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Può essere utile leggere e proporre alcuni pensieri e scritti di un nobile torinese scritti più di 180 anni fa? Avendo letto ormai altri libri che lo riguardano penso di si. Mi riferisco a Carlo Tancredi Falletti, marchese di Barolo. Il saggio che si occupa degli scritti spirituali e pedagogici del marchese si intitola: “Chiamati alla felicità”, pubblicati da Edizioni San Paolo (2002). Il saggio è stato curato da Suor Franceschina Milanesio, Superiora generale delle Suore di Sant'Anna, con la collaborazione di Angelo Montonati, studioso dei marchesi di Barolo.

Potrebbe apparire inutile e ozioso riproporre delle operette che per tanti anni nessuno ha mai letto. Tuttavia le suore di Sant'Anna sentono il dovere e la responsabilità di proporle (del resto sono state fondate dal marchese) perchè continuano nonostante l'età ad essere utili alla società di oggi. Dei saggi proposti nel libro mi hanno colpito maggiormente, quelli che riguardano l'educazione della Prima Infanzia nella classe indigente e i Brevissimi cenni diretti alla gioventù. Carlo Tancredi qui affronta concretamente i problemi legati all'educazione dei fanciulli e dei giovani, superando le astruse ed astratte teorie filosofiche o psicologiche degli ambienti filantropoci liberal illuministi del suo tempo. Sono degli scritti avvincenti per la loro concretezza dei particolari descritti e per l'attualità dei principi e dei suggerimenti contenuti. Carlo insieme alla consorte Giulia Colbert, entrambi ferventi credenti nella Redenzione di Nostro Signore Gesù Cristo, intendevano riportare l'uomo a quella felicità per la quale è stato creato.

Prima di passare ai suggerimenti pedagogici, è necessario fare un breve profilo biografico di Carlo Tancredi, nato a Torino nel 1782, dai genitori oltre ad ereditare una ingente ricchezza, ereditò soprattutto dalla madre una profonda fede religiosa e devozione sincera alla Chiesa cattolica. Alla corte di Napoleone conobbe Giulia Colbert, figlia del marchese di Maulevrier, che sposò a Versailles nel 1806. Non avendo avuto figli, i due coniugi gareggiarono nel farsi apostoli di carità cristiana, “adottando “ i poveri di Torino. “Vissero così una maternità e una paternità spirituali fecondissime, dando un esempio attuale di famiglia aperta alla evangelizzazione e a l dono di sé ai fratelli”.

Carlo Tancredi fu protagonista di eventi rilevanti della società torinese di allora. A 34 anni entrò a far parte dei “Decurioni” di Torino, un corpus municipale, composto di 60 membri. Per qualche anno rilevò la carica di sindaco della città. Individuando nel pauperismo e nell'analfabetismo le due piaghe principali della società del suo tempo, nel corso dei 22 anni di impegno come amministratore, si fece promotore e sostenitore di opere tendenti non soltanto al soccorso degli indigenti, ma anche all'armonia tra le diverse classi sociali. Tra le tante iniziative, istituì nel suo palazzo, per i più piccoli,“stanze di ricovero” o “sale d'asilo”, sull'esempio di quelle già realizzate in Francia. Probabilmente furono le prime scuole per l'infanzia istituite in Italia. Nei miei studi pedagogici imposti dal sistema scolastico italiano non ho mai incontrato il marchese di Barolo come pioniere degli asili infantili.

In questi sale bisognava accogliere il maggior numero possibile di bambini, maschi e femmine, non ancora in età di frequentare le scuole ordinarie, e di custodirle durante il giorno, consentendo al resto della famiglia di lavorare. Qui Tancredi, per l'assistenza si fece aiutare da donne laiche, dedicandosi all'educazione fisica e morale per i bambini. Il marchese era convinto che il fisico ha un grande influsso sul morale, specialmente nella prima infanzia. Successivamente d'accordo con la moglie nel 1834 fondò l'istituto delle Suore di Sant'Anna con lo scopo principale di dedicarsi all'educazione dei bambini. Morì prematuramente nel 1838 presso Chiari, vicino Brescia.

Tornando ai suggerimenti pedagogici e alle sale educative di Carlo Tancredi, oggi per noi sembrano delle istituzioni ordinarie, ma allora nei primi anni dell'Ottocento sono delle istituzioni straordinarie. Difficilmente la società di allora si occupava di questi piccoli “disgraziati”, provenienti da famiglie povere emarginate e da ambienti malsani. Il marchese in questo saggio pedagogico è abbastanza preciso nella descrizione e nella predisposizione di come devono essere gli ambienti per accogliere questi ragazzini, cosa fare durante la giornata, e chi deve occuparsi della loro salute fisica e mentale. Il nostro scende nei dettagli, individuando gli orari del gioco, della rilassamento, dei lavoretti manuali, della preghiera. Occorre badare anche alla pulizia sia dei locali che dei bambini.

E' interessante analizzare il metodo educativo che intende attuare il Marchese di Barolo, chiamato simultaneo. Sono diverse le virtù da infondere nei piccoli, il timore di Dio, il rispetto dei genitori, l'obbedienza, l'amorevolezza vicendevole, l'abitudine alla sincerità. “Si deve cogliere ogni opportunità per combattere e svergognare la pigrizia...”. Non bisogna mai sminuire l'autorevolezza dei genitori e il rispetto. Incoraggiarli a dire sempre la verità, mai alla delazione. Evitare le punizioni corporali, utilizzare qualche castigo, ma anche i primi.

Sono altrettanti interessanti gli spunti educativi che riguardano la gioventù e i consigli che vengono offerti per i vari stati da conseguire durante la giovane età. In pratica il marchese anticipava i tempi per quanto riguarda il ruolo cruciale dell'orientamento scolastico nell'aiutare i giovani a discernere a prendere decisioni informate riguardo al percorso scolastico, ma anche alle scelte professionali future. Anche in questo saggio Carlo Tancredi offre ai giovani dei consigli dettagliati per quanto riguarda il lavoro e il raggiungimento del proprio stato. Interessanti le riflessioni sulle “arti liberali”, come l'architettura, l'ingegneria, la pittura, la scultura.

