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Cinque milioni di italiani hanno difficoltà a mettere in tavola un pasto decente, 7 milioni e 600mila hanno avuto un peggioramento del tenore di vita. Il 60% degli italiani ritiene che la perdita del lavoro, o del reddito, sia un evento possibile che lo può riguardare nel prossimo anno".

È quanto emerge dal Secondo Rapporto Censis-Tendercapital sui Buoni Investimenti "La sostenibilità al tempo del primato della salute". Per quanto riguarda il gender gap, tra uomini e donne ci sono 20 punti di differenza nel tasso di occupazione e, in questo periodo, il tasso di occupazione delle donne è diminuito quasi del doppio rispetto a quello degli uomini.

l 54% delle donne che lavorano dice che in questi mesi è aumentato lo stress e la fatica, mentre tra gli uomini sono il 39%. Il rapporto evidenzia poi anche differenze generazionali: tutti i fenomeni di riduzione dell'occupazione colpiscono di più i giovani rispetto ai lavoratori adulti. Il gap generazione si è quindi ampliato. Differenze poi anche nell'accesso al web, con il 40% di famiglie a basso livello socioeconomico che non ha accesso alla rete,mentre tra le famiglie ad alto livello socioeconomico sono solo l'1,9%. Secondo il rapporto il quadro che emerge è chiaro:usciremo dalla pandemia con una società più diseguale, sia in termini di redditi e patrimoni, sia per quanto riguarda le altre differenze.

Causa dell'emergenza sanitaria, rileva lo studio 23,2 milioni di italiani hanno dovuto fronteggiare delle difficoltà con redditi familiari ridotti; 2 milioni sono già stati duramente colpiti nella prima ondata della pandemia; 9 milioni di italiani hanno integrato i redditi da familiari o banche. Oggi restare senza reddito non è più così difficile: a temerlo è il 53% delle persone a basso reddito, mentre il 42% degli italiani vede il proprio lavoro a rischio.

Dal Rapporto emerge una società in affanno, che a causa della pandemia vede ampliarsi le disparità. Così la sostenibilità sociale, che si intreccia con quella ambientale ed economica, in futuro non potrà più affidarsi al solo intervento dello Stato, ma dovrà contare sui buoni investimenti di una finanza capace di trasferire risparmi all'impatto sociale, con imprese che operano come una comunità. È significativo il fatto che l'82,3% degli italiani sia favorevole a misure che impongono la permanenza in Italia di stabilimenti e imprese che producono beni e servizi strategici come ad esempio mascherine e respiratori, essenziali durante la pandemia. Come si evince dal Rapporto, inoltre, questo interesse si accompagna al protezionismo contro i prodotti di Paesi che non rispettano le nostre regole sociali e sanitarie: a dichiararlo è l'86% degli intervistati (88,3% tra le donne e 89,2% tra chi risiede nel Nord Est).

Per il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, "la coesione sociale è un presupposto della crescita, come un buon welfare. Farli sentire con le spalle protette, per salute e futuro dei figli, è il modo migliore per rassicurare gli italiani, facendo ritrovare loro il gusto delle sfide. La pandemia ci lascerà una società impaurita, più diseguale, alla ricerca della crescita. Non sarà lo stato a debito a lenire le sofferenze, ci vorrà lo sforzo di tutti i soggetti, le imprese e i mercati". Secondo il presidente di Tendercapital, Moreno Zani, "il 2020 è stato ed è tuttora un anno senza precedenti, con sfide estremamente complicate in termini sanitari ed economici. Non dobbiamo però dimenticarci delle conseguenze a livello sociale della pandemia, che rischiano di diventare davvero gravi: aumento delle disparità sociali, gender gap, paure e incertezze. Gli italiani indicano chiaramente che una società inclusiva, sostenibile, equa è la priorità del nostro tempo, con grande sensibilità sociale".

460.000 le piccole imprese italiane (con meno di 10 addetti e sotto i 500.000 euro di fatturato) a rischio chiusura a causa dell'epidemia: l'11,5% del totale, capace di un fatturato complessivo di 80 miliardi di euro e di impiegare un milione lavoratori. 

