roma, nel quale è sepolto anche il suo connazionale Joaquín Navarro-Valls (1936-2017), altra esistenza come la sua donata alla Chiesa tramite l’Opus Dei. L’indimenticabile portavoce di Papa Giovanni Paolo II e, fino al 2006, di Benedetto XVI, ha scritto parole sulla santità che si attagliano perfettamente ad Álvaro Granados: «l'immagine plastica della santità, come spesso è stata presentata per tanti secoli, ci può far pensare che solo alcune circostanze eccezionali siano adatte a fare da cornice alla vita di un santo. Eppure, quando veramente abbiamo conosciuto un santo, quando la nostra stessa vita si è incrociata con la sua, non possiamo che modificare quell'idea della santità. Del resto, che essere santo sia una meta per tutti i cristiani non è stato un concetto comune negli scritti degli autori spirituali, almeno negli ultimi dieci o dodici secoli. Ancor meno comune è in questi autori l'idea che le realtà che oggi chiamiamo "civili" e che negli scritti spirituali sono catalogate come mondo - in altre parole, tutto ciò che costituisce la professione, la famiglia, le relazioni sociali, ecc. - non solo possono fare da scenario della santità, ma sono, di fatto, il mezzo, lo strumento e la materia della santità» (Il realismo umano della santità, L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002).

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