Per quanto riguarda gli impieghi civili, negli uffici pubblici, Tancredi sottolinea l'importanza dei doveri e non solo dei diritti sul posto di lavoro. Ci sono anche consigli per quanto riguarda il commercio e le arti meccaniche. Certo oggi, l'organizzazione del lavoro, i mestieri, le professioni, rispetto al tempo del marchese è tutto cambiato, ma i suoi consigli potrebbero essere ancora utili.

 

Il cardinale Giacomo Biffi, milanese, ma per vent'anni arcivescovo di Bologna, è una figura che ha segnato la Storia della Chiesa per molti anni. Il prossimo anno ricorre il decimo anniversario della sua salita al cielo, è scomparso il 11 luglio 2015.

Un anno esatto dopo la sua scomparsa è stato pubblicato dall'editore Cantagalli, un'opera di scritti in onore del cardinale Giacomo Biffi, un'opera miscellanea, curata da Samuele Pinna e Davide Riserbato, è stato dato il significativo titolo, “Ubi Fides ibi libertas”, (“Dov'è la Fede, lì c'è la libertà”) il motto episcopale utilizzato da Biffi, ripreso dal grande Sant'Ambrogio.

L'opera è una raccolta di scritti: ricordi e studi sul pensiero e il magistero di Giacomo Biffi. Il volume si articola in due sezioni corredate da appendici. Nella Prima Parte, ci sono diversi interventi di alcune personalità religiose e laiche. La Seconda Parte è dedicata al pensiero e all'attività pastorale di Giacomo Biffi. Alla fine impreziosiscono il volume alcune Appendici.

Il testo inizia con una lettera di saluto di Benedetto XVI, che definisce il cardinale un pastore esemplare della Chiesa di Dio in tempi tempestosi. Un uomo di coraggio straordinario, senza paura di popolarità o di impopolarità, orientato solo dalla luce della verità. Nella seconda di copertina, c'è il lungo elenco degli interventi presenti nel testo. Chiaramente non farò riferimento a tutti i contributi ma ad alcuni.

Inizio con la presentazione di Matteo Maria Zuppi, attuale arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Biffi, si è distinto “come un testimone autentico della Verità, aperto alla letizia del Vangelo: da pastore avveduto, ha agito per il bene del gregge che gli fu affidato”. Dopo aver ringraziato i curatori e Papa Benedetto XVI, ha raccomandato questo libro non solo ai fedeli della Chiesa di Bologna, “ma a tutti i credenti e a coloro che ricercano nel loro intimo la ragionevolezza del pensiero cristiano […] Possa san Petronio aiutarci a conservare viva la sua memoria e a mettere in pratica il suo insegnamento”.

Per quanto possa valere il mio giudizio, il cardinale Biffi, è l'uomo di Chiesa che più di ogni altro, ho fatto riferimento e citato nei miei interventi, soprattutto quelli in riguardo all'immigrazione senza controllo.

Segue il telegramma di cordoglio del Santo Padre Francesco, indirizzato al Cardinale Carlo Caffarra, dove sottolinea di Biffi, “l'instancabile servizio da lui reso alla formazione umana e cristiana di intere generazioni mediante l'insegnamento e la pubblicazione di diverse opere”. Nell'omelia nelle Solenni Esequie di Biffi, il cardinale Carlo Caffarra, vede il fratello Giacomo come un vero testimone di Cristo, che ci indica di rimanere saldi nella fede, che ci mette in guardia contro gli errori. “Egli aveva un concetto molto alto del dialogo, e disprezzava profondamente chi lo praticava o come sforzo di ridurci tutti a un minimo comune denominatore o al perditempo della chiacchiera da salotto. In breve: il dialogo coincide con l'evangelizzazione”. Avviandosi alla conclusione, Caffarra dice che il nostro vescovo Giacomo, usando le parole di san Massimo il Confessore, “ci ha insegnato a pensare ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo, e Gesù Cristo per mezzo di ogni cosa. E Dio solo sa quanto oggi nella nostra Chiesa italiana abbiamo bisogno di una fede capace di generare un giudizio sugli avvenimenti”. Monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, ricorda la sua amicizia con Biffi. Del cardinale Bettazzi fa riferimento alla passione delle “Avventure di Pinocchio”, il simbolo del “cristiano anonimo”. Bettazzi ricorda l'anticomunismo di Biffi e una certa allergia nei confronti di don Giuseppe Dossetti che vedeva del positivo nell'ideologia di sinistra.

Giacomo Biffi secondo il Cardinale Giovanni Battista Re, aveva una straordinaria facilità di scrivere, aveva il dono della comunicazione convincente e della certezza. I suoi brillanti scritti suscitavano interesse, sia che riguardavano testi teologici, che divulgativi. Biffi,non era certamente un uomo condizionato dalla mentalità dominante o dalle opinioni del mondo, il vento contrario non lo portava ad addolcire le sue parole, ma a ribadirle con maggior forza”. Tuttavia, Biffi, “non si preoccupò mai di essere 'politicamente corretto', ma espresse sempre le sue valutazioni con chiarezza e franchezza; e in ogni caso con arguzia e brio, e a volte anche in modo mordace”. Monsignor Re ricorda il commento sarcastico e la forte critica nei confronti del rettore dell'Università Cattolica, Giuseppe Lazzati, che nel maggio 1974, in occasione del referendum popolare sulla Legge del divorzio, dopo aver dato spazio ai paladini del divorzio, ha negato lo spazio per “motivi di ordine pubblico” a Sergio Cotta, che si batteva per abrogare la Legge.

Filippo Rizzi, giornalista di Avvenire, di Biffi evidenzia che fu “il più grande 'Pinocchiologo'”. Inoltre ancora ricorda che “per quasi un ventennio ha fatto parlare di sé sui media italiani per la sua capacità di sintesi sulle verità essenziali del cristianesimo, di proporsi come un interlocutore mai banale nelle sue riflessioni spesso controcorrente rispetto alla mentalità comune, ma soprattutto di andare alla radice, all'osso di questioni come il Risorgimento, la laicità dello Stato, il cristocentrismo nella Chiesa Cattolica”.

Rizzi sottolinea la impressionante e sterminata cultura del cardinale, in particolare, la conoscenza della letteratura russa, dell'amato Solov'ev e della figura dell'Anticristo.

