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Giovedì, 13 Novembre 2025

In uscita “Febronia è passata di qui”, la nuova opera di Francesco Saporito. Un inno alla vita scritto da un uomo malato di SLA che comunica attraverso i movimenti degli occhi

Lo scrittore Francesco Saporito torna in libreria dal 7 novembre con “Febronia è passata di qui”, pubblicata dalla casa editrice siciliana Apalós fondata a Siracusa nel 2023.

L’opera è un affresco emotivo e vivido della vita in una Sicilia che “ti appiccica addosso come l'unico ringhiotto”. La narrazione si sviluppa attorno al protagonista e al suo ambiente, popolato da personaggi indimenticabili. Tra questi spicca Febronia, la vicina di casa la cui morte in giovane età affligge l’autore, e la cui memoria dà il titolo all’opera.
«Con l'uscita di "Febronia è passata di qui", Apalós è orgogliosa di presentare non solo un libro, ma un vero atto di resilienza e amore per la vita – hanno spiegato gli editori Silvio Aparo e Rossella Rapisarda.
L’autore, Francesco Saporito, ci dimostra che la vera voce è quella dell’anima, narrando una storia autobiografica gioiosa, arguta e profondamente poetica, comunicando con la forza inarrestabile dei suoi occhi.

Questo non è un racconto sulla malattia, ma un’esplorazione intensa dell’animo siciliano, un affresco di vita di paese tra ricordi d’infanzia, figure indimenticabili come Tano e riflessioni che, con gentilezza e ironia, toccano il senso dell’esistenza.

Dalla penna (o meglio, dallo sguardo) di Saporito, introdotto dalla magnifica prefazione di Simonetta Agnello Hornby, emerge un messaggio di speranza universale: anche di fronte alle prove più dure, la memoria, la fede e l’accettazione possono illuminare la nostra percezione del mondo.
"Febronia è passata di qui" è una freccia nel cuore del tempo che Apalós, in quanto editore siciliano, è onorata di portare in tutte le librerie italiane. Un libro che resta dentro, toccando corde profonde e lasciando al lettore una preziosa eredità di serenità e autenticità.»

Il racconto è intriso di dettagli tipici della cultura siciliana, dai sapori (come il “salmoriglio d’estate e le melanzane a pagoda”) alle scene quotidiane, come la signora del terzo piano che ogni martedì dopo Pasqua lega le carte luccicanti delle uova alla ringhiera del balcone.

L’opera spazia tra ricordi giovanili, esami di maturità e profonde riflessioni sull’esistenza, la morte e l’attesa, con richiami a figure chiave della letteratura e del pensiero come Gramsci, Dante, e Leopardi.
Un romanzo di formazione e di memoria, dove il passato e i suoi fantasmi sono presenti in ogni angolo. Una storia che sa di infanzia, di sudore, di lutto, di resistenza.
 

Grande partecipazione e interesse per la presentazione del libro “Il Penalista” dell’Avvocato Pietro Nicotera, che si è svolta ieri nella prestigiosa Sala della Regina di Palazzo Montecitorio.
La sala, gremita per l’occasione, ha accolto oltre 200 partecipanti, tra rappresentanti delle istituzioni, del mondo accademico e dell’avvocatura.
L’evento è stato arricchito dagli interventi di autorevoli relatori, tra cui:
Sen. Andrea Ostellari, Sottosegretario alla Giustizia;
Avv. Vincenzo Comi e Avv. Massimiliano Cesali, Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati di Roma;
Avv. Salvatore Sciullo, Vicepresidente della Camera Penale di Roma;
On. Alessandro Palombi, membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati.


Nel corso della presentazione, l’Avv. Nicotera ha illustrato le motivazioni e l’ispirazione alla base del volume, che rappresenta una riflessione profonda sul ruolo e sull’etica del penalista nella società contemporanea.
L’iniziativa ha suscitato un vivace dibattito sul valore della professione forense, sulla tutela dei diritti e sul futuro della giustizia penale in Italia.

