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Domenica, 02 Aprile 2023

Insisto nello studio di figure di santi o quasi santi per lo più sconosciuti che hanno segnato la Storia della Chiesa. Voglio presentare la figura di un prete francese, attraverso il libro di Rino Cammillleri, Guglielmo Giuseppe Chaminade. Un prete tra due rivoluzioni”, (Piemme, 1993). Visse in Francia tra il 1761 e il 1850, operando principalmente a Bordeaux. Da giovane sacerdote visse gli anni terribili della Rivoluzione francese e durante il “Terrore” fu più volte a un tiro dalla ghigliottina.

Alla fine, fu costretto come tanti altri religiosi all’esilio ritornato in Francia,

organizzò la ricostruzione spirituale della sua patria. Tra le tante iniziative di

apostolato Chaminade è conosciuto per aver fondato “Le Figlie di Maria

Immacolata” e “La società di Maria”. Chaminade è il fondatore dei Marianisti, un nome poco noto in Italia, ma l’originalità del suo carisma e la valorizzazione del laicato, hanno anticipato di un secolo e mezzo le intuizioni del Concilio Vaticano II.

Cammilleri è uno storico che per decenni ha curato una rubrica “Il Santo del giorno” su Il Giornale, è autore di diversi libri, tra questi “I Santi militari”, “I Santi di Milano”. Il libro oltre a raccontare la storia di questo sacerdote francese ripercorre la storia della nazione francese, in particolare gli anni più bui del Paese transalpino. Nella prefazione il professore Franco Cardini scrive: “Il nome di Guillaume-Joseph Chaminade è assente dalla maggior parte delle pubblicazioni che trattano del Sette-Ottocento, incluse quelle di storia della Chiesa e del cristianesimo e quelle che si dicono cattoliche”. Tuttavia per Cardini, non è “poi così strano se la storia di un Occidente che vuol presentarsi come fondato sulla libertà e sulla tolleranza censuri figure come quella del padre Chaminade”. Probabilmente si evita di parlarne per non evocare gli orrori, le persecuzioni, i furti, gli assassinii commessi contro la Chiesa cattolica e i suoi membri durante la Rivoluzione francese. Non solo poi alla fine, trattando figure come Chaminade, ma ce ne sono tante altre sia in Francia che in Italia, “si dovrebbe mostrare come la carità, l’assistenza, l’educazione nei sistemi d’ancien regime erano tutti affidati alla Chiesa”. E quando essa non fu più in grado- in quanto spogliata e perseguitata – di assolvere a quei compiti, assistenza e pubblica istruzione decaddero rapidamente in quanto i governi laici, non erano capaci di assolvere quel compito. Il sacerdote esule in Spagna, secondo Cardini è stato ispirato per la missione che lo attendeva “nel santuario della Vergine del Pilar a Saragozza, quella stessa Vergine che gli spagnoli vollero Capitana Generale delle loro truppe durante la guerra del 36-39”. E sarà una coincidenza se proprio i Marianisti hanno fra i loro santi, dei martiri della guerra civile spagnola.

Il libro di Cammilleri racconta i vari passaggi dell’attività apostolica svolta da

Chaminade attraverso le varie fasi della storia francese: il Terrore, il Termidorio, il Consolato, l’Impero, la Restaurazione e la monarchia di Luigi Filippo. Narra le peripezie, le ansie e i dolori di un uomo perseguitato nelle sue certezze. Il testo di Cammilleri descrive alcuni episodi che hanno visto Chaminade sfuggire alle varie perquisizioni dei giacobini che lo cercavano in tutti i modi per portarlo sul patibolo.

Oltre alla vita del sacerdote sono interessanti da leggere le “digressioni” storiche che Cammilleri propone al lettore. Sono dei messaggi controcorrente che sfatano alcuni miti intorno alla Rivoluzione dell’89. A cominciare da quello della Francia povera: era uno dei Paesi più prosperi del mondo, forse anche il più potente. Per quanto riguarda i giacobini e i vari clubs che avevano preso il potere e sprofondato la Francia nel Terrore, che si definivano “il popolo”, erano in tutto seimila persone, quasi tutti residenti a Parigi, che imposero il loro volere al resto del paese.

Interessante la descrizione di Cammilleri del periodo del “Terrore” in Francia. I due regnanti prigionieri dei giacobini e il piccolo erede, completamente isolato, al buio in uno stanzino umido, senza servizi igienici, in pratica verrà lasciato morire così. “Nel giro di soli tre anni, - scrive Cammilleri - la prima superpotenza del mondo si ritrovò allo sfacelo, in mano a un pugno di fanatici sempre assetati di sangue e ossessionati dall’idea del ‘complotto’, nomi che sono passati alla storia non perchè fossero grandi ma perché era grande quel che riuscirono in breve tempo a distruggere, Danton, Marat, Robespierre, Saint-Just e decine di altri, tutti accomunati dall’astrazione sociale (grafomani e legulei di provincia, senza arte né parte), dalle tare psichiche e fisiche (Marat era un ex pornografo malato di scrofole, Saint-Just inclinava all’omosessualità, Robespierre soffriva di nervi), dall’ambizione smisurata” In pratica, questi capi rivoluzionari, “morirono tutti ammazzati, perché la Rivoluzione era qualcosa di più grande di quelli che l’avevano messa in moto: era un processo metafisico di grandezza satanica, che divorava i suoi figli”.

Il metodo giacobino di colpire i “nemici del popolo”, farà scuola. Da questo momento “ogni rivoluzione sociale e politica, ogni utopia che pretende di realizzarsi e cozzerà contro la sua impossibilità teorica e pratica, avrà la necessità di creare il ‘nemico’”.

A questo punto la Rivoluzione prende di mira il clero, con un decreto vengono espulsi tutti i preti, religiosi “refrattari”, quelli che non hanno giurato per la Rivoluzione. Due settimane di tempo per abbandonare la Francia, se non lo fai ti aspetta la morte. Immaginate la difficoltà per quei tempi che si viaggiava a piedi o a cavallo. Non furono pochi quelli che restarono e quindi salirono sul patibolo. Il nostro protagonista raggiunse Saragozza in Spagna, ma anche qui in esilio i preti francesi non erano ben visti. Chiusa la fase “calda” della Rivoluzione, subentra quella “fredda” del consolato di Napoleone. Il Primo Console chiudeva la lugubre stagione dei massacri e della disperata resistenza dei Vandeani concedendo al paese la libertà religiosa. Così Chamenade ritorna in Francia, dove trova un paese semispopolato e circa ventimila cittadini eliminati. Certo ancora la situazione non era favorevole alla Chiesa, ma Chamenade e i suoi si danno da fare a cominciare dalla signorina Marie Therese Lamourous, sua figlia spirituale, che si occupava delle ragazze abbandonate di strada. A poco a poco si avvicinano al prete diversi giovani volenterosi, collaboratori che vedono in Chamenade un religioso carismatico pronto a tutto. Inizia a organizzare le persone in congregazioni, i “Padri di famiglia”, che si occupavano degli ospedali e delle prigioni; le ragazze ebbero l’Associazione delle dame del Ritiro. Comincia a dettare le regole e poi le riunioni, gli incontri, i ritiri, l’apostolato.