Interessante l'intervento di Paolo Francia, giornalista professionista e vaticanista. Il Francia evidenzia l'attenzione del Cardinale nei confronti dei giovani e una forte critica degli adulti che hanno rinunciato ad educarli. Questi adulti di oggi si meravigliano di aver ritrovato in casa dei selvaggi. Dopo “aver annullato ogni distinzione fra bene e male e poi si lamenta che i giovani non rispettino più le regole del gioco sociale”. C'è un mondo di adulti che ha “irriso le certezze cristiane del rendiconto finale e della vita eterna e poi fa le tavole rotonde sul perchè i figli dilapidano la loro giovinezza nella droga, nell'apatia, nella violenza gratuita. Stiamo segando il ramo su cui siamo seduti e ci angosciamo per gli scricchiolii che sentiamo sotto di noi”. Una linea di pensiero del cardinale sui giovani, uguale a quella del pontificato di san Giovanni Paolo II.

Anche il giornalista fa riferimento alla definizione di Bologna,“città sazia e disperata” che Biffi pare non abbia mai detto così letteralmente, probabilmente si tratta di una estrapolazione giornalistica. Allora il cardinale fu pesantemente contestato, con accuse di integralismo, di prevaricazione clericale, di intolleranza, di atteggiamento antievangelico.

In conclusione Francia fa riferimento ad altro tema tanto contestato dalla sinistra cattolica, mi riferisco alle problematiche dell'immigrazione, in particolare a quella islamica che difficilmente si integra nella nostra società. Segue il contributo di Giuliano Ferrara, l'ex direttore de Il Foglio. Da buon giornalista fa un'ottima sintesi del pensiero biffiano. La funzione della Chiesa è quella di diffondere e garantire certezza. Essere integralisti per i cattolici equivale ad essere chiamati cristiani. La società odierna si avvicina all'anticristo di Solov'ev che era un pacifista, un vegetariano pieno di buoni sentimenti. Inoltre nessuna ecologia è credibile se non parte dalla difesa della vita.

Il tema dell'immigrazione è stato affrontato anche dall'ex presidente del Senato, Marcello Pera. All'uomo politico piaceva la chiarezza e il coraggio dei discorsi del cardinale. In particolare Pera ha apprezzato molto il discorso controcorrente che l'arcivescovo di Bologna ha fatto al Seminario della Fondazione Migrantes il 30 settembre del 2000. In questa occasione il prelato ha detto che i criteri per ammettere gli immigrati, non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l'identità propria  della nazione. L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un'inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto”. Pertanto le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione.

Inoltre la questione si complica con l'immigrazione musulmana, questi ha detto Biffi, “hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicchè la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti”.

Nel discorso di Biffi si evidenziavano due grossi problemi: l'evangelizzazione da parte della Chiesa e la definizione dell'identità nazionale da parte dello Stato. Chiaramente secondo Pera dalle riflessioni del cardinale emergono dei punti indiscutibili: Lo Stato non è un supermercato, dove ciascuno convive e sceglie secondo i propri gusti. Lo Stato può accogliere solo quelli che si riconoscono nei suoi principi. Ma anche delle domande: quali principi dobbiamo riconoscere ai nostri Stati europei? E' possibile mantenere la nostra identità trascurando la nostra storia, tradizione, cultura, religione? Il cardinale Biffi nei suoi ragionamenti è stato abbastanza profetico, sia nei riguardi dell'Europa, che del nostro Paese. Non si può trattare la questione immigrazione con superficialità, perchè facilmente si rischia domani di trasformarla in un dramma.

Nella Seconda Parte si dà spazio agli Studi sul pensiero di Giacomo Biffi. Inizia il professore di teologia Inos Biffi che evidenzia alcuni tratti del Magistero limpido e incisivo, esemplare del vescovo, dottore nella Chiesa. Prudenza, sana dottrina e concretezza, questi erano le doti principali del vescovo “il bolognese di Milano”, come veniva chiamato. Segue l'interessante intervento del professore Davide Riserbato, sul tema della Misericordia e della Verità. Misericordia non significa permissivismo; misericordia nella Verità, infatti “non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del 'deposito' della fede, che va custodito”. C'è un'interessante sottolineatura di Riserbato in merito alla diversità, “il vero diverso”, oggi è il cristiano che non si deve meravigliare se viene lasciato da parte. “La sventura più grave è data dai cristiani che sembrano in larga parte inclini a dimenticare di essere chiamati a prendere posizione; che si illudono di poter essere discepoli di Cristo e insieme di non essere in contrasto di idee con nessuno”. Inoltre conclude il professore, “Non possiamo confondere la doverosa fraterna pietà verso tutti quelli che sbagliano, (e che chiedono di essere più aiutati e amati che giudicati) con la benevola comprensione per l'errore e per l'iniquità; comprensione che rischia di diventare o almeno di apparire connivenza”.

Seguono tutti gli altri interventi a cominciare del cardinale Angelo Scola, del cardinale Dionigi Tettamanzi, del sacerdote Samuele Pinna (l'altro curatore del libro) che mette a confronto la teologia di Biffi con l'ecclesiologia di Charles Journet. E di altri contributi che devo tralasciare per non appesantire la recensione.