Le vicende processuali e i casi più noti trattati dall’avvocato Nicotera, selezionati e messi a confronto per mostrare l’evoluzione del diritto negli ultimi quarant’anni: un cambiamento che esonda il campo giudiziario e mette in luce il mutamento degli equilibri sociali nel nostro Paese. Emanuela Orlandi, Angelo Stazzi e le storie umane di tanti altri soggetti di vicende giudiziarie ormai noti all’opinione pubblica, ci aiutano a intravedere nel diritto temi di amplissima portata, dalla ricerca della verità al quesito sulla sostanza della giustizia.

 

BIOGRAFIA:

L’Avvocato Pietro Nicotera, fondatore dello studio Legale Nicotera , è nato il 3 giugno 1957, conseguendo la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli studi “ La Sapienza” di Roma il 26 ottobre 1982.

Patrocinante in Cassazione e innanzi a tutte le Magistrature superiori a partire dal 1998.  E' stato altresì componente della Commissione esami Avvocato 2017-2018.

Come avvocato ha seguito a partire dagli inizi della carriera processi delicati, alcuni dei quali noti all’opinione pubblica.
A titolo d’esempio:
  - Nel 1994 innanzi al Tribunale militare di Roma il processo a carico del Capitano Erich Priebke, nel quale aveva assunto la difesa di alcuni familiari di cittadini italiani di religione ebraica trucidati nel noto “eccidio delle Fosse Ardeatine”;
   - Il processo in difesa di alcuni imputati del primo stupro di gruppo avvenuto nel 1983, a seguito del quale fu coniato il termine “ Il branco”, da cui è stato ricavato il soggetto del film omonimo;
  - Il processo contro l’infermiere killer Angelo Stazzi in difesa dei familiari di una delle sette vittime di cui lo stesso aveva provocato la morte iniettando loro dell’insulina. Il processo si è concluso con la condanna all’ergastolo dello Stazzi;
  - Il processo in difesa dei familiari dei bambini, presunte vittime degli abusi sessuali avvenuti nell’asilo di Rignano Flaminio;
  - Il processo in difesa della nota attrice Anna Marchesini nella vicenda legata ai rapporti con l’ex marito;
 - Il procedimento riguardante il famoso “ scambio di embrioni” avvenuto presso l’Ospedale Pertini di Roma, in difesa di una delle mamme, presunta vittima dell’atto di malasanità;

  - Il processo della devastazione e saccheggio del carcere "ReBibbia" di Roma avvenuta nel marzo 2020, in difesa di uno dei promotori della rivolta dei detenuti;

  - Il processo del "Crac della Banca Tercas", relativo al fallimento della "Cassa di Risparmio di Teramo";

  - Il procedimento riguardante il famoso "scandalo calcioscommesse";

  - "Il fenomeno della Trap": numerosi processi in difesa di noti cantanti della "Trap capitolina";
  - Diversi casi di omicidio, tra cui “L’omicidio del parcheggiatore” avvenuto a Roma, che vedeva imputato l’ex soldato croato Rankovic Obrad, ed il duplice omicidio avvenuto per mano del famoso "cecchino di Guidonia", il quale nel comune alle porte di Roma sparò dal tetto uccidendo due persone e ferendone sette;
  - Numerosi processi in tema di criminalità organizzata su tutto il territorio nazionale, tra questi il processo al “Clan Fasciani” di Ostia, le operazioni antimafia condotte dalla DDA di Roma tra cui l' "Operazione Babylonia", la "Cosa Nostra Tiburtina", l'operazione antimafia "Reset", l'operazione "Assedio", la maxi - operazione anti droga della DDA di Roma contro la banda di Marcello Colafigli ultimo boss della Banda della Magliana, ed infine  "L'operazione Propaggine, La 'Ndrangheta nella Capitale ".