Chamenade comprende dell’importanza dei buoni libri. “Raccoglieva avidamente tutte le pubblicazioni atte a edificare, cedeva ai librai il vino che produceva a Saint-Laurent in cambio di libri”. Durante la Rivoluzione aveva salvato dalla distruzione o dalla dispersione un numero incredibile di libri, tutti gelosamente da lui custoditi. Precisa Cammilleri che il bello è che nonostante i tanti impegni, i libri li leggeva, li studiava e li annotava. Ha subito investito quello che aveva in una biblioteca circolante gratuita. Nella diocesi di Bordeaux arrivò ad avere ben 173 depositi di libri pronti per essere diffusi in tutta la Francia.

Per quanto riguarda l’associazionismo religioso proposto dal sacerdote francese, Cammilleri ne descrive le caratteristiche nell’11 capitolo. Si trattava di un’associazione del tutto nuova, senza abito, esistenza giuridica, però posta sotto la protezione di Maria, sterminatrice di tutte le eresie. L’associazione, “la società di Maria” “la nuova associazione sarebbe stata il tallone della Vergine per schiacciare il capo all’errore”. Ma per farlo spesso il nostro temporeggiava, si prendeva il suo tempo. Interessante la sintesi che ne fa Cammilleri su l’intuizione di Chamenade: La presenza dei preti e dei laici nella stessa associazione religiosa.”La Chiesa Cattolica - scrive Cammilleri - ha per missione di annunciare sempre la stessa cosa a generazioni di volta in volta nuove, guai perciò se non sapesse parlare un linguaggio di volta in volta comprensibile a ciascuna di esse. Da duemila anni è un adattarsi continuo alle esigenze dei tempi e dei luoghi per additare il Cielo via via al soldato romano, al cavaliere medievale, al mercante cinese, al borghese fiammingo, allo schiavo africano,[...] Per fare questo la Chiesa ha inventato quell’autoriforma continua che sono i Concili, ed ha sguinzagliato per le vie del mondo e nelle varie epoche i suoi uomini migliori, con la consegna di escogitare sempre nuovi modi di essere efficaci ‘pescatori d’uomini’”.

Ecco, nell’epoca di Chamenade era arrivato il tempo dei laici e il Nostro l’aveva capito bene. In questo secolo stupido che pensa che la religione sia affare dei preti, sono i laici che possono sconcertare i nemici della religione. L’idea di Chaminade era chiara: ammettere i laici a tutte le funzioni e gli incarichi della Società che non richiedessero lo stato sacerdotale. “Preti e laici insieme, uniti da uno scopo comune: la moltiplicazione dei cristiani. Cioè l’apostolato.

Ci sarebbero da affrontare altri temi come quello dell’insegnamento delle scuole aperte da Chamenade, il suo metodo. Anche l’insegnamento doveva contribuire a moltiplicare i cristiani. La religione doveva avere lo spazio necessario senza togliere niente alle altre discipline. Occorreva mettere ordine alle idee, dopo che la Rivoluzione aveva fatto tanto danno. “Chaminade andava avanti come una valanga, creando, inventando, escogitando, sperimentando ogni sorta di scuole, metodi, opere educative: ‘lo spirito filosofico corrompe tutte le età, tutte le condizioni e i sessi, impiegando molto destramente mezzi di tutti i generi”. Per questo il sacerdote “metteva in piedi differenti generi di opere e formiamo o facciamo formare dei soggetti ben capaci di liberarsi di esso”.

La seconda edizione del 2001 del libro di Cammilleri, c’è la postfazione scritta dal Superiore Generale dei Marianisti padre David Joseph Fleming, concludo con le sue parole dopo la sua beatificazione, di Chamenade, avvenuta il 3 settembre 2000, “il nostro Fondatore non appartiene più alla nostra Famiglia: fa parte del patrimonio di tutta la Chiesa e dell’umanità. Donando il padre Chaminade a tutta la Chiesa, il papa Giovanni Paolo II ci ha mostrato un nuovo volto del Fondatore che bisogna approfondire. Il Santo Padre ci sorprendeva tutti quando diceva, nella sua omelia per la beatificazione, che il nuovo Beato “ricorda ai fedeli il loro dovere di escogitare continuamente nuove modalità per essere testimoni della fede, soprattutto per avvicinare tutti coloro che sono lontani dalla Chiesa e non hanno a disposizione i mezzi ordinari per giungere alla conoscenza di Cristo”. Il Santo Padre ha espresso il senso della novità del padre Chaminade. Ha messo in rilievo il nostro Fondatore come protagonista di una “nuova evangelizzazione” nella sua epoca e come modello apostolico per la nostra”.

 

 

Avevo promesso in conclusione del suggestivo studio di Francisco Elias de Tejada, “La Monarchia tradizionale” di sviluppare il tema dell’ultimo capitolo in riguardo al Regno di Napoli. De Tejada, studioso e filosofo spagnolo, nonché esponente del carlismo politico spagnolo, è vissuto a Napoli per sette anni, peraltro sposando una donna napoletana. Nella parte conclusiva del testo, pubblicato in Italia per la prima volta, dalle Edizioni dell’Albero nel 1966, affronta il tema della tradizione di Napoli, per certi versi si tratta di un inno alla napoletanità. È uno studio che Tejada aveva accarezzato già dagli anni dell’infanzia. E’ un richiamo del sangue che lo ha spinto “a cercare notizie su quel paese azzurro e oro in cui le memorie dei miei antenati e la curiosità dell’incantesimo tessevano leggende”, nonostante tutto senza mettere piede in via Toledo. Già si sentiva Napoletano di cuore. I suoi antenati erano partiti da Napoli tre secoli fa ai tempi del re Filippo IV, per stabilirsi in Estremadura.