Il prof. Plinio Correa de Oliveira (1908-1995), uno dei maestri del pensiero cattolico contro-rivoluzionario del secolo XX, come lo definì Giovanni Cantoni (1943-2020) nella nota Bio-bibliografica alla terza edizione di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (Cristianità, 1977), durante la sua lunga opera di apostolato era solito far precedere le conferenze per i soci e i cooperatori della TFP Brasiliana (Societade Brasileira de Defensa da Tradicao Familia e Proprietade) da un commento al santo del giorno. Come ricorda Julio Loredo, presidente della TFP italiana, nella Introduzione al volume che ne raccoglie cinquanta, solo una minima parte è stata tradotta in italiano ed è stata pubblicata nel 2021 in un volumetto dal titolo Cum sanctis tuis. Profili di santi (Chorabooks, Hong Kong, 2021). Sono cinquanta brevi biografie raccolte in base al giorno della memoria liturgica: dal 12 gennaio con san Benedetto Biscop fino al 10 dicembre quando si celebra la Traslazione della Casa di Loreto. Hanno come filo conduttore l’attenzione all’apostolato per i nostri giorni e ne fanno una raccolta edificante e attuale. Il primo dell’elenco, San Benedetto Bishop (628-690), nobile inglese, soldato, poi religioso benedettino porta la bellezza “nella vita cattolica in Inghilterra attraverso la cura della liturgia e dell’arte romanica”. San Giovanni Bosco (1815-1888) santo sociale, ma anche “apostolo della stampa e della divulgazione delle idee”. Santa Scolastica (480-543), sorella di san Benedetto, che fonda un ordine religioso dedicato alla preghiera e al sacrificio: “nulla può essere più glorioso di qualcuno che si assume volontariamente il giogo della sofferenza, che sacrifica la sua felicità e la sua fortuna per dare la vittoria non a sé, ma ad altri. Questo è un eroe che solo Dio conosce”. L’11 febbraio si ricorda la Madonna di Lourdes dove si riceve “la forza spirituale (…) per sopportare le sofferenze”, dove si prega per la guarigione degli altri anche se la nostra non è avvenuta. È il vero miracolo di Lourdes: l’ “amore del prossimo per amore di Dio: il miracolo di annullare l’egoismo umano”. Fatima e il suo messaggio sono sempre stati nel cuore del prof. De Oliveira e questo è evidente leggendo le pagine dedicate ai due pastorelli Francesco (1908-1919) e Giacinta (1910-1920) Marto, testimoni, assieme alla cugina Lucia dos Santos (1907-2005), delle apparizioni del 1917. I due fratelli, canonizzati il 13 maggio del 2017 da papa Francesco, sono “intercessori naturali perché si chieda alla Madonna che inizi al più presto il Regno di Maria dentro di noi”. “Dobbiamo chiedere con insistenza – sia a Giacinto che a Francesca – che comincino a trasformarci, ad ottenere per noi i doni che loro stessi hanno ricevuto, e che abbiano cura specialmente di coloro che, come noi, hanno la missione di diffondere il messaggio di Fatima”. Tra le cinquanta riflessioni, molte sono dedicate a santi laici. Primo fra tutti san Giuseppe, uomo “che reagì con una logica lineare” quando “scoprì che la sua promessa sposa aveva concepito un figlio del quale egli non era il padre”. La sua calma è esemplare, decide di abbandonare “il maggior tesoro della Terra, cioè Maria Santissima”. Va a dormire, riuscendo a dormire dopo una notizia come quella, e, in sogno, viene invitato a cambiare idea. E obbedisce. De Oliveira lo ricorda come “Protettore della Chiesa Cattolica” in quanto “modello prototipico e magnifico della mentalità, delle dottrine, dello spirito della Chiesa Cattolica”. San Etelberto re (552-616) fondatore dell’Inghilterra come nazione “che prima della sua conversione era un coacervo di regni barbari e pagani”. Altra figura di laico è san Nicola della Flue (1417-1487), pastore svizzero, padre di dieci figli, soldato nell’esercito della Confederazione Svizzera, giudice per nove anni, poi eremita, col permesso della moglie. “Ma un eremita molto attivo: a lui vengono non solo pellegrini in cerca di consiglio spirituale ma anche dignitari dei cantoni svizzeri in lotta tra loro che gli chiedevano di esercitare mediazioni in cui ebbe sempre successo”. “Anche se non siamo soldati, dobbiamo chiedergli la grazia di saperci sempre battere – nelle difficili battaglie, non necessariamente militari, in cui siamo impegnati oggi – con la spada in mano e il Rosario nell’altra”. Santa Gemma Galgani (1878-1903), terziaria dei passionisti, colpisce de Oliveira per il suo sguardo, la sua fisionomia, i tratti, che denotano 2qualcosa di soprannaturale”. “Vale la pena andare sino ai confini dell’Universo per trovarla, come pietra rara”. Visse a Lucca. Altra terziaria, ma dell’ordine domenicano, è la beata Osanna Andreasi (1449-1505) di nobile famiglia, la mamma era una Gonzaga, dopo molte insistenze riesce a dedicarsi alla teologia. Nella sua vita esercita anche “responsabilità politiche, fra cui la reggenza del ducato di Mantova”. All’età di cinque anni, sulle rive del Po, le appare un angelo che le mostra “la gerarchia angelica in Paradiso dove i troni rimasti vuoti degli angeli decaduti sono gradualmente occupati da uomini e donne sante”. “Ama le creature e ama il loro Creatore – le dice l’angelo-, in modo da diventare santa e andare in Cielo a occupare il posto preparato per te”. Tra i cinquanta santi non mancano figure di grande spessore: da sant’Ignazio di Loyola a sant’Agostino, da Carlo Magno a san Pio V, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, san Giovanni Maria Vianney e tanti altri cari alla devozione del grande pensatore contro-rivoluzionario.

Leggendo il documentato libro dello studioso inglese John Julius Norwich, “Il Regno del sole”, sottotitolo: “I Normanni nel Sud 1130-1194”, Mursia 1972, mi viene spontaneo pormi la domanda:“chi te lo fa fare?”, forse, potrei farla anche per altri libri, perlomeno impegnativi come questo. Il testo è interessante, probabilmente indirizzato soprattutto a studiosi, a specialisti, anche se l'autore umilmente scrive il contrario. Nei XXI capitoli di ben 468 pagine, l'autore racconta straordinariamente anche nei particolari la storia della cosiddetta dominazione Normanna in Sicilia e nel Sud Italia. E' un continuum elenco di nomi, date, episodi, battaglie, intrighi diplomatici, descrizioni di personaggi più o meno importanti. Un racconto non sempre scorrevole, si fa fatica a seguire, a volte può diventare anche noioso, tuttavia possiamo affermare che Norwich conosce abbastanza bene la nostra Storia. Almeno per quanto riguarda l'argomento trattato. Lo storico inglese ha delle conoscenze particolareggiate, anche perché ha visitato e non solo studiato, i luoghi, il territorio, appartenente al regno Normanno. Inoltre si può affermare che Norwich è un buon conoscitore dell'arte normanna siciliana e del nostro Meridione. 