E' quanto emerge dal 'Secondo Barometro Censis-Commercialisti sull'andamento dell'economia italiana', realizzato in collaborazione con il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Secondo il rapporto, a causa delle conseguenze del lockdown per arginare la pandemia da Covid-19 potrebbe sparire il doppio delle microimprese che hanno chiuso tra il 2008 e il 2019, come conseguenza della grande crisi. "Sarebbe un doloroso addio ai nostri piccoli imprenditori vittime di una strage annunciata, con gravi ricadute sulla crescita: è in pericolo il meglio del motore antico del modello di sviluppo italiano", si legge in una nota del Censis. Il 29% dei commercialisti coinvolti nella ricerca rileva che più della metà delle microimprese clienti ha almeno dimezzato il proprio fatturato (il dato scende al 21,2% nel caso dei commercialisti che si occupano di imprese medio-grandi).

Sono quindi 370.000 le piccole imprese che hanno subito un crollo di più della metà dei ricavi. Inoltre, il 32,5% dei commercialisti registra in più della metà della clientela una perdita di liquidità superiore al 50% nell'ultimo anno (il dato scende al 26,2% tra i commercialisti che seguono imprese di maggiori dimensioni). Sono cioè 415.000 le piccole imprese che oggi dispongono di meno della metà della liquidità di un anno fa. 

Sullo stato di diritto l'Ue non arretra di un millimetro e lo stallo sul Recovery resta. La videoconferenza dei leader, come peraltro era previsto, non ha sbloccato il veto di Polonia e Ungheria sul pacchetto economico da 1.800 miliardi di euro con cui i governi nazionalisti di Mateusz Morawiecki e Viktor Orban stanno tenendo in ostaggio il futuro dell'Europa. 

L'Ungheria e la Polonia hanno deciso di porre il veto sul Recovery Fund: al centro di tutto c’è la condizionalità che lega l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto, con Orban e Morawiecki che rischiano di far saltare il Next Generation Ue e i 209 miliardi destinati all'Italia.

Ma perché Ungheria e Polonia hanno deciso di porre il veto sul Recovery Fund? Tutto ruota intorno alla condizionalità che lega l’erogazione dei fondi al rispetto dello Stato di diritto, un cavillo non di poco conto viste le politiche messe in atto negli ultimi anni da Viktor Orban e da Jarosław Kaczyński.

Secondo l'Articolo 2 del Trattato sull'Unione europea, lo stato di diritto è uno dei valori fondanti dell'UE. Vale a dire che i governi dovrebbero essere vincolati dalla legge, che non dovrebbero prendere decisioni arbitrarie e che i loro cittadini dovrebbero essere in grado di contestare l'operato in un tribunale indipendente.

Esso sancisce inoltre la lotta contro la corruzione, per cui alcuni traggono indebito vantaggio a danno degli altri, e protegge la libertà di stampa, assicurando così che la collettività sia adeguatamente informata sugli interventi del governo.

Lo stato di diritto è di interesse comune secondo i cittadini europei. Secondo un sondaggio dell'Eurobarometro pubblicato nel 2019, almeno l’85% dei partecipanti UE ha considerato essenziale o importante ogni aspetto dello stato di diritto. Un altro sondaggio pubblicato a ottobre 2020 ha riportato che il 77% dei cittadini europei (in Italia l'81%) sostiene che l'UE dovrebbe fornire fondi agli stati membri solo se il governo nazionale rispetta lo stato di diritto e i principi democratici.

La corruzione o la presenza di tribunali non indipendenti possono significare che non esiste una reale protezione contro l’uso improprio dei fondi UE destinati a uno stato membro. Nel 2018, la Commissione ha presentato una proposta legislativa con lo scopo di difendere gli interessi finanziari dell’UE, nel caso in cui vengano rilevate irregolarità nello stato di diritto.

Il Parlamento ha adottato la sua posizione sulla proposta a inizio 2019. Il documento è legato al risultato dei negoziati sul bilancio a lungo termine dell'UE, e il Parlamento ha ribadito che un accordo sul bilancio 2021-2027 è possibile solo se ci sarà sufficiente progresso in questa legislazione.

I leader europei hanno raggiunto nel luglio 2020 l'accordo di introdurre la condizionalità dello stato di diritto, per esempio subordinando la ricezione dei fondi europei di uno stato membro al suo rispetto dello stato di diritto. La presidenza tedesca del Consiglio dell'Unione europea ha presentato una proposta di compromesso a inizio autunno, giudicata insufficiente dagli eurodeputati durante la sessione plenaria del 5 ottobre.