Tejada ritornando nel 1956 a Napoli, precisa che ha trovato un’altra città rispetto all’immagine che i suoi gli avevano tramandato. “Non era il regno di Napoli, ma una provincia dipendente da signori che la governavano da Roma, dove la lingua ufficiale era il toscano ed i soldati vestivano uniformi piemontesi. Non era la capitale del primo degli stati della penisola italiana […]”.

L’unica cosa che rimaneva a Napoli “era la grazia popolare, ma purtroppo questa grazia era disprezzata dagli stessi napoletani, primi attori nel drammatico suicidio collettivo che riduceva il napoletanismo al ‘folklore’”.

Era la Napoli del realismo di Salvatore Di Giacomo, “in quella disgraziata Peppenella che batte il marciapiede senza pane né acqua”.

Tejada è consapevole che ora il popolo napoletano ignora il suo passato, quando Napoli era libera e indipendente, la Napoli di oggi è avvolta in un fatalismo orientalizzante. E’ interessante citare le parole del filosofo spagnolo che si esercita in una dura e spregiudicata requisitoria della Napoli odierna. “Ora la sua classe media, ubriaca di garibaldinismo, alla ricerca di vantaggi personali, continua a vagare nella leggenda nera forgiata nel XIX secolo contro Napoli tradizionale; l’aristocrazia decadente o decaduta, oscillante tra la frenesia di rinnegare le proprie glorie per essere più in armonia coi tempi e un isolamento mortale; il clero impegnato in un vaticanismo di marca democristiana che sogna una repubblica guelfa nella quale Napoli non conta”.

In questo caos Tejada nota che “alcuni, sono socialisti ed altri monarchici savoiardi, alcuni papalini, altri garibaldini, alcuni rivolti verso Mosca ed altri verso il Vaticano…ma nessuno pensa a Napoli, nessuno è napoletano”.

Addirittura, Tejada arriva al punto di scrivere che per sette anni si è sentito nella città partenopea come una belva in gabbia, una fiera isolata pronta ad assalire, ma appoggiato dalla sua eredità del sangue (hidalguia) e dal giuramento fatto ai suoi morti di chiarire la passione napoletana, in che cosa consiste la tradizione napoletana, cioè, l’anima della mia adorata Napoli.

In sintesi, Tejada espone la storia del regno di Napoli a partire dal XVI secolo, da quando comincia ad esistere come entità sociale, grazie a Ferdinando il Cattolico, che “doma la ribelle nobiltà e pone il bene comune napoletano al di sopra delle ambizioni politiche di infiniti monarchi reucci quasi onnipotenti, capaci di vendere il Regno allo stesso Turco, come più di una volta avevano pensato di fare”.

Tejada ripete spesso che Napoli è Regno e non monarchia che naviga come una nave senza timoniere. A questo punto il nostro studioso fa riferimento ai diversi passaggi delle dinastie che governarono il regno scontrandosi con i nobili e principi rivoltosi. Pertanto, per Tejada “il regno di Napoli acquista solida struttura quando i suoi re domineranno la nobiltà rivoltosa […] cioè, quando il regno napoletano entra nella confederazione delle Spagne”.

Il segno più evidente di questa entità politica al di sopra dell’anarchia delle epoche precedenti furono “la presenza dei procuratori popolari alle riunioni di ‘Cortes’ introdotte da Alfonso il Magnanimo come adattamento napoletano alle libere istituzioni catalane”.

Il rappresentante del re cattolico preferiva fare ricorso al popolo napoletano e lo convocava immediatamente a “Cortes”. Con la formazione del Regno nasce la tradizione napoletana, perché si delinea il corpo politico istituzionale che permetterà di differenziare Napoli dagli stati vicini non quale mobile mucchio di anarchiche sabbie feudali, ma quale corpo politico dotato di una struttura robusta e permanente”. Tejada è preciso nella descrizione della composizione del sistema politico di quel tempo: “Il vicerè, il Sacro Consiglio Collaterale, la Corte della Vicaria, la cancelleria organizzata da Ferdinando il Cattolico nel 1505, i parlamenti con rappresentanza popolare, i seggi della capitale dotati di potere deliberanti, intessono una trama coerente che era il meglio che si potesse attuare in quel tempo ed in quelle congiunture”.

In pratica esisteva una forte alleanza tra la Corona ed il popolo, a tal punto che quando la nobiltà aizzò le sommosse del 1547 contro don Pedro di Toledo, non furono rivolte contro il re delle Spagne, ma contro le angherie dei signorotti, infatti il tumulto di Masaniello, “fu una reazione contro i soprusi dei nobili, come testimonia Paolo Antonio di Tarsia nel suo ‘Tumultos de la ciudad y rayno de Napoles’, quando da un lato segnala che i napoletani ‘si sono dimostrati vassalli leali al loro Re, anche nell’impeto delle sommosse e dei tumulti’ e dall’altro che erano insorti a causa delle ‘prepotenze perpetrate dai potenti sulla povera gente’””.

Ecco l’intento di Tejada di dimostrare l’esistenza di un Regno con un corpo politico autonomo, con istituzioni proprie, con un particolare diritto, con consigli e Corte separati, modellati da Ferdinando il Cattolico e rafforzati dai suoi successori, sempre in una unione profonda tra la Corona e il popolo.

Nel terzo paragrafo lo scrittore spagnolo evidenzia le caratteristiche della Cultura napoletana. È interessante leggere queste pagine, perché si scopre un mondo sconosciuto di letterati, studiosi, facenti parte a pieno titolo della cultura italiana: il miglior poeta in toscano che viveva a Napoli era Benito Gamet, nato a Barcellona, molto più dotto di tanti altri più conosciuti. Tejada fa alcuni nomi: Bernardino Martirano, Fabrizio Luna, Benedetto di Falco, Luigi Tansillo. Questi scrittori napoletani secondo Tejada, “vivono nella speranza di vedere l’Italia intera intorno al trono dei loro re, ed aspirano parimenti alla monarchia universale di Carlo V”.

Ad una prima abitudine di servirsi del toscano, si arrivò poi ad una successiva offensiva antitoscana, come si può dedurre dagli scritti di altri autorevoli studiosi.

La cultura napoletana è presente nel campo del Diritto, della scienza giuridica, una caratteristica di Napoli, nei secoli XVI e XVII, a cominciare da Andrea d’Isernia. Tejada per conoscere meglio le varie scuole napoletane invita a leggere il suo Napoles hispanico (pubblicato in Italia, in sei volumi da Controcorrente).