Il testo è corredato da una serie di fotografie rigorosamente in bianco e nero di alcune opere d'arte normanna, infine oltre a una nutrita bibliografia, è presente l'albero genealogico degli Altavilla e tre cartine tematiche per seguire la complessa Storia di quel tempo.

Questo libro riprende la narrazione de “I Normanni nel Sud. 1016-1130”, che arrivava fino all'incoronazione di re Ruggero II nella cattedrale di Palermo, nel giorno di Natale 1130. Invece il Regno del sole giunge fino al 1194, all'altra notte di Natale quando è stato incoronato, Enrico IV di Hohenstaufen. Sono sessantaquattro anni intensi che separano i due avvenimenti, che costituiscono l'intera durata del Regno Normanno nel Sud Italia, in particolare in Sicilia.

La cultura siculo-normanna.

“Nel corso di questi anni – scrive Norwich – l'isola conobbe il periodo del maggior splendore quando, per la prima e unica nella storia, le tre grandi entità razziali e religiose del litorale mediterraneo si fusero, sotto il sole del Meridione, in quel meraviglioso gioiello dalle infinite sfaccettature che fu la cultura siculo-normanna. Di questa cultura dovrebbero essere segni ben evidenti i monumenti, i palazzi, le chiese, che ancora miracolosamente possiamo ammirare e attirare turisti in Sicilia. Si tratta delle realizzazioni politiche degli Altavilla che sono riusciti ad amalgamare nelle tecniche e negli stili dell'Europa occidentale sia Bisanzio, che l'Islam, “in uno scenario di meravigliosa ricchezza che lascia abbagliato e incredulo lo spettatore”. Infatti questo volume non solo narra la storia di persone e di avvenimenti, ma vuole essere anche una guida ai monumenti della Sicilia Normanna. L'autore è riuscito a descriverli nei particolari legandoli il più possibile ai loro fondatori, o alle circostanze che li videro sorgere.

E' opinione degli storici che il governo di Ruggero d'Altavilla la Sicilia sia entrata in un'epoca di prosperità mai prima raggiunta.Una vera età dell'oro che vide fiorire una accanto all'altra le culture più disparate, i popoli più diversi: normanni, italiani, greci, arabi e inglesi fusi in un'atmosfera cosmopolita e aperta, vero fatto anomalo considerati i tempi”. Un'epoca che purtroppo è durata poco, ma che bastò per lasciarci meravigliose testimonianze d'incomparabile valore artistico, come il Duomo di Monreale, di Cefalù, la Cappella Palatina di Palermo. Se durava di più poteva farci risparmiare molte sofferenze che hanno afflitto nei vari secoli i popoli del Sud in particolare la Sicilia, che poteva essere l'isola più felice, “anziché la più disgraziata delle isole del Mediterraneo”.

Lo Stato multietnico di Ruggero II.

Ruggero II ha continuato l'opera di suo padre, è cresciuto in un'atmosfera cosmopolita di tolleranza e di reciproco rispetto. Il suo Regno stava raggiungendo un'integrazione totale. “Non vi sarebbero più dovuti essere siciliani di razza inferiore. Tutti, normanni e italiani, longobardi, greci, saraceni, avrebbero avuto un ruolo da svolgere nel nuovo Stato”. Infatti Ruggero nei posti chiave del suo governo ha nominato uomini di origine saracena o greca. “Le moschee rimasero affollate come prima, mentre chiese e monasteri cristiani, di rito latino come di rito greco, molti dei quali fondati dallo stesso Ruggero, sorsero ovunque, in numero sempre crescente, nel territorio dell'isola”. Un periodo di pace che aprì le vie del commercio e degli scambi con Costantinopoli e con i giovani Stati del Levante, sorti per opera dei crociati. Sostanzialmente per Norwich, la Sicilia, stava diventando lo Stato più bello e prospero del Mediterraneo, se non dell'Europa.

Ma questo non significa che il re normanno non abbia avuto delle difficoltà per governare, ha dovuto affrontare delle “tempeste”, come scrive Norwich, che minacciavano il suo regno. A cominciare dell'imperatore Lotario, che stava marciando su Roma e poi sui domini siciliani. Qui nel Meridione, non gli mancavano gli appoggi, erano in tanti i grandi vassalli, nobili, che mal tolleravano la loro sudditanza agli Altavilla. Nel testo si fanno i nomi di questi “ribelli”, come Tancredi di Conversano e il principe Grimoaldo di Bari. Oltre ai vari sommovimenti e insurrezioni nei territori, Ruggero doveva vedersela con il Papa, che non sempre gli era amico. I Papi di allora avevano il loro esercito e ci tenevano a mantenere i propri territori. In quel periodo il Papa doveva guardarsi da Nord dove l'imperatore premeva e da Sud dagli eserciti del Regno dei Normanni. Ruggero era sposto con Elvira, figlia di Alfonso VI di Castiglia, un matrimonio felice, con la nascita di ben sei figli.

Non sto qui a raccontare i vari e complessi avvicendamenti tra eserciti e varie fazioni che si scontravano in Puglia, ai confini con i territori del papa.

Nel 1133 Ruggero II dovette affrontare i vari notabili ribelli della Puglia, alla fine ha la meglio e come capita spesso i perdenti devono pagare ingenti somme di denaro o nel peggiore dei casi li aspetta la prigione o la morte. Non solo anche le città non vengono risparmiate, spesso vengono distrutte o incendiate.

Ristabilita la pace il re ritornava a Palermo, intanto muore la regina Elvira nel febbraio 1135, di lei si sa poco, Norwich quando non ha notizie sugli avvenimenti lo scrive. A proposito le sue fonti principali sono gli scrittori Falco Beneventano, Alessandro di Telese, Romualdo Salernitano, Ugo Falcando e Pietro da Eboli. Poi c'è tutta la bibliografia esposta alla fine del libro.

Norwich ci tiene a precisare che nel Medioevo, la storia italiana “è piena di racconti di guerra inconcludenti; una marea fluttuante di battaglie […] città assediate e conquistate, da liberare e riconquistare […]. Spesso si tratta di “di una lotta tetra e monotona che sembrava non dovesse mai aver fine”.Una storia di racconti che potrebbero essere insopportabili. Ecco perché il libro di Norwich ci risparmia molti dettagli delle varie campagne militari dei contendenti di quel periodo storico.