 

 

A 100 anni dalla nascita, Il Domenicale del 26 maggio 2007 fa un ritratto dell’attore che meglio di altri ha incarnato il mito del buon conservatore. John Wayne, il Duca, il Grinta, il duro, il soldato, il cowboy, fu giudicato un reazionario ma nei suoi modi si esaltavano i valori che hanno fatto grande gli Usa e l’Occidente. Anticomunista, presbiteriano e massone, morì cattolico. Stalin ne chiese la testa, lui appoggio Nixon, fu amico di Reagan, rifiutò la Casa Bianca. Un ritratto proposto da Luisa Cotta Ramosino e Marco Respinti, di com’era quell’uomo buono, semplice, insomma osiamo dire occidentale. Un mito che il giornale rilancia volentieri. Probabilmente avrebbe avuto qualcosa da dire vedendo l’ultimo bellissimo film di Clint Eastwood dedicato alla battaglia di Jwo Jima. Wayne aveva dedicato alla sanguinosa battaglia un film con cui sfiorò l’Oscar (Jwo Jima deserto di fuoco, del 1949), una pellicola che trasudava quel patriottismo senza sfumature né cedimenti che gli ha guadagnati applausi e onori da un lato e impietose accuse dall’altro. Del resto, Wayne, a differenza di altri attori di Hollywood non aveva mai vestito la divisa. Leggendo le sue affermazioni emerge un chiaro rispetto per il pubblico, decisamente superiore a quello di tante star snob dei nostri giorni. Deciso a fare film che non avrebbe avuto imbarazzo a mostrare alla figlia, non aveva problemi a dichiarare i suoi principi e le sue convinzioni. Fu tra i fondatori della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, di cui divenne presidente. Accusato di essere reazionario (ma Wayne diceva di considerarsi progressista, di aver scoperto di essere estremista di Destra dalle dichiarazioni dei nuovi Liberal) Certo Wayne appoggiò Nixon e il suo operato per quanto riguarda il Vietnam. Del resto, Wayne fu protagonista in “Berretti Verdi” (del 1968, hit al box office e massacrato dalla critica) o come per “La battaglia di Alamo” del 1960 e universalmente additato come esempio di inaccettabile propaganda, il nostro da sincero anticomunista continuò fino all’ultimo a professare la sua convinzione della bontà dell’intervento americano nel Sud-Est asiatico in nome della libertà e della democrazia. Sono gli stessi valori che Wayne sentiva incarnati nei suoi film. Wayne detiene un record non solo per il numero di film interpretati, ma per essere stato nella maggior parte di essi il protagonista. Ramosino elenca alcuni film famosi del nostro eroe: Ombre Rosse; I Falchi di Rangoon, I Sacrificati. E poi quelli diretti dall’amato regista Ford. Tuttavia, per la curatrice i due film ideali dell’attore americano non sarebbero né i western, né quelli di guerra, ma l’”Uomo tranquillo” (1951) e poi “Sentieri selvaggi” (1956) Per quanto riguarda la sua visione politica, Marco Respinti lo definisce nella sua breve scheda come un seguace di “Dio, Patria e Famiglia”, of course e ci ricorda che marciava con gli “Young American for Freedom” di BucKeley, Evans e Mrs. Kirk. Dai documenti dissotterrati nel 2003 dagli Archivi sovietici pare che Stalin avesse ordinato l’assassinio di John Wayne. Ma anche Kruscev. Wayne, scrive Respinti suscitava odio e amore, ma soprattutto era il campione di un modo di essere schietto, deciso e senza compromessi che comunemente viene definito “di Destra”. Ma lui ci ha messo molto del suo, per esempio da due braccialetti che portava al polso. Come quello dotato di immenso valore simbolico con il nome inciso POW/MIA, un “prigioniero di guerra”, o con un “disperso in azione”. Si restava in contatto con i suoi familiari, ebbene Wayne ne indossò uno con il nome del capitano Stephan P. Hanson. Il secondo braccialetto se lo guadagnò durante un tour di supporto alle truppe Usa in Vietnam (mentre Jane Fonda, si faceva fotografare con i comunisti vietkong) glielo regalarono i Montagnard, volontari vietnamiti anticomunisti. In Berretti Verdi, fu davvero fuori dal coro apologetico del Vietnam: prendeva per mano un bambino vietnamita, orfano e camminava lungo la spiaggia: “A te, ora penserò io”. Fece imbestialire i liberals americani e i pacifisti europei.