“Per identificare le energie intellettuali di tanti giureconsulti che fecero di Napoli la culla della scienza giuridica. Sorgono così una serie di scuole che compongono il più ricco mosaico di studi giuridici di cui abbia memoria, non superato né prima né dopo da nessun popolo”.

Questa cultura napoletana fu possibile perché i re delle Spagne furono “fermi al loro credo tradizionalista di rispettare la personalità storica del regno, anche quando suggerimenti provenienti dagli stessi napoletani li incitavano alla castiglianizzazione del Regno napoletano”. Tejada porta l’esempio di Tommaso Campanella che consigliava a Filippo III nella Monarchia di Spagna di “spagnolizzare” il Regno napoletano con l’imposizione della lingua e degli usi e le leggi di Castiglia. Il buon re della vera Napoli ha rifiutato il consiglio.

Con l’indipendenza culturale nelle lettere e nel diritto il Regno napoletano ebbe una missione storica: “difendere la verità cattolica del Cristo contro i nemici del nord e del sud, contro il protestantesimo e l’Islamismo”. Tejada rileva che si tratta di un compito che lui chiama, “guerra intellettuale”, ma che benissimo si può intendere come una “battaglia delle idee”. Comunque sia Tejada precisa che anche se è difficile per alcuni comprendere questa “guerra”, certamente, la genialità storica di allora “salvò la Cristianità dall’essere divorata dai suoi nemici, mercè i sacrifici che con gli altri popoli della Confederazione spagnola, i miei antenati affrontarono coraggiosamente”.

Tejada a questo punto può scrivere che quei popoli federati nella monarchia spagnola furono strumenti di Dio. “Se il Protestantesimo e l’Islamismo non poterono chiudere il cerchio che avrebbe stritolato quella Cristianità che ancora sopravviveva alla rivoluzione antropocentrica europea, fu perché Iddio si servì dei nostri popoli come strumento della Sua gloria e perché i nostri antenati poterono consacrarsi completamente alla impresa di combattere le battaglie del Signore nei leggendari ‘tercios’ o nei banchi di Trento, nelle flotte di guerra o nella stampa dei libri”.

E’ un accostamento affascinante questo di Tejada: “la massima gloria della tradizione napoletana è codesto senso missionario, codesta guerra intellettuale contro l’Islam e contro l’Europa. Ignorarla o disconoscerla è voler ignorare o disconoscere coscientemente l’essenza del Regno di Napoli”.

Attenzione serve fare una precisazione, L’Europa che Tejada contrasta è quella nata dalle idee illuministe, dalla Rivoluzione francese, le idee di Voltaire e di Rousseau.

Tuttavia, i più grandi scrittori napoletani, una infinità di nomi proposti da Tejada, hanno avversato i vari padri dell’Europa, da Lutero a Machiavelli, fino a Bodin, a Hobbes. Infatti, la mentalità assolutista tipicamente europea sconosciuta nelle Spagne, teorizzata da Jean Bodin, “era incompatibile con la mentalità della Napoli tradizionale”. Pertanto, conclude il paragrafo sostenendo che “il pensiero politico napoletano, come quello spagnolo in generale, fu antieuropeo, antiluterano, antimachiavellico, antibodiano, schiettamente aderente alla Controriforma. L’Islam e l’Europa furono i nemici nazionali. Fino al 1700 il Regno formò un blocco con il resto dei popoli della monarchia federata ispanica difendendo il teocentrismo intransigente della Cristianità di fronte alla nuova civiltà antropocentrica europea”.

Dopo queste affermazioni si comprende meglio il perché nei libri di Storia i combattenti di questa monarchia federata, a cui fa riferimento lo scrittore spagnolo furono derisi e per secoli considerati reietti dell’umanità.

Insomma, per Tejada la Napoli tradizionale si fissò su tre punti: la difesa intransigente del Cristianesimo cattolico, il mantenimento appassionato delle libertà del Regno inteso come corpo politico perfetto e totale, il fervido servizio al Re, capitano dell’impresa della Controriforma e paladino della Cristianità missionaria”. Era evidente che un Paese con questo curriculum non poteva che essere osteggiato dai corifei della Rivoluzione europea.

Pertanto, la storia dei popoli spagnoli degli ultimi tre secoli “sarà la lotta delle rispettive tradizioni spagnole contro l’estraneo spirito europeo”.

Infatti, Per Tejada, anche lo sviluppo del Regno di Napoli, “si identificherà con la polemica intorno alla sua tradizione assalita dall’assolutismo francese nel secolo XVIII, dal garibaldinismo liberale nel secolo XIX e dal sogno ‘romano’ del fascismo nel secolo XX che si succederanno lottando gli uni contro gli altri senza mai permettere una soluzione autenticamente napoletana”.

Il secolo XVIII vede il trionfo delle idee europee sulle Spagne, divise e spezzettate. Anche l’anima nazionale napoletana viene straziata. Scrive Tejada: “l’eroico idealismo della difesa della Cristianità viene sostituito dal volgare pragmatismo di moda alla corte di Versailles”. I letterati come Genovesi, Beccaria, Filangeri, Pagano, “disprezzano la loro storia per inginocchiarsi ai piedi dell’idolo Voltaire”. Anche nel Diritto, Napoli ora scopiazza formule straniere. “Solo il popolo protesta e continua a parlare napoletano, quel napoletano che gli eruditi disdegnano, come disdegnano le lettere, la filosofia e la giurisprudenza napoletane facendo a gara nel portare a termine un vero e proprio suicidio nazionale […]”.

Tejada, applica le triste parole di Ferdinando Galiani e intravede un furore collettivo dei napoletani nel rinnegare le proprie tradizioni. Una parte del popolo napoletano abbandonato a sé stesso cercò di continuare ad essere napoletano, tra questi Giambattista Vico, che “rappresenta l’ultima voce tradizionale con la sua avversione alla cultura moderna, con la sua lotta contro il pensiero europeo, fedele alla comune tradizione spagnola, fedele a Francisco Suarez […] nemico di Hobbes e Machiavelli, quali empi, distruttori della giustizia, scandali del pensiero […]”. Giambattista Vico, ultimo nome della Tradizione napoletana.

Tejada non è tenero con i Borboni, perché hanno fatto perdere l’amore dei napoletani nei confronti dei monarchi spagnoli, proprio per il napoletanismo, “rimasto incompreso dai Borboni francesi”. Siamo nel 1799, Vincenzo Cuoco potrà dire, “il popolo non amava più il re […] amava ancora la sua religione, amava la patria, e odiava i francesi”.