Tuttavia in questo periodo una figura straordinaria di Chiesa si fa strada, mi riferisco a S. Bernardo di Chiaravalle, che per la verità Norwich non ha tanta simpatia. Viene descritto come un intrigante, che non sempre lavora per la pacificazione degli animi. Il religioso si intromette nelle varie diatribe tra il Papa Innocenzo, che doveva vedersela con un antipapa, un certo Anacleto, e l'imperatore Lotario. Intanto subentra un altro personaggio, l'imperatore bizantino  Giovanni II Comneno di Costantinopoli, che ha delle pretese nei territori del Meridione italiano.

Nel IV capitolo (Riconciliazione e riconoscimento) sono da segnalare gli interventi di Ruggero per sedare le continue e monotone insurrezioni in Puglia, ottenute anche con le consuete repressioni dei perdenti. Le pressioni di S. Bernardo sul re Normanno per convincerlo ad abbandonare l'appoggio ad Anacleto che poi muore e quindi viene scongiurato lo scisma. Intanto il Papa Innocenzo II dopo lo scontro armato con il re normanno, fu costretto a riconoscere a Ruggero il titolo di re di Sicilia e piena giurisdizione su tutta l'Italia meridionale. Poi i due insieme cavalcarono fino a Benevento. Ruggero può tornare in Sicilia da trionfatore avendo sconfitto tutti i suoi nemici. Il capitolo si chiude con una interessante descrizione di Norwich del Palazzo Reale, poi chiamato dei Normanni, della Cappella Palatina.

Ruggero II dopo dieci anni di strenua lotta che aveva subito delusioni, tradimenti e sconfitte, il Regno adesso era tutto suo scrive Norwich. Il Paese era unito e pacificato. Lo studioso inglese sottolinea l'importante Codice di Ariano (il sistema legislativo del governo di Ruggero II), un documento unico del suo genere nella storia del Medioevo. Sarebbe importante descrivere le norme stabilite alle Assise di Ariano. Comunque pare che adesso Ruggero sia diventato il protettore delle Chiese cristiane  e “acclamato come uno dei più devoti e generosi sovrani della cristianità”.

La Sicilia di Ruggero II diventa un Eldorado.

Con Ruggero II, sostiene Norwich,la Sicilia era diventata sempre più ricca e, con l'accrescersi della sua prosperità, si era pure accresciuta la sua stabilità politica”. Mentre nel resto della penisola italiana regnava la confusione più totale,“l'isola era un modello di buon governo, illuminato e giusto; la sua popolazione pacifica ed osservante delle leggi, era un amalgama di razze e lingue diverse, fonte di potenza e non elemento disgregatore; e, con l'accrescersi del suo benessere, la Sicilia attirava un numero sempre maggiore di ecclesiastici, di amministratori, di studiosi, di mercanti e, pure, di spudorati avventurieri d'oltremare. Questi giungevano dall'Inghilterra, dalla Francia, dall'Italia per stabilirsi in quello che sarà apparso loro un vero Eldorado, un regno nel sole”.

Lo scrittore inglese dopo averci ricordato che il re normanno aveva ereditato dal padre una schiera multietnica di funzionari di Stato composta da normanni, greci, latini ed arabi. Sostiene che “la corte di Ruggero a Palermo era, di gran lunga, la corte più brillante dell'Europa del secolo XII. Il re stesso era noto per la sua insaziabile curiosità intellettuale e per la sua passione per i fatti concreti”. C'era un profondo rispetto per l'erudizione; intorno al 1140, il re fece stabilire a Palermo, “molti tra i più ragguardevoli uomini d'ingegno, studiosi, scienziati, dottori e filosofi, geografi e matematici, sia d'Europa, sia del mondo arabo [...]”. Pare che abbia istituito una commissione di studiosi per costruire il primo planisfero d'argento, dove erano incisi “la configurazione dei sette climi, insieme a quella dei paesi e delle coste, sia vicini che lontani; golfi, mari e corsi d'acqua, l'ubicazione dei deserti e delle aree coltivate [...]”. Un'altra perla per la corte di Ruggero è un volume di geografia, “Opera di un uomo desideroso di giungere a completa conoscenza dei vari paesi del mondo”, più conosciuto come “Il Libro di Ruggero”, probabilmente a detta di Norwich questa rappresenta l'opera geografica più insigne del Medioevo. Tutta questa erudizione presente nella corte di Ruggero secondo lo studioso inglese è dovuto al fatto che si respirava un'atmosfera prevalentemente araba. Pare che l'Islam, aiutava a perseverare nella ricerca del sapere. Solo in Sicilia si poteva studiare de visu sia la cultura greca che quella araba. Ecco perchéi ricercatori della verità giungessero numerosi a Palermo e che, alla metà del secolo, l'isola avesse acquistato la fama di essere il più importante centro di smistamento, non solo commerciale, ma anche culturale, di tre continenti”. Qualcuno ha scritto che Ruggero non ci ha lasciato nessuna opera letteraria sua come invece ha fatto suo nipote Federico II o Riccardo Cuor di Leone, è vero, ma Ruggero aveva eccome spirito creativo, amava la bellezza e lo splendore, ma amava di più il sapere. Senza di lui non avremmo avuto il fenomeno culturale della Sicilia, unico del suo genere. Ruggero era una guida sia intellettualmente che politicamente, che teneva saldamente insieme tutte le componenti della società. Ruggero era la Sicilia nel vero senso della parola.

A questo punto potremmo scrivere “dopo di lui il nulla”, forse, ma non è stato proprio così.

Ruggero II e la crociata.

Intanto arriva la Seconda Crociata. Troviamo diversi protagonisti a partire di Luigi VII re di Francia e poi ancora l'abate di Chiaravalle, S. Bernardo con i suoi accorati discorsi convince il popolo ad abbracciare la Crociata per liberare i Luoghi Santi. Non solo cavalieri con la croce, ma anche donne, provenienti da tutti i ceti. Affinché la seconda Crociata riuscisse era essenziale che il re Ruggero si mostrasse favorevole e ben disposto. Anche se non era tanto entusiasta come suo padre; del resto in una Sicilia con la presenza araba, non era facile. Del resto fa notare Norwich che “Ruggero era cresciuto insieme agli arabi e ne parlava la lingua; per tutta la vita si era fidato di loro più dei suoi conterranei normanni”.