Questo potrebbe bastare e avanzare per fare di Wayne un campione dei conservatori americani. Senza dimenticare che il nostro, sia nella vita che nello schermo, incarnò sempre l’ideale “Dio, Patria e Famiglia”. Tanti politici conservatori americani da Barry M. Goldwater a Ronald Reagan lo ricordano come testimonial ai raduni anticomunisti e patriottici cui pochi attori di Hollywood osavano partecipare. Le sinistre facevano di tutto per odiarlo. Fu un conservatore sul serio scrive Marco Respinti perché ebbe la capacità di rappresentare un popolo intero. Diede l’esempio perché seppe calarsi nelle vene l’amore per la storia patria. Wayne fu l’unico capace di riconciliare un Paese diviso fra indiani e yankee, sudisti e nordisti, bianchi e neri, liberal e destrorsi. In un'altra scheda sempre prodotta dal giornale conservatore Il Domenicale (25.2.2006; n.8), del Duca, si fa una scheda più dettagliata della sua lunghissima carriera professionistica di attore e regista, 62 titoli ed è primatista assoluto in Dvd, un attore lontano dal politicamente corretto, rispetto a uno come Cooper, Grant, Bogart, un vero personaggio, di enorme identità.

"Il silenzio dentro": uscito l’atteso libro inchiesta della giornalista Francesca Ghezzani sulla situazione carceraria in Italia
“Che valore ha la libertà? Ce lo siamo mai chiesti? E se lo è mai domandato chi oggi sta scontando una condanna dietro le sbarre un attimo prima di compiere il reato?”

Questi e mille altri quesiti hanno spinto Francesca Ghezzani, nota giornalista e conduttrice televisiva e radiofonica, a compiere attraverso le pagine di “Il silenzio dentro – Quando raccontare diventa un atto di giustizia” (Narrativa d’inchiesta – Swanbook Edizioni, in libreria dal 15 ottobre) un viaggio all’interno e intorno alle carceri italiane per raccontare, con sguardo costruttivo, le molteplici realtà che vivono dietro e oltre le sbarre e che ogni giorno lavorano per un sistema penitenziario che metta in pratica quanto previsto dall’Art. 27 della Costituzione.

“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” affermava il padre dell’Illuminismo Voltaire secoli fa e, ancora oggi, è doveroso interrogarsi sulle condizioni delle prigioni, talvolta esempi virtuosi e più spesso alle prese con carenza di personale, sovraffollamento, casi di suicidio tra i detenuti e persino nel Corpo di Polizia Penitenziaria, con un anno 2024 che ci ha lasciato in eredità drammatici record.

Il libro intreccia testimonianze, analisi e riflessioni raccolte intervistando carcerati, ex detenuti reinseriti nella società e figure autorevoli del panorama istituzionale e associativo: esperti di criminologia e psichiatria forense, giornalisti, operatori della comunicazione, esponenti del clero e sociologi, insieme a temi come finanza e imprenditoria sociale, economia carceraria e circolare, upcycling e il rapporto tra giustizia penale e intelligenza artificiale.

Le voci raccolte sono quelle di Alessio Scandurra (Coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle carceri), Monica Bizaj (Presidente di Sbarre di Zucchero APS), Enrico Sbriglia (Penitenziarista - Former dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria Italiana), Antonella Cortese (Psicologa), Santino Mirabella (Magistrato), Anna Palermo (Criminologa), Rosa Francesca Capozza (Criminologa), Valentina Arcidiacono Criminologa), Alberto Arnaudo (Medico socio di Co.N.O.S.C.I), Paolo Siani (Pediatra), Candida Livatino (Perito grafologo), Carmela Pace (Presidente UNICEF Italia), Don Luigi Ciotti (Presbitero e attivista), Germana Cesarano (Psicoterapeuta), Andrea Cavaliere (Avvocato), Carmelo Sardo (Giornalista e scrittore), Francesco Pira (Professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e giornalista), Ruben Razzante (Giornalista e docente universitario), Oscar La Rosa (Cofondatore di Economia carceraria srl), Pino Cantatore (Cofondatore di bee.4), Paolo Rellini (Cofondatore di Recuperiamo Srl), Maria Paola Guarino (Ex docente in un carcere di massima sicurezza), Francesco Ciampa (Giornalista), Claudio Bottan e Mirko Federico (Attivisti), Kento (Rapper e scrittore), Ginevra Barboni (Regista), Antonella Iallorenzi (Direttrice artistica, attrice e formatrice teatrale), Valeria Corciolani (Scrittrice), Patrizia Rossetti (Presidente Associazione dEntrofUoriars), Paola Maria Bevilacqua (Giornalista e presidente APS ASD Dal Buio alla Luce), Maria Giovanna Santucci (Giornalista e docente), Cinzia Perrotta (Insegnante di YdR in carcere).
 
