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Psichiatria: intervista al prof. Di Fiorino

Nel 1924, cento anni fa, nasceva Franco Basaglia, medico psichiatra, ritenuto il padre della legge 180. Legge promulgata nel 1978, in un clima culturale e sociale segnato dal 1968 e con un parto “precipitoso” per evitare il referendum proposto dai radicali; approvata, fra l’altro, nei giorni del sequestro dell’on. Aldo Moro. La legge confluisce, poi, nella 833 del dicembre dello stesso anno che istituiva il sistema sanitario nazionale. In questa legge i tre articoli che si riferiscono alle cure psichiatriche parlano di modalità di ricovero e dell’istituzione di piccoli reparti all’interno dei nosocomi civili, ed è questa la vera novità della legge.  Per ricordare questo personaggio e le vicende che hanno visto la nascita e l’applicarsi della 180, parliamo col prof. Mario Di Fiorino, medico psichiatra, già primario all’Ospedale Versilia di Lido di Camaiore (LU).  «La “legge Basaglia” contiene già elementi di ambiguità proprio nel nome: il primo firmatario fu infatti l’onorevole democristiano Bruno Orsini. Su questa ambigua paternità si è spesso giocato, da parte dei basagliani, per dire che Basaglia non l’amava, quella legge, l’avrebbe voluta diversa, e considerando le posizioni antipsichiatriche di Basaglia, meno male che non è andata del tutto come avrebbe desiderato!»

Cosa avrebbe voluto Basaglia?

«Come afferma Domenico Fargnoli in un articolo pubblicato su Left nel 2018: “lo psichiatra veneziano non voleva reparti psichiatrici negli ospedali generali: lui avrebbe preferito un “network di appartamenti anticrisi”, sullo stile delle case-famiglia inglesi realizzate da Ronald Laing e finite in un clamoroso fallimento. (…)”. Basaglia era ossessionato dall’istituzionalizzazione e dalla negazione di un luogo di cura, la sua radicalità emerge chiaramente proprio dal confronto con la posizione espressa da Laing. Lo stesso Basaglia scrive (1972) che Laing ripropone la costruzione di un “asilo” che risponda – fuori da ogni burocrazia organizzativa ed istituzionale- al bisogno di riparo, di protezione, di tutela di chi vive un’esperienza “diversa”. Un luogo dove il diverso possa esprimersi senza limitazioni e dove si impari a convivere con esso. Ma la conclusione di Basaglia appare venata di pessimismo: "Auguriamo a lui che il suo asilo riesca a non diventare un’istituzione"».

Basaglia sembra ossessionato dall’idea che possano rinascere strutture simili ai vecchi manicomi.

«Sì, nega la necessità di un luogo per la follia e la sua posizione è una posizione isolata anche all'interno della prospettiva antipsichiatrica o di psichiatria alternativa. Si rifà al pensiero di Michel Foucault che, ignorando l'aspetto propositivo e costruttivo, vede le istituzioni come emanazioni del potere che vogliono controllare, “sorvegliare e punire” la diversità e la devianza. Il pensiero di Foucault ha rappresentato in Italia, per decenni, una sorta di pensiero unico, di dittatura soft, completamente abbracciato dalla anti-psichiatria».

 Molti muri sono crollati, molte idee “di sinistra” sono state messe in discussione: il posto fisso, l’articolo 18, i rapporti con i sindacati, per limitarci a quanto attiene al mondo del lavoro. L’unico “santino” di sinistra che è rimasto intoccabile è proprio la legge 180, il pensiero di Basaglia e la sua figura politica.

«Qualunque proposta di discussione e di modifica alla legge, determina una levata di scudi e reazioni che prima ancora di una discussione chiudono la porta al confronto, con affermazioni ormai trite ma sempre efficaci nel linguaggio mediatico di “voler rifare il manicomio”. Il mondo della sinistra in senso lato, ed il mondo degli intellettuali italiani sembra su questo punto ancora ancorato al pensiero del secolo scorso: si è abiurato e messo in discussione tutto, si sono riviste tutele, contratti, lo stesso concetto di mercato; l’unica cosa che ha attraversato il secolo perfetta nel suo concepimento sembra essere la legge 180».

Ma in Italia di cosa ci sarebbe bisogno?

«Basterebbe fare diventare il nostro paese un paese normale con degli ambienti dove chi ha bisogno possa rimanere per un certo periodo…».

Nel resto d’Europa come ci si comporta in campo psichiatrico?

«In tutti i paesi, nessuno escluso, ci sono strutture psichiatriche in senso stretto con trenta-quaranta posti letto (negli Usa si trovano anche strutture più grandi) dove le persone possono essere trattenute anche tre/quattro mesi. In Italia la degenza media è di sette giorni. Venti anni dopo la riforma, un’Agenzia ha fatto una ricognizione per vedere dove erano i malati e quali strutture erano a disposizione. In Italia c’erano 17mila posti in strutture residenziali a dimostrazione che il numero dei posti letto non si erano ridotti, ma, prima della riforma, erano strutture con personale qualificato; adesso sono gestite da cooperative o personale volontario, il cosiddetto privato sociale. Le persone con problematiche di lieve entità riescono ad essere accolte e seguite, quelle più gravi escono. Quando sono fuori possono essere pericolosi per loro stessi e per gli altri. Non sono consapevoli della loro malattia, si sentono perseguitati, non assumono i farmaci, ma alcool e droghe, delinquono. Se condannati prima c’erano gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ma ora che sono chiusi, dovrebbero trovare ospitalità nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che hanno la metà dei posti degli Opg e devono rimanere nei piccoli reparti ospedalieri di psichiatria con notevoli disagi e pericoli per gli operatori sanitari».

E chi ci rimette sono i malati più gravi e le loro famiglie. Purtroppo, a volte, anche gli stessi operatori sanitari come ci ricorda la tragica vicenda della dott.ssa Barbara Capovani, psichiatra a Pisa, che un anno fa, il 21 aprile 2013, veniva barbaramente uccisa. Mario Tobino, anche se aveva visione sacrale e romantica della follia, aveva provato a mettere in guardia dal pericolo dell’abbandono e delle molte morti che potevano essere messe in conto della legge 180, ma le sue parole sono scivolate via come “lacrime nella pioggia”.

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