Ancora Tejada sostiene che nel XVIII secolo “la tradizione napoletana perde il senso della monarchia autentica, ma sente la nostalgia delle libertà spagnole, continua ad odiare l’Europa, e crede nella realtà tradizionale di Napoli. Il suo grido di battaglia sarà l’evviva la ‘Santa Fede’ ed il ‘popolo napoletano’”. Così che Antonio Capece Minutolo, il Principe di Canosa, più che una soluzione monarchica (imbrigliata nell’assolutismo) auspicava una repubblica aristocratica in unione con i “cavalieri della Città”. L’aspirazione del Canosa era quella di avere “una Napoli fedele alla tradizione nazionale dei tempi spagnoli, tradizione più che intuita che conosciuta […]”. Ma tutti quei pensatori a Napoli come in Spagna che auspicavano un governo tradizionale, basato sulle libertà concrete, non soffocato dal liberalismo e dall’assolutismo, rimasero senza ascolto. Pertanto, nel 1860 sentenzia Tejada, “i liberali trionfarono sugli assolutisti ed i piemontesi sostituirono i francesi. Napoli non moriva allora, già era morta da 150 anni quando era uscita dalla confederazione monarchica delle Spagne.

Ora dagli antichi grandi ideali, il popolo napoletano conserva solamente la fede cattolica, e le stupide minoranze, stanno lavorando per abbattere l’unico baluardo che resta della vera tradizione.

Lo studio di Tejada si conclude con una passeggiata simbolica nella vecchia via Toledo, meta prediletta da tanti napoletani purosangue. E anche qui a passeggio con l’amico fraterno Silvio Vitale, l’ultimo tradizionalista napoletano, continua la polemica nei confronti di quei napoletani che ignorano la tradizione napoletana e se ne vantano pure. Tra questi Tejada mette il comandante Achille Lauro che non ha creato cattedre, centri di cultura, case editrici, patrocinare ricerche, per una vera rivolta spirituale, per salvare il salvabile della tradizione napoletana. E’ la solita deficienza che si riscontra in tutte le cosiddette politiche di destra o pseudo destra.

 

 

A due settimane dalla conclusione di una guerra civile insorta in Spagna per frenare il processo di sovietizzazione e scristianizzazione imposta da chi, nel 1936, deteneva le leve del potere politico, il 16 aprile del 1939, il papa inviò ai cattolici di Spagna un radiomessaggio nel quale – senza alcuna remora clericale – si dichiarava felice dell’esito della guerra: «Con immensa gioia Ci rivolgiamo a voi, figli dilettissimi della Cattolica Spagna, per esprimervi la Nostra paterna felicitazione per il dono della pace e della vittoria con il quale Dio si è degnato di coronare l’eroismo cristiano della vostra fede e carità, provato da tante e così generose sofferenze. […] La Nazione eletta da Dio come principale strumento di evangelizzazione del Nuovo Mondo e come baluardo inespugnabile della fede cattolica, ha testé dato ai proseliti dell’ateismo materialista del nostro secolo la più elevata prova che al di sopra di ogni cosa stanno i valori eterni della religione e dello spirito».

Il venerabile papa Pio XII (1939-1958) auspicava poi, in questo che è tra i suoi primissimi atti di magistero, che nell’opera di pacificazione tutti, in Spagna, seguissero «i princípi inculcati dalla Chiesa, e proclamati con tanta nobilità dal Generalissimo [Francisco Franco Bahamonde (1892-1975)]».

Il testo del radiomessaggio è opportunamente inserito in appendice a La Spagna dei Legionari, volume pubblicato per la prima volta nel 1942 e riproposto dalla casa editrice Solfanelli nel 2019. La definizione di «diario di guerra» sta decisamente stretta a questo testo, che non si limita alla scabra registrazione di eventi bellici. Vi si trovano, infatti, suggestioni artistiche e geografiche, come anche molte testimonianze, fra cui quella dell’epico difensore dell’Alcazar di Toledo,  il colonello José Moscardò Ituarte (1878-1956), e quella di diversi popolani e borghesi incontrati nelle zone appena liberate dal giogo dei rojos. Accattivante anche solo dal punto di vista letterario, lo stile non è quindi alieno da quello dei «diari di viaggio» dell’età romantica, la cui ambizione principale era quella di cogliere l’ethos della nazione straniera visitata. Ma c’è ancora un’altra ragione per non lasciarsi sfuggire questo libro: poiché dà la possibilità di esplorare in presa diretta, senza cioè un’intermediazione eventualmente viziata da pregiudizi ideologici, l’orizzonte ideale degli italiani che, senza essere costretti dalla povertà, decisero di arruolarsi nel Tercio de Extranjeros  e rischiare la vita a supporto delle forze spagnole nazionaliste.

Uomo d’armi, giurista e scrittore, l’autore de «La Spagna dei Legionari» è infatti l’avvocato penalista napoletano Tullio Rispoli (1899-1974), che combatté in Spagna dal gennaio del 1937 all’ottobre del 1938 nel Corpo Truppe Volontarie col grado di capitano, peraltro meritando una medaglia di bronzo per meriti acquistati sul campo nel corso della battaglia di Guadalajara (8-23 marzo 1937).

Nel diario di Tullio Rispoli non mancano episodi e pagine francamente toccanti. Per esempio quando si legge che a Oliete, «un piccolo paese che i rossi per la loro fuga precipitosa non erano riusciti a saccheggiare, né a distruggere»,  «un povero padre […] aveva nascosto in casa il figliuolo prete murandolo nella stalla» per 19 mesi per sottrarlo all’eccidio di sacerdoti, religiosi e religiose perpetrato sistematicamente dalle bande di miliziani anarchici e comunisti. Ne era uscito «un povero giovane dalla barba lunga, dalla pelle bianca, dalla vista che non poteva reggere la luce del sole». Oppure quando, a proposito della fierezza della Navarra, Rispoli racconta come, dopo più di mille anni dalla buccina del paladino Orlando, ne era suonata un’altra: «quella della nazione che non ha voluto morire. […] Tutta la Spagna nazione considera la Navarra come culla della riscossa anti-bolscevica e queste boine rosse [i berretti tipici dei Requetés carlisti] come la migliore espressione dei vecchi sentimenti tradizionalisti. Dio, Re, Patria: ecco il programma secolare di questa provincia che con la Castilla, con l’Aragona e il Leon già riuscì per il passato a far la Spagna Una, Grande y Libre».