Alla fine del suo viaggio Francesca Ghezzani forse ha trovato risposte che cercava, ma sicuramente si è trovata a porsi altre domande.

“L’idea di questo libro è nata tempo fa, ma ha trovato piena conferma dopo la mia visita, nel 2023, a una Casa di Reclusione nelle vesti di giornalista.
Da allora mi sono chiesta, senza cedere alla retorica del buonismo e consapevole che non tutti sono pronti o disposti a cambiare, cosa serva davvero perché la giustizia compia il suo percorso e chi ha commesso un reato, ma desidera ricominciare, possa contare su un reale reinserimento che lo tenga lontano dalla recidiva.

Come fare in modo che la libertà ritrovata non faccia più paura della prigione stessa? E che la detenzione, se vissuta come un autentico processo di rieducazione, diventi un investimento per chi la attraversa e una garanzia per l’intera società e la sua sicurezza?”.

“Quello che possiamo affermare con assoluta certezza è che questo libro dai contenuti spesso sorprendenti e, se vogliamo inquietanti per gli argomenti che tratta, si può leggere come se fosse un grande romanzo che induce alla riflessione il lettore – ha commentato l’editore Aurelio Armio. Del resto non potevamo aspettarci nulla di diverso da una grande giornalista come Francesca Ghezzani che da oltre un ventennio è autrice e conduttrice di programmi di informazione che affrontano temi sociali a 360°”.
Con la prefazione di Assunta Corbo, giornalista, autrice e presidente del Constructive Network che lo ha definito “un libro necessario per il momento storico che stiamo vivendo e anche per il nutrimento delle coscienze di ognuno di noi” e la postfazione curata dal critico letterario Claudio Ardigò da anni attivo nel volontariato in carcere che ha trovato nell’opera “il racconto di chi si è messo in gioco, di chi si è confidato, di chi si è perso, di chi si è tolto una maschera”, “Il silenzio dentro” è un manifesto di giornalismo costruttivo, dove la narrazione diventa strumento di consapevolezza e cambiamento: un invito ad ascoltare, comprendere e agire, perché raccontare può essere il primo passo verso la giustizia.