“Un meccanismo che non può nemmeno essere attivato nella pratica, a causa di procedimenti incerti e con potenziali scappatoie, è utile solo agli interessi di chi non desidera vedere nessuna misura in azione”, ha detto Petri Sarvamaa, del Partito popolare europeo (Finlandia).

Ma il messaggio emerso forte e chiaro, per bocca del presidente del Consiglio Charles Michel, è che sul rispetto dello stato di diritto l'Unione non è disposta a fare compromessi. Un punto fermo del negoziato che ripartirà già da domani, sotto la regia della presidenza di turno tedesca, alla ricerca di una via d'uscita per liberare il Bilancio 2021-2027 ed il Recovery fund dal ricatto dei due Paesi recalcitranti di fronte alla clausola che lega l'erogazione dei fondi al rispetto delle regole fondamentali della democrazia.  

Ci vorrà ancora tempo per risolvere la clamorosa crisi scoppiata tra i Ventisette dopo che Ungheria e Polonia si sono opposti all'adozione del bilancio comunitario per protestare contro un nuovo meccanismo che condiziona l'esborso dei fondi comunitari al rispetto dello stato di diritto. La giornata di giovedì ha ribadito il braccio di ferro.

I capi di Stato e di governo hanno tenuto giovedì sera una riunione in teleconferenza, come ormai avviene una volta al mese da quando è scoppiata l'epidemia influenzale. Esponenti politici avevano avvertito che non vi sarebbero state novità. La crisi è scoppiata lunedì, ed è ancora presto per risolvere la questione: “Dobbiamo continuare le discussioni per trovare un compromesso”, ha detto in una conferenza stampa alla fine della riunione il presidente del Consiglio europeo Charles Michel

Per cercare di convincere Budapest, Varsavia e Lubiana, la Francia ha minacciato di chiudere l'accordo a 25, lasciando fuori i due Paesi: anche in questo modo, non avrebbero accesso ai fondi. Ma una spaccatura così plateale, paradossalmente, potrebbe avere conseguenze destabilizzanti per l'intera Unione. Una discussione sostanziale, forse, arriverà con il prossimo Consiglio europeo, in agenda per i primi di dicembre.  

L'ufficio per la comunicazione internazionale di Orban, su Twitter, ha fatto sapere che "il governo di Budapest ha posto il veto sul pacchetto di bilancio Ue in linea con la sua posizione comunicata già nel summit di luglio": le capitali dell'Est non vogliono vedersi negati i fondi perché, a giudizio della Commissione Ue, non rispettano lo Stato di diritto.

"A luglio abbiamo trovato un accordo e abbiamo bisogno che l'intero pacchetto riceva il via libera, dobbiamo andare avanti", ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen al termine del summit Ue. "La Commissione europea sostiene l'accordo trovato nei negoziati, e per me è anche importante per il futuro avere un bilancio" con il meccanismo dello "stato diritto - ha aggiunto - dobbiamo trovare una soluzione, milioni cittadini aspettano una risposta in questa crisi senza precedenti e dunque continuiamo a lavorare sodo per raggiungere un accordo al più presto".

"Ungheria e Polonia hanno posto un veto alla decisione sul Recovery Fund e hanno detto chiaramente che non possono accettare la condizionalità sullo stato di diritto. Questo significa che non possiamo inviare la proposta al Parlamento Ue", ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine della videoconferenza tra i leader Ue. "Non voglio fare speculazioni su come verrà risolta la questione con Ungheria e Polonia, dobbiamo continuare a lavorare e sondare tutte le opzioni possibili", ha detto la Merkel. "Siamo ancora all'inizio della questione".

Il negoziato ripartirà già oggi, ma sembra difficile che il via libera sul Recovery Fund e sul bilancio 2021-2027 dell'Unione Europea arrivi nelle prossime ore. Durante la videoconferenza dei leader UE tenutasi ieri, tramite le parole dei loro capi di governo Mateusz Morawiecki e Viktor Orban, Polonia e Ungheria hanno confermato il veto con cui stanno tenendo in ostaggio il pacchetto economico pensato per fronteggiare la crisi causata dal coronavirus. Dall'altro lato, la maggioranza degli Stati membri è decisa a non scendere a compromessi sulla clausola che lega l'erogazione dei fondi al rispetto delle regole fondamentali della democrazia.