Tralascio gli esiti fallimentari della seconda crociata per ritornare al Regno Normanno, dal fallimento della spedizione in terra Santa, tra i grandi sovrani d'Europa, quello che ne usciva integro era Ruggero II. Ora tutti i delusi degli esiti disastrosi della Crociata guardavano a lui come guida per un possibile riscatto, ma Ruggero scrive Norwich, “non era crociato né per temperamento, né per convinzione [...]”. Anzi senza troppi scrupoli, si era avvantaggiato della tragica situazione. Tuttavia, Ruggero sembra accettare di buon grado il ruolo che gli veniva offerto, diventa il vendicatore dell'Occidente, ma c'era Corrado, l'imperatore geloso che non accettava questa nuova prerogativa del re di Sicilia. Poi subentra il Papa, S.Bernardo e la storia si complica. Mi fermo per non affaticare il lettore e arrivo alla morte di Ruggero II, il 16 febbraio 1154. Tralascio le considerazioni finali del testo sul grande re di Sicilia. E con la Terza parte si passa al dopo Ruggero.

Guglielmo I “Il Malo”.

Il figlio di Ruggero, detto il “Malo”, probabilmente un soprannome che non meritava. Esiste una descrizione di un monaco: Guglielmo è alto, folta barba, aspetto selvaggio, che incuteva terrore, una straordinaria forza fisica, certamente superava il padre, ma non in abilità politica. Era l'opposto del padre, pare che non era stato preparato a svolgere il ruolo regale. Si sposò giovanissimo con Margherita di Navarra e poco si interessò dei suoi quattro figli. Anche con Guglielmo i nemici tradizionali del Regno venivano dall'Impero d'Occidente, da Bisanzio e dal Papa. In quel momento a guidare l'Impero c'era Federico Barbarossa, a Bisanzio, Manuele Comneno, il papa era Adriano IV, inglese, l'unico della Storia. A proposito degli inglesi, sono rimasto colpito che in questi anni in Sicilia, troviamo, vescovi inglesi come Riccardo Palmer, vescovo di Siracusa e Walter of the Mill, che si fece chiamare Gualtiero del Mulino, prima arcidiacono di Cefalù e poi arcivescovo di Palermo.

Naturalmente anche Guglielmo dovette affrontare le ribellioni dei notabili pugliesi, ha subito delle sconfitte, ma poi arrivarono anche le vittorie in Puglia in particolare a Bari, con lo scontro navale contro i greci e i locali del 28 maggio 1156. Guglielmo trattò i prigionieri secondo le leggi di guerra, con i sudditi però si mostrò spietato. Durante il Regno di Guglielmo I viene assassinato Maione di Bari, che era diventato uno degli uomini di Stato più influenti in Europa. Tra gli organizzatori dell'agguato troviamo Matteo Bonello, che cercò di contrastare anche il re e la sua famiglia, aizzando la plebe palermitana, che arrivò a saccheggiare il Palazzo Reale. Il re a stento si salvò, rifugiandosi nella Torre Pisana. Guglielmo dopo due mesi di malattia a quarantasei anni cessò di vivere il 7 maggio 1166. Gli subentra il figlio dodicenne, che dovrà aspettare la maggiore età, la reggenza del Regno passa alla madre la regina Margherita, carattere forte e volitivo, aveva trentotto anni, assistita nel governo da Riccardo Palmer, da Matteo d'Ajello e dal caid Pietro. Successivamente la regina si affida a Stefano di Perche. Il giovane Guglielmo II era amato dal popolo, sicuramente più simpatico del padre, capelli biondi ereditati dagli antenati vichinghi.

“MKOCala la notte” sul Regno Normanno.

Raggiunta la maturità Guglielmo II, chiamato il “Buono”, dopo cinque anni di reggenza della madre, assume il potere e il governo del regno. Il fanciullo nel giorno dell'incoronazione ai siciliani era apparso come un angelo, ora appare come un dio, secondo Norwich. Ben presto al giovane re fu data una sposa, dove certamente influirono i numerosi e influenti inglesi in Sicilia, fu una giovane donna inglese, Giovanna, figlia di Enrico II d'Inghilterra. Dopo un lungo e tortuoso viaggio il 2 febbraio 1177 la giovane principessina Giovanna arriva a Palermo, naturalmente è stata preparata una accoglienza trionfale, alla vigilia di San Valentino, furono celebrate le nozze, e subito dopo Giovanna si inginocchio ai piedi del suo conterraneo, l'arcivescovo Gualtiero, che la incoronò regina di Sicilia. Giovanna conquistò il cuore dei suoi sudditi, così come era avvenuto per il marito. Ci furono anni di pace e di tranquillità ma che durarono poco.

Era un Regno nel sole, scrive Norwich, prospero e pacifico, sarà apparso agli altri principi in Europa come un privilegio benedetto da Dio. Però al giovane re gli mancavano tre doni: una lunga vita, un erede maschio, un minimo di saggezza politica. Mancando queste condizioni, la Sicilia normanna era già condannata. E fu proprio Guglielmo che la condusse in rovina, prima con la spedizione militare contro Costantinopoli di Andronico. Poi con le nozze del 27 gennaio 1186 della principessa Costanza, ultima erede degli Altavilla, zia di Guglielmo, con Enrico VI di Hohenstaufen nella Basilica di Sant'Ambrogio a Milano.

A 36 anni muore Guglielmo II a Palermo, sappiamo poco delle circostanze della morte. La fine del Regno Normanno secondo Norwich è dovuta al fatto che Guglielmo ha pensato alla pericolosa e irresponsabile politica estera, invece di pensare a rafforzare la posizione del suo paese.

Per concludere, naturalmente chi è interessato andrà a leggere lo splendido libro di Norwich, Costanza ed Enrico VI ereditano l'Impero e tutti i possedimenti del Regno di Sicilia. Nella notte di Natale del 1194, l'imperatore Enrico VI, fu incoronato re di Sicilia nella cattedrale di Palermo.