Sulla “Grande Guerra” ho letto diversi libri, molti di questi, anzi quasi tutti si astengano dalla solita retorica, della “vittoria mutilata” o del completamento del cosiddetto Risorgimento. Da poco ho letto un’opera collettanea a cura di Donato Bragatto e Enrico Trevisani, “Della Guerra e del Ricordo. Saggi storici nel centenario della Grande Guerra”, Edizioni Fr, Ferrara (pp. 199; 2016). All’edizione hanno collaborato diverse associazioni culturali. E’ un libro che si pone l’obiettivo di affrontare la Prima Guerra Mondiale da diverse angolature. Nel complesso sono pubblicate undici contributi, sempre con uno sguardo ai militari ferraresi al fronte. Il filo rosso che li collega non è la macrostoria degli eventi, ma su elementi che finora erano stati poco studiati, tipo i diari del combattente. Il testo si suddivide in quattro Parti. In particolare, mi hanno interessato ad alcuni temi, tipo quelli dedicati ai prigionieri di guerra, i cappellani militari e preti-soldati, il contributo dell’industria automobilistica italiana e soprattutto quello della Propaganda e identità. Noi e l’Altro nella Grande Guerra. Sui prigionieri di guerra, Gian Paolo Bertelli calcola che i prigionieri morti dovrebbero essere 100 mila; inoltre, Cadorna e Sonnino “si dimostrarono cinicamente contrari ad ogni forma di assistenza verso i nostri militari internati; al fine di scoraggiare la presunta propensione di una parte delle nostra truppe a consegnarsi al nemico per evitare il combattimento”. Soltanto nel 1918 poi Orlando ha dato modo di organizzare una spedizione di generi di conforto e viveri. Dopo Diaz pensò di deportare i nostri militari di ritorno dai campi di prigionia in Libia e in Macedonia. “Si riteneva isolare questi soldati rei di essersi arresi al nemico”. E di rinchiuderli soprattutto quelli rientrati dagli Imperi Centrali. Naturalmente i dati forniti dalla “macrostoria” sono diversi da quelli ben più dettagliati dalle numerose testimonianze provenienti dai diari e dalle memorie che vennero date alle stampe. Sui cappellani militari ne parla lo storico Achille Maria Giachino che fa riferimento alla circolare del 12 aprile 1915 del Capo di Stato Maggiore, gen. Luigi Cadorna che reintrodusse la figura del cappellano militare assegnandone uno per ogni reggimento. Il Papa Benedetto XV, nominò monsignor Angelo Lorenzo Bartolomasi come vescovo di campo. Qui lo storico evidenzia la difficile condizione di operare dei vari cappellani nelle zone di guerra, specialmente nelle trincee. “La guerra pose i cappellani nella difficile situazione di dover coprire due ruoli molto diversi tra loro: da un lato annunciare il Vangelo e dall’altro infondere nel soldato le virtù proprie del militare, che lo avrebbe sostenuto nella lotta finalizzata al raggiungimento della vittoria”. Il cappellano aveva un doppio ruolo. Non solo deve affrontare i pericoli della guerra, ma deve confortare, spronare con la parola i soldati al compimento del proprio dovere. Il cappellano aveva anche l’importante incarico di tenere la corrispondenza tra l’esercito e le famiglie dei saldati. Alcuni hanno svolto anche l’incarico della censura: vigilare e controllare le notizie inviate dal fronte. I cappellani qualche volta si sostituirono ai soldati compiendo atti di coraggio e abnegazione. “Al termine del conflitto – scrive Giachino – molti ecclesiastici patirono una profonda crisi di identità […]”. In pratica, si presentò il caso del “prete reduce”. I vescovi hanno dovuto “lavorare” per “ripulirli dalla polvere mondana”. Alcuni di questi preti, trecentocinquanta furono sospesi a divinis. La Seconda Parte del libro, tratta della guerra di parole: la lingua e la propaganda. Sono interessanti i contributi scritti (memorie, diari) che raccoglie il professore Fabio Romanini dell’università di Trieste. La mia attenzione va all’aspetto della Propaganda. Per la prima volta, la propaganda viene usata in maniera massiccia in questa guerra. “Studiare la propaganda significa avvicinarsi a svariati aspetti di grande significato: il grande contributo di intellettuali e uomini di cultura allo sforzo bellico, l’impatto di parole e immagini sulla coscienza collettiva, l’uso di strumenti psicologici per indirizzare la credenza della masse. Del resto, lo abbiamo visto in questi mesi per il conflitto in Medio Oriente, tra Israele e Hamas, ma anche in Ucraina. In questo saggio si analizza il tema della propaganda in relazione agli aspetti psicologici e alla questione dell’identità. Romanini fa riferimento allo studio di Gustave Le Bon, in particolare al capitolo che riguarda il tema della suggestionabilità della folla e dalla nascita da essa delle leggende e dei falsi racconti. La folla viene accostata agli aspetti propri del selvaggio o del bambino. La folla crede e basta, non si pone interrogativi o domande. Le masse generano leggende e credenze inverosimili. Interessante la descrizione dei vari stereotipi affibbiati al nemico, al tedesco, uguale al barbaro unno. Un altro riferimento del professore è quello del filosofo Jacques Ellul che ha sottolineato lo stretto legame che esiste tra la massa e la propaganda. Fino a parlare di uomo-massa, che si sposta da una folla all’altra. Mentre la società primitiva è meno adatta alla propaganda, perché rigida ed ha pochi simboli.