Il volume si chiude con un’acuta post-fazione del curatore Gianandrea de Antonellis che, a ottant’anni dal vittorioso esito della Cruzada, individua nel perdurare anche dopo la guerra dell’unificazione imposta da Francisco Franco nel 1937 fra i falangisti e i requetes, uno degli errori politici che fecero perdere al Caudillo… il dopoguerra. Indebolito il fronte culturale e politico che avrebbe potuto, almeno in tesi, impedire la deriva zapateriana del secolo XXI, la Spagna si è purtroppo trasformata in «una nazione di punta del “politicamente corretto”, ben più invertebrata di quanto lamentava nel 1921 Ortega y Gasset [1883-1955]».

In questa ennesima recensione intendo celebrare, un professore, uno storico, uno studioso che possedeva un talento raro: non solo di spiegare il passato ma, di spiegare i compiti e le responsabilità dello storico. Tangheroni ci ha lasciato prematuramente l'11 febbraio 2004, a causa di una malattia renale, che aveva bisogno di tre trasfusioni del sangue alla settimana, una“lunghissima e drammatica storia sanitaria”,- sono parole sue, scritte sempre nel 2002 -, un autentico calvario vissuto come una buona battaglia ha trovato significativo epilogo nella ricorrenza liturgica della Madonna di Lourdes.  

E' stato professore ordinario di Storia medievale, ha insegnato nelle Università di Barcellona, Cagliari, Sassari e Pisa. Oltre a questi incarichi istituzionali, è stato anche socio fondatore di Alleanza Cattolica.

Cercherò di presentare Tangheroni attraverso il saggio “Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolás Gómez Dávila”, a cura di Cecilia Iannella e con la Presentazione. Marco Tangheroni di David Abulafia, Sugarco, (Milano 2008, pp. 144, € 15,00).

Tangheroni è autore di una ricca produzione storiografica e pubblicistica. “Della Storia” è stata pubblicata postuma grazie alla revisione redazionale di Cecilia Iannella, docente  del dipartimento di Medievistica dell'Università di Pisa, dove Tangheroni era direttore. L'opera nasce da un seminario svoltosi nello stesso dipartimento sui temi relativi alla “Riflessione epistemologica sulla conoscenza storica”, che rappresentano il contenuto centrale dell'opera stessa.

Nella Nota la curatrice fa parlare lo stesso professore che presenta il suo metodo di fare Storia, “Un discorso che procede piuttosto per associazione di idee, sovente pure per associazione di citazioni, senza preoccupazioni di rigore trattatistico, di disposizione sistematica, di tendenza alla completezza [...]Non rinunciando, tuttavia, ad un certo tono colloquiale, non alieno dalla parentesi, aperto talora ai ricordi personali. [...]In fondo, le considerazioni qui svolte sono da considerare come frutto di lezioni, in parte realmente tenute, del resto. Queste pagine sono state scritte col giro mentale di un professore che sta colloquiando con i suoi studenti” (p. 26).

Nella presentazione David Abulafia, fa un ritratto scientifico e umano del professore Tangheroni, che sapeva parlare con una voce chiara, simpatica ed originale che al gran pubblico e anche ai colleghi medievisti”. Io ricordo benissimo le sue lezioni con la cadenza tipicamente pisana, toscana.

L’opera si articola in un’introduzione, otto capitoli e un’appendice, ognuno concepito come commento a uno o più aforismi del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), riconducibili, fra i tanti prodotti del pensatore iberoamericano, al tema della storiografia e della sua conoscenza. Tangheroni si è avvicinato alla lettura dei testi di Gomez Davila, attraverso la mediazione dell’amico Giovanni Cantoni, reggente nazionale e fondatore di Alleanza Cattolica, associazione di cui lo storico è stato autorevole esponente fin dai suoi inizi.

Cantoni a cui è dedicato il saggio, ha contribuito a far conoscere Gómez Dávila al pubblico italiano con alcuni suoi saggi e soprattutto con il testo, Per una civiltà cristiana nel terzo millennio. La coscienza della Magna Europa e il quinto viaggio di Colombo, Sugarco, (Milano 2008).

Per il professore Tangheroni la Storia è ricerca della verità, una descrizione vera del passato, così come la scienza è descrizione vera del mondo. Certo Tangheroni era consapevole che la “verità” dello storico rimane sempre una “verità relativa”, che non pretende mai di essere verità oggettiva, o almeno definitiva.

Tuttavia Tangheroni possedeva una grande capacità di intendere il lavoro dello storico, che era non solo di spiegare il passato, ma come vedremo in questo libretto, «di spiegare i compiti e le responsabilità dello storico. Questo libro apre la via verso la storiografia libera da pregiudizi ideologici, umanistica (nel senso migliore della parola) e anche umile, perchè noi, studiosi delle vite dei nostri antecessori, dovremmo sempre agire con umiltà nei nostri tentativi di ricostruire le vite degli uomini e donne che hanno realmente respirato, pensato e sognato».

Nell'introduzione vengono indicati non solo alcuni fra i maestri e le opere di cui Tangheroni si dichiara debitore, come lo storico del Medioevo, docente nello stesso dipartimento pisano, Cinzio Violante (1921-2001), e lo storico francese Henri Marrou (1904-1977), ma anche l’ambito entro cui collocare il valore e il ruolo della riflessione epistemologica. Quello dello storico è innanzitutto un lavoro di ricerca, di conoscenza e di rappresentazione del passato, che si esprime in testi e in opere.

Lo storico, secondo Tangheroni, non dovrebbe mai rinunciare a “una certa inquietudine […]non come una parentesi, ma come qualcosa che si intreccia strettamente col suo lavoro quotidiano”, interrogandosi su che cosa conosce, come conosce e quali sono i limiti della sua conoscenza. Sono questi i problemi che hanno attirato lo studioso pisano fin da giovane studente universitario a Pisa e a Cagliari, poi da ricercatore e docente, come si può attestare dai suoi studi di storia medievale  - mediterranea, sarda, pisana e toscana in particolare - con una sequenza d’interessi fra cui rientrano, oltre quelli economici, quelli religiosi, politici e sociali.