L'Unione Europea potrebbe aggirare l'ostacolo entrando in un esercizio di bilancio provvisorio, ma ciò finirebbe per accumulare ritardi sugli esborsi del Recovery Fund. Resta positivo il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, che ha detto: "La magia dell'Unione Europea è quella di trovare soluzioni anche quando sembra impossibile. Nessuno sottovaluta la situazione, e la natura seria di quanto affrontiamo. Ma c'è la determinazione di lavorare in modo intenso per superare gli ostacoli".

"Ungheria e Polonia hanno posto un veto alla decisione sul Recovery Fund e hanno detto chiaramente che non possono accettare la condizionalità sullo stato di diritto. Questo significa che non possiamo inviare la proposta al Parlamento UE", ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine della videoconferenza. "Non voglio fare speculazioni su come verrà risolta la questione con Ungheria e Polonia, dobbiamo continuare a lavorare e sondare tutte le opzioni possibili", ha aggiunto.

"Gli emendamenti alla costituzione e ad altre leggi presentati dal governo ungherese al parlamento potrebbero avere gravi effetti negativi sui diritti umani" e "minare lo stato di diritto".

I "parlamentari dovrebbero rinviare il voto sul pacchetto". Così Dunja Mijatovic, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa. "Temo che diverse proposte del pacchetto legislativo, presentato senza consultazione su questioni come il funzionamento della magistratura, la legge elettorale, strutture nazionali per i diritti umani, controllo dei fondi pubblici e i diritti delle persone lgbti, possano minare la democrazia" avverte Mijatovic.  

Il recovery plan dell'Italia "lo vedrete entro i tempi stabiliti, stiamo lavorando con grande intensità e siamo in una interlocuzione con la Commissione europea, come altri Paesi. Nessun paese ha presentato il piano finale, stanno tutti lavorando con la Commissione per affinare i progetti e noi lo stiamo facendo piuttosto intensamente": Lo ha detto il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, a Omnibus ribadendo che il negoziato europeo per superare i veti di Ungheria e Polonia sul bilancio pluriennale comunitario e dare il via al recovery fund può risolversi a dicembre.

Nonostante gli attriti fra i due Paesi dell'Est e l'Ue non siano proprio una novità, è la prima volta che Budapest e Varsavia pongono il veto all'interno del Consiglio europeo, per giunta su una questione di vitale importanza come i fondi comunitari. Al bilancio pluriennale, quest'anno, è legato anche il Recovery Fund, lo strumento finanziario dell'Ue per far fronte alla crisi economica e sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Agli Stati membri, saranno distribuiti i 750 miliardi di euro previsti dal fondo congiunto, di cui 390 trasferiti in sovvenzioni e 360 in prestiti.

Sbloccare l’approvazione del Mff, pertanto, è fondamentale per tutti in Unione europea, la quale si sta trovando in un’impasse senza precedenti per la sua storia. Il Parlamento europeo ha già dichiarato che non è disposto a negoziare i termini dello stato di diritto con Budapest e Varsavia. I leader del Consiglio europeo, riunitosi virtualmente nella giornata di giovedì 19 novembre, sono tuttora alla ricerca di una soluzione diplomatica. Per riuscire a utilizzare almeno il Recovery Fund, infatti, l’unica alternativa a una ritrovata unanimità sarebbe quella di trasformare il fondo comunitario in uno strumento intergovernativo, che tuttavia si dimostrerebbe una procedura lunga e non risolverebbe il problema del ricatto di fondo da parte dei due Paesi dell’Est – spiega l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

Sul fronte sanitario, l'Unione europea non ha alcuna intenzione di fermare i due vaccini. L'Ema potrebbe dare il via libera alla loro commercializzazione nella seconda metà di dicembre. Sempre se non dovessero emergere problemi, ha fatto capire la presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Capitolo debiti. La presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, è stata chiara nel rispondere indirettamente alla proposta avanzata dal presidente dell'Europarlamento David Sassoli: "Leggo sempre con interesse tutto quello che dicono i rappresentanti del Parlamento Ue e soprattutto i presidenti, la mia risposta è molto corta: tutto quello che va in quella direzione è contro i trattati, c'è l'articolo 103 che proibisce quel tipo di approccio e io rispetto i trattati". Dunque, semaforo rosso alla cancellazione del debito contratto dai vari Paesi con la Bce.