Prima ancora di creare un’immagine del nemico, i belligeranti ne creano uno di se stessi, ovviamente positiva, che serve a giustificare la guerra e i sacrifici che essa richiede”. Basta osservare i vari manifesti di propaganda sul soldato italiano. Interessante le poesie o le canzoni di D’Annunzio, che offre l’immagine di Dante, visto come nume tutelare nella guerra contro la barbara Austria. Naturalmente in questo frangente della Grande Guerra subentra nei confronti del nemico il legame della propaganda con il razzismo. Idee in quel momento ben presenti in Europa. C’è uno sforzo di individuare i caratteri di ciascuna delle due “razze”. La contrapposizione tra la latinità dell’Italia e il germanesimo. Da una parte la civiltà della bellezza, dell’armonia, dell’eleganza, dall’altra, la durezza, la rapacità, l’avidità.

Comunque, sono del parere che per leggere i libri sulla Grande Guerra è utile tenere conto delle osservazioni dello storico Aldo A. Mola, che ha scritto molte pagine di storia italiana. In un fascicolo de Il Domenicale (2.4.2005, n.14) col titolo “1915. L’Italia grottesca. Alleata dei suoi nemici”., Mola fa una analisi critica della guerra, partendo dalle vittime, 14 milioni, una catastrofe umana, una tragedia immane. Una vera e propria ecatombe. Ad onta della retorica bellicistica, che allora s’impadronì di molti, la Grande Guerra fu un vero sfacelo. Soprattutto per l’Italia. Mola citando una Mostra curata da Accame con Claudio Strinati a Roma su “90 anni dalla grande guerra”, e allestita alla Termini Art Gallery. È un pugno nello stomaco che aiuta a riflettere su quello strano ricorrente entusiasmo per la guerra. L’Italia pagò il proprio contributo di sangue con 620 mila morti e più di un milione di mutilati, i cui drammi umani non sono stati mai ricostruiti in un libro. Sono tanti gli spunti interessanti che Mola fa emergere in questo suo intervento. Intanto, tutti gli eserciti in campo erano convinti di fare una guerra lampo e quindi di una vittoria folgorante, ma ben presto divenne una guerra di logoramento. Ogni attacco sembrava quello decisivo, che puntualmente veniva fermato, poi partiva la controffensiva dell’aggredito. Ma tutto era inutile. “Così la guerra divenne una fornace che bruciò giovani vite a milioni: non solo contadini, ma figli della piccola e media borghesia, studenti universitarie   neolaureati e così via…Papa Benedetto XV non esitò a bollare la carneficina come “inutile strage”. Il Papa aveva intuito che quella guerra, con i morti ammazzati nella guerra di trincea, impigliati nei reticolati, assassinati con i gas, irrecuperabili, irrigiditi e imputriditi, sconvolgevano la psiche di milioni di europei, indotti a concludere che la vita non vale più niente. Quella guerra fu la negazione di decenni di pacifismo e spianò la via a tutti i tipi di fanatismo. Benchè i neutrali fossero la maggioranza, prevalsero le minoranze rumorose: i nazionalisti, secondo i quali la guerra “è la sola igiene del mondo’”, chiedevano l’intervento immediato, che l’Italia entrasse in guerra. In un primo momento non importava con chi. Volevano sangue. Avevano il sostegno della grande stampa, a cominciare dal Corriere della Sera di Luigi Albertini, che da anni ospitava le lautamente pagate canzoni di Gabriele D’Annunzio fanatico sostenitore della guerra. Con lui c’era Benito Mussolini che uscito dal Partito socialista fondò il Popolo d’Italia e si schierò per l’intervento, come lui anche Antonio Gramsci, Palmito Togliatti, Giuseppe Di Vittorio.

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