«I fili con cui è costruita la trama dei singoli capitoli, oltre che dagli aforismi gomezdaviliani, sono rappresentati da una messe di riferimenti a testi di metodologia storica, dagli esempi tratti dalla storia medievale, e non solo, dalle ricerche personali e da osservazioni di carattere filosofico e scientifico che Tangheroni tratta con rispetto e cautela, a conferma di uno degli aspetti della sua dimensione umana e culturale: l’apertura a mondi epistemologici diversi da quello proprio». (Sandro Petrucci, recensione a “Della Storia. In margine ad aforismi di Nicolas Gomez Davila, in Cristianità n. 351, 2009)

Nel primo capitolo, (Della complessità, dei limiti e del mistero della storia), si ragiona sulla complessità, che riguarda la storia non solo come passato ma anche come conoscenza, e che è dimenticata o sottovalutata sia dagli storici dilettanti e dai curiosi della materia, desiderosi di ottenere facili spiegazioni, sia dagli storici professionisti. Tangheroni a questo proposito, condivide l’avvertimento di Gómez Dávila: “Lo storico che parla di causa, e non di cause, deve immediatamente essere valutato negativamente”.

E' stata la storiografia marxista, che secondo Gomez Davila, a usare “un lessico di dieci parole […] per spiegare la storia”. Tangheroni, ricorda come alcune formule - per esempio, “crisi della borghesia” o “rifeudalizzazione”, siano utilizzate meccanicamente, soprattutto in opere di sintesi come i manuali scolastici.

Altre formule del «riduzionismo semplificante, più sofisticate e più insidiose, sono individuate nella cosiddetta dietrologia e nel decostruttivismo». Anche qui c'è un orientamento di ispirazione marxista secondo cui «compito dello storico è svelare gl’interessi della classe sociale dominante, le cui scelte costituiscono sovrastrutture dei rapporti economici».

Pertanto per lo storico pisano, occorre avere sempre presente che gli avvenimenti storici sono complessi, e che bisogna fare i conti con i limiti dello storico e della possibilità di conoscere il passato. Avere sempre presente questa questione significa che va coltivata l'esegesi delle fonti, le cui attendibilità e plausibilità vanno continuamente verificate.“Solo riconoscendo i propri limiti la ragione fonda la validità del proprio operare”. D'altro canto all’origine dell’operare dello storico ci deve essere sempre una lezione di umiltà. Infatti, […] lo storico non è Dio” .

La ricerca dello storico non si deve basare su illazioni, su apparenze, ma su certezze

Al centro della conoscenza storica vi dev'essere, il dialogo fra lo storico e il passato, attraverso le testimonianze rimaste. Lo storico secondo Tangheroni,[…] non può restituire a quei morti tutta la vita, perché li conosce solo parzialmente e di ciò deve tener conto, ma il suo talento consiste innanzitutto nel saper porre“domande intelligenti […] le domande giuste al momento giusto; in questo modo […] lo storico trasforma i morti in morti parlanti […]. In ogni caso, sullo sfondo rimane un mistero della storia, non perché vi siano realtà volutamente occultate, ma perché non solo la spiegazione — non si deve spiegare tutto e forzatamente — bensì anche la conoscenza risulta sempre limitata, pure nei casi in cui la documentazione si presenta particolarmente ricca.

Nel secondo capitolo, (Dell’originalità nella ricerca storica nonché dei rapporti di questa con le scienze umane), si analizza la tentazione dell’originalità, subita dallo storico anche accademico, spesso condizionato nella scelta delle sue ricerche dalle mode e dall’ambiente in cui è immerso. Questa tentazione è caratteristica, in modo particolare, dalla cosiddetta “nuova storia”, versione della scuola francese delle Annales di cui viene discusso un particolare orientamento, che in qualche caso ha condotto a uno snaturamento della conoscenza storica: la ricerca di uno stretto rapporto con le altre scienze umane.

Questa scuola ha conosciuto esiti positivi, ma spesso sono stati gli storici a farsi condizionare dalle categorie delle altre discipline, in particolare dalla sociologia, come anche dalla psicoanalisi, mentre i rapporti con le scienze giuridiche hanno conosciuto un affievolimento, forse perché queste conservano tratti più tradizionali. E tuttavia lo storico secondo Tangheroni, non dev'essere condizionato dalle altre discipline, ma deve basarsi sul lavoro personale, sulla penetrazione continua, sull'interrogare ripetutamente il passato. […] molto dipende dalla maturazione della [sua] personalità” e dalla consapevolezza dello specifico della sua ricerca, che dovrà condurlo ad affrontare il dialogo con le altre scienze umane non da posizioni subalterne o deboli, ma sapendo correggere e adattare ogni stimolo.

Un altro rischio per il professore pisano, tra l'altro, meno avvertito, è l’eccessiva specializzazione della ricerca storica, anche se il professore non è contro la specializzazione, soltanto che mette in guardia da due pericoli: restringere a tal punto il campo d’indagine da conoscere “tutto, ma sul quasi-niente”; non comprendere adeguatamente un argomento circoscritto, perché slegato da un quadro più ampio e destinato a divenire un frammento isolato e ultimamente inesplicabile. Lo storico dovrebbe mantenere viva la curiosità, che lo aiuta a cogliere la complessità. Lo storico deve rapportarsi in modo ampio e profondo con l’umano del passato, evitando di ridurlo a situazioni particolari per quanto studiate in modo dettagliato.

Pertanto lo storico attraverso il suo lavoro di ricerca, entra in relazione con i protagonisti del passato: essi «hanno caratteri di uguaglianza — la natura umana — e di diversità, la cultura, gli ambienti e le condizioni». A conclusione di questo capitolo si trova un rinnovato richiamo ai documenti: l’incontro fra storico e passato avviene nella faticosa, paziente, ma anche suggestiva lettura delle fonti e delle carte raccolte in quegli archivi che hanno, anch’essi, la propria storia.

Nel terzo capitolo, (Del determinismo e della causalità), lo storico pisano definisce il determinismo come “la dottrina della necessità causale” che, applicata dal campo della fisica a quello storico, stabilisce “una relazione necessaria (appunto: determinata) tra gli eventi passati e il presente, come tra il presente e gli eventi futuri”.

L’esito di tutto questo è che la storia […] vista come uno svolgimento necessario, in cui si dispiega una forza immanente, provvidenziale e razionale”. Le conseguenze di una tale impostazione sono,“sia l’impossibilità di esprimere qualsiasi giudizio di valore, sia la difficoltà di concepire criteri di responsabilità individuale”. Sostanzialmente si tratta di ridurre gli individui a “pure cause efficienti, strumenti di una forza che è più grande di loro e che persegue i suoi fini a dispetto delle loro intenzioni”.