 

Mistero e meraviglia, il miracolo del mondo

È una meraviglia il mondo anche per uno scienziato serio come Albert L. Lehninger autore del fondamentale manuale di biochimica (New York, Worth Publishers Inc., 1970, prima edizione italiana, Zanichelli, 1975) che tratta l’evoluzione in una paginetta e descrive le reazioni chimiche alla base della vita. “Immaginate le reazioni della glicolisi che sono concatenate tra loro, se manca qualcosa, non parte niente. Nell’introduzione del mio libro, ho scritto come mi sia confrontato con un professore dell’università di Parma, Giorgio Dieci, che conviene come certe manifestazioni, come la “cattedrale” enzimatica dell’Atp sintasi, evidenzino delle nanotecnologie che lasciano a bocca aperta”.

E così che Umberto Fasol, biologo e insegnante nelle scuole superiori inizia a raccontare la nascita dell’idea del volume pubblicato da Tau editrice dal titolo: Pensare l’evoluzione. L’eccedenza della vita ovvero l’affabilità del mistero.

«E’ il naturale sviluppo di un altro libro di un anno fa scritto assieme a Yves Gaspar, Un mondo im-probabile. «Fine tuned» (La Bussola, 2022). L’idea era quella di passare dall’Universo alla nascita della vita sulla Terra e su altri pianeti. Così ho deciso di parlare della nascita della vita sulla Terra sottolineando le coincidenze, i requisiti, le caratteristiche che ha la vita più che andare a cercare di confutare la teoria dell’evoluzione, cercando di mettere a fuoco quella che è la natura della vita. Il titolo originario era: “La vita della vita” perché mi interessava mettere in luce cos’è la vita. Poi uno trae le sue conclusioni. Un tentativo di dire qualche cosa sulle caratteristiche della vita della cellula, di un organismo e poi, a partire da questo, provare a dire qualcosa sull’ipotesi delle origini delle forme della vita sul nostro pianeta».

Dimostrare la complessità del vivente e così riflettere su come questo vivente si sia formato.

«Infatti, indagando la natura della vita, ho cercato di divulgare quelle che sono le conoscenze della biologia molecolare di oggi che arrivano anche nei manuali scolastici che, specialmente quelli delle scuole superiori, sono di ottimo livello, quindi, far vedere che adesso la biologia a livello molecolare ha portato in evidenza un mondo sommerso che Darwin non poteva conoscere, che è paragonabile alle nanotecnologie. Come rimaniamo stupiti di fronte a questi microchip sempre più piccoli, a questi robot sempre più capaci e intraprendenti, per non parlare dell’Intelligenza artificiale, è importante far vedere che anche nelle cellule troviamo nanotecnologie al lavoro (ad es.: il ciclo di Krebs). Di fronte ad una complessità del genere ci si rende conto che siamo nel mistero e ognuno tra le sue conclusioni. L’idea alla base del mio libro è quella di mettersi davanti alla bellezza della vita molecolare delle cellule».

Ne suo libro dedica molto spazio alla biochimica. Questo mondo “fine tuned”, ottimizzato, perfezionato al massimo si contrappone alla casualità in modo evidente.

«A suo tempo fui molto colpito dal volume di Michael Behe, La scatola nera di Darwin (Alfa&Omega, 2007). Questo biochimico americano, docente universitario, si sofferma sul fatto che Darwin non fosse, per ovvi motivi, a conoscenza della biochimica di oggi. Se l’avesse conosciuta, probabilmente, sarebbe stato molto più prudente, infatti, si limitava a guardare le somiglianze morfologiche esterne, ma non sapeva nulla delle reazioni che avvengono nella cellula. Questa è la “scatola nera” di Darwin che mette in crisi tutto il sistema. Non è da sottovalutare anche il fatto che ogni reazione chimica è catalizzata da un enzima specifico: se prendiamo un cucchiaino di zucchero e lo lasciamo all’aria, esempio che facevo spesso ai miei studenti, dovrebbe ossidarsi e trasformarsi in nero fumo, anidride carbonica e vapore acqueo, ma questo non succede. Nella cellula grazie agli enzimi della glicolisi il glucosio, in un nanosecondo, diventa energia per la vita. Gli enzimi sono degli intermediari specifici che non partecipano alla reazione, ma sono fondamentali. Credo veramente che la biochimica sia una scienza moderna della vita che affonda alla base tutto il castello dell’evoluzione costruito su analogie di carattere anatomico. Oggi bisognerebbe essere onesti e dire che abbiamo fatto passi in avanti nella conoscenza della vita, riconosciamo a Darwin tanti meriti, però dobbiamo dire che le cose che sappiamo e che lui non conosceva, ci dicono che l’evoluzione per ramificazione è improbabile. Rimane il mistero. La biochimica non viene mai presa in considerazione perché è un terreno ostico».

E la narrazione del mistero?

«Chi comunica e riceve devono essere d’accordo sul linguaggio da usare e i tempi per mettersi in contatto; come è possibile che si siano accordati i nucleotidi del Dna con gli aminoacidi? Qui si apre il mistero. “Il miracolo del mondo”, termine che ho mutuato da Massimo Recalcati, psicanalista, che sottolinea come il bambino, per crescere bene, ha la consapevolezza che il mondo è una cosa meravigliosa, è un miracolo solo per la sua esistenza. Il mistero si apre ovunque si analizzi qualche dettaglio della vita».

Nel sottotitolo si legge: “l’affabilità del mistero”, un mistero comunicativo….

«Comunicativo e sondabile; basta guardare un uomo, una donna, un filo d’erba, il codice genetico, la biochimica cellulare, è un mistero che parla molto, la “teoria del mistero” potrebbe spiegare molte cose accontentandoci di dire che sappiamo di non sapere molte cose. L’esplosione del Cambriano è una di queste. Accontentiamoci di riconoscere che è qualcosa che supera la nostra capacità di capire, ma non per questo la contraddice».

Questo ci lascia la possibilità di continuare a studiare e grazie anche al libro di Umberto Fasol, entrare nel mondo della biologia, dalla cellula e le sue capacità tecnologiche, dal Dna alla clorofilla, dai fiori fino all’uomo, in un percorso, attraverso capitoli brevi e leggibili autonomamente, di stupore e continua meraviglia.

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