Tra le tante incertezze che stanno caratterizzando le elezioni presidenziali americane, sussiste una sola certezza: il popolo americano è sostanzialmente spaccato in due, da una parte i sostenitori del partito democratico, dall’altra quelli del partito repubblicano.

Per quanto riguarda i risultati elettorali, sarebbe stato prudente aspettare almeno il 15 dicembre quando il Collegio elettorale, dovrà esprimere il proprio voto e sancire la vittoria del prossimo presidente americano. Pertanto, nessuno può decretare la vittoria prima del 14 dicembre. Quindi chi si è espresso prima, come la maggior pare dei media e i capi di governo, lo ha fatto su delle proiezioni elettorali e soprattutto perché molti di questi si augurano (per non dire parteggiano) la vittoria del candidato dem. Purtroppo, sembra che in questa scelta imprudente sia caduto anche papa Francesco, sempre se risponde a verità la presunta telefonata a Biden. Anche lui, poteva aspettare il responso definitivo del 15 dicembre.

Intanto continua lo spoglio elettorale e soprattutto la verifica dei voti e quindi l’inchiesta sulla regolarità del voto. Tuttavia occorre anche scrivere che nonostante la sicurezza dell’entourage del presidente Trump, sembra che ad oggi siano “minime le speranze di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali contestando il voto nei tribunali, per una serie di ragioni che vanno dalla difficoltà di provare brogli massivi, e decisivi, a doverlo fare in più stati in pochi giorni”(Federico Punzi, Il caso Pennsylvania, su cui potrebbe pronunciarsi la Corte suprema: violate legge elettorale e costituzione, 700 mila voti contestati, 14.11.20, atlanticoquotidiano.it)

Questo però non significa che un qualsiasi osservatore “dotato di buon senso e onestà intellettuale - scrive Punzi - non dovrebbe ignorare l’opacità dello scrutinio negli stati in bilico, dove il conteggio dei voti è stato più volte fermato e ripreso, in attesa dell’arrivo di ulteriori schede anche ore e giorni dopo la chiusura dei seggi, e dove sono stati estromessi gli osservatori del Gop. Non si tratta di portare avanti teorie della cospirazione, ma di riconoscere l’inaffidabilità intrinseca del voto per posta, che in queste elezioni, con la scusa del Covid, per volontà dei Democratici è stato reso “universale”, da eccezione a regola, in molti stati.

A proposito dei brogli, sembra che negli Stati dove sostanzialmente si è giocata la vera battaglia elettorale: Arizona, Georgia, Michigan, Pennsylvania, Nevada, Wiskonsin, proprio qui per conteggiare i voti è stato utilizzato il software Dominium. E proprio in questi Stati che è stato fermato il conteggio e poi proseguito dopo il nuovo afflusso di schede elettorali taroccate. Sembra che al 70% di schede scrutinate in Pennsylvania, Trump era avanti di 800 mila voti su Biden. Poi magicamente non si sa come è passato avanti.

Per quanto riguarda i media mainstream che ancora si sforzano di oscurare l’offensiva legale del presidente Trump, è che in realtà ci troviamo nel bel mezzo di un’elezione contestata. “Certo, sia il gioco delle assegnazioni durante la notte del 3 novembre sia la frettolosa proclamazione mediatica di Biden presidente-eletto miravano a mettere il Paese, l’opinione pubblica e le istituzioni, di fronte al fatto compiuto, ben prima che fosse ragionevole “chiamare” un vincitore. Come previsto, è scattata la narrazione di Trump “golpista” e agitatore, che i Democratici e i media fiancheggiatori preparavano da mesi, ma la realtà è che non c’è nulla di scandaloso o di pericoloso in un presidente uscente che si rivolge ai tribunali per contestare presunte irregolarità nel voto. È suo diritto farlo, ci sarà un processo legale, farà il suo corso, e la volontà dei media di ignorarlo, di ignorare qualsiasi elemento a supporto dei ricorsi, rifiutandosi di contemplare persino l’ipotesi, non è giornalismo, è attivismo politico”.

E comunque coloro che oggi accusano Trump di non voler “concedere” la vittoria a Biden, sono gli stessi che per tre anni e mezzo, senza uno straccio di prova e sulla base di dossier e leak falsi, hanno alimentato la bufala dell’elezione rubata da Trump con l’aiuto dei russi.

Sulla questione dell’influenza dei mass media sulle elezioni americane se ne è occupato Stefano Magni, in un interessante editoriale sempre su Atlanticoquotidiano. “Molti non ricordano (o fingono di non ricordare), ma noi sì: i media Usa (e non solo) hanno riservato il “trattamento-Trump” a tutti i candidati o presidenti Repubblicani, da Goldwater a Romney, passando per i Bush e McCain (oggi lodato da morto), massacrandoli con campagne di delegittimazione e fake news. Ma con Trump hanno fatto un passo in più: hanno vinto loro le elezioni…” (Stefano Magni, L’egemonia Dem sui media. Non solo Trump: non c’è candidato o presidente Repubblicano che non sia stato demonizzato, 16.11.20, atlanticoquotidiano.it)

Pertanto, l’atteggiamento partigiano e poco professionale dei Media americani nei confronti dei candidati repubblicani è iniziato dagli anni ’60, dai tempi di Kennedy.

Il perché la stampa americana demonizza i candidati repubblicani o conservatori viene ben individuato da Magni. “Il grande problema ignorato, un “elefante nella stanza” come direbbero gli americani, non è questo o quel presidente, ma l’egemonia che i Democratici hanno conquistato nel mondo accademico e di conseguenza in quello mediatico. E’ quell’egemonia culturale gramsciana che peraltro caratterizza anche l’Italia.

Questo atteggiamento discriminatorio viene giustificato “dai diretti interessati con argomentazioni che vanno dal romantico “dobbiamo resistere a un presidente nemico della libertà di stampa”, ad un deontologico “non possiamo permettere che vengano trasmesse informazioni false”. Naturalmente sono affermazioni false, anche perché questi giornalisti non si sono mai sognati di censurare personaggi discutibili¸ dittatori o terroristi come Osama bin Laden o Abu Bakhr al Baghdadi.

E peraltro è giusto così perchè un giornalista deve informare e non fare il giudice. Dunque, Trump non è il primo repubblicano ad essere preso di mira dai media americani. Tutto inizia dal candidato Barry Goldwater, nel 1960, laico e liberale, è tuttora ricordato come “razzista” e “guerrafondaio”, a causa della feroce campagna mediatica contro di lui. Non vinse le elezioni e si risparmiò quattro anni di gogna mediatica.

Interessante il trattamento riservato al presidente Richard Nixon “che divenne addirittura sinonimo della corruzione del potere. Nixon venne letteralmente linciato per una guerra (Vietnam) che non aveva iniziato, ma che, anzi, provò a portare a termine nel migliore dei modi con gli accordi di Parigi nel 1973. L’odio dei media nei suoi confronti era tale, che gli è stata anche tolta la Luna. Fateci caso: quando l’anno scorso è stato celebrato il 50° anniversario dell’allunaggio, è sempre stato nominato Kennedy (che lanciò il programma), ma mai Nixon (che lo portò a termine con successo nel suo primo anno di presidenza)”.

Poi toccò a Reagan, ci provarono in tutti i modi. Ma nonostante l’aggressione mediatica, secondo Magni, fu il presidente più amato degli americani. Si continua con i Bush padre e figlio, anche loro non hanno avuto certamente il favore della stampa. Magni riporta episodi per convalidare la sua tesi, soprattutto in riguardo a Bush figlio. “Nell’era di Internet ogni giorno, ogni ora, era un attacco continuo al presidente, calunniato, paragonato a una scimmia, accusato di essere un alcolizzato. Sono stati realizzati documentari, film, libri, contro la sua persona e la sua amministrazione. I suoi uomini, Cheney, Rumsfeld, Rove, paragonati a criminali nazisti”.

L’odio dei media contro i candidati repubblicani non si spense, la contro-informazione, la disinformazione continuò anche per i due candidati successivi: contro McCain e soprattutto contro la sua vice Sarah Palin. Addirittura, contro quest’ultima “erano già pronti a creare (anche con un film hollywoodiano rimasto nel cassetto) una mitologia negativa contro i mormoni e la destra religiosa, al momento della candidatura di Mitt Romney. Infine, hanno avuto modo di sfogarsi con Trump. Pensateci bene quando dite: “Trump è comunque indifendibile”. Chiunque viene massacrato, basta che non sia dalla parte “giusta”. Certo con Trump, i media hanno fatto un passo in più: hanno vinto loro le elezioni, un po’ come un arbitro che segna il gol della vittoria”.

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