Nel quarto capitolo, (Della critica di Kierkegaard a Hegel), Tangheroni ha il merito di valorizzare il pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855). e di mostrare la rilevanza della categoria della “possibilità”, per cui ogni evento, implica la libertà degli uomini che ne sono protagonisti: niente nel passato è già scritto prima che avvenga. Si tratta di una lezione dalle grandi implicazioni non solo storiografiche. Contrariamente a quanto comunemente si afferma, la storia si fa proprio con i se, […] cioè ricostruendo il passato nella ricchezza delle sue possibilità, anche proprio per meglio intendere le possibilità diventate realtà”

Nel lungo quinto capitolo, (Del generale e dell’individuale), anche in questo capitolo Tangheroni sviluppa molte sollecitazioni di Gómez Dávila, giungendo a una serie di conclusioni sulla definizione della conoscenza storica. Una delle constatazioni importanti è che ogni fatto storico è unico e irripetibile: “la storia non si ripete”.  Lo storico pisano sottolinea quanto la conoscenza storica sia debitrice al cristianesimo, cioè all’idea dell’uomo come imago Dei. Per cui la persona è irriducibile ad ambienti, culture, condizioni economiche o sociali. L’idea cristiana dell’uomo non solo ha liberato la storia da una visione ciclica, ma ne evita anche la tentazione riduzionistica. Per una parte della storiografia la storia collettiva o la storia di quanto si ripete, del regolare, contiene quei tratti scientifici che sfuggono invece alla storia individuale. Esempio di una tale impostazione, aldilà del valore storiografico e dell'importanti contributi che ha lasciato, è lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985).

«Il lavoro dello storico, mira a collocare i fatti in un contesto, in un racconto, in un ordito testuale ragionevole, ma non conclusivo [...]». Per il nostro esiste una pericolosa deriva storiografica che giunge a considerare i concetti non strumenti cognitivi, ma realtà oggettive, quasi fossero fatti storici. “I concetti ed i termini sono da maneggiare con prudenza”. La scelta del linguaggio da utilizzare nella rappresentazione del passato, è un terreno particolarmente problematico e insidioso.

Nel breve sesto capitolo, (Della storia, dei sistemi, delle strutture), Tangheroni pone l’indagine sul significato di una delle espressioni più ricorrenti nel recente vocabolario storiografico, cioè “sistema”, rappresenta un esempio di quanto lo storico debba essere attento al linguaggio che utilizza, spesso proveniente da altre scienze umane, in particolare la sociologia, per non rimanerne irretito, ma per saper servirsene al meglio.

Alcune delle riflessioni svolte nelle pagine precedenti vengono riprese nel settimo capitolo, (Della verità della storia), con ulteriori declinazioni e conclusioni. Innanzitutto la conoscenza storica […] è ricerca della verità, di una descrizione vera del passato, così come la scienza, secondo la definizione galileiana, è descrizione vera del mondo”. Comunque sia, la verità che lo storico raggiunge con la sua ricerca e con il suo studio è sempre relativa, ma all’origine del lavoro dello storico non può esservi un atteggiamento scettico, bensì di fiducia, di colloquio, di quella simpatia che traspare in alcune pagine dello studioso pisano verso i pochi o tanti documenti che possono offrirci informazioni intelligibili sul passato più o meno remoto.

Lo storico medievista, risponde alla solita domanda, che spesso viene posta nelle scuole: A cosa serve, dunque, la storia? Di solito si tende a rispondere che la sua utilità consiste nel comprendere il presente, è un refrain quasi ossessivo che troviamo nei manuali scolastici. Per Tangheroni è un’operazione del tutto anti-storica, la riduzione dei secoli trascorsi a quello attuale. Niente di più errato. Richiamandosi a un altro aforisma del pensatore colombiano —“Lo storico non si installa nel passato con l’intento di intendere meglio il presente. Quello che siamo stati non ci interessa per ricercare ciò che siamo. Quello che siamo interessa per ricercare ciò che siamo stati. Il passato non è la meta apparente dello storico bensì quella reale”. All’inizio dell’ottavo capitolo, (Dell’utilità della storia e del rapporto passato-presente), Tangheroni contesta il ricordato convincimento, dimostrando «che esso conduce inevitabilmente a compiere una selezione che sacrifica la complessità del passato sulla base dell’idea che solo quanto ha avuto continuità o conseguenza nel presente è meritevole di essere studiato». Invece, il passato va conosciuto per quello che è stato, nella sua totalità, per quanto possibile.

Tangheroni insiste:“il passato è passato. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Esso è diverso dal presente, anche quando è un passato recente o recentissimo”. Peraltro per Tangheroni, la storia, non offre risposte alle domande essenziali sull’uomo, come fanno la filosofia e la teologia, ma aiuta a capire che l’uomo non è Dio. In conclusione, […] la vera utilità della storia consiste […] nell’abituare all’incontro con l’altro da noi, con civiltà e culture lontane nel tempo, senza appiattimenti sul Novecento”.

 

 

Ho conosciuto la storia del popolo vandeano quando avevo sedici anni, io giovane adolescente, allora ero abbonato ai “Quaderni della ControRivoluzione”, un bollettino interno, edito da Maurizio Di Giovine di Bologna. E proprio in questo bollettino ciclostilato, ho letto per la prima volta con attenzione, sottolineando i passaggi più interessanti, la breve vita di uno dei capi dei vandeani, il giovane generalissimo Henri de la Rochejaquelein, un aristocratico contro la rivoluzione. Peraltro ero talmente entusiasmato che ho prodotto, già allora, uno studio sulla Vandea, e l'ho presentato in classe alla prof di Storia. Ci tenevo a ricordare questa mia piccola esperienza giovanile, per sottolineare che in pratica i miei punti di riferimento culturali, ideali e storici erano questi uomini combattenti per la Verità e per Nostro Signore. Pertanto lo studio di Di Giovine è stato la mia prima fonte storica sulla Vandea, dopo è arrivata Alleanza Cattolica, con la rivista Cristianità, infine i lavori di Reynold Secher, pubblicati da Effedieffe.

Che cos'è la Vandea? Che cosa è accaduto? Perché è diventato un simbolo evocato dai cattolici oltranzisti o dai reazionari più esacerbati? La domanda non è mia ma di un articolo di Storia e Dossier del 1995. Intanto la Vandea è un territorio che si affaccia sull'Atlantico, nel Nord-Ovest della Francia, i suoi abitanti, per lo più contadini, nel 1793 si sollevarono contro il Direttorio parigino e l'esercito repubblicano francese. E' una guerra tra francesi che dura tre anni e in questo arco di tempo il nome di Vandea acquista una risonanza immensa.

«La Vandea militare [….]diviene simbolo della resistenza ostinata alle istanze rivoluzionarie […] Per i repubblicani, infatti, i vandeani sono selvaggi manipolati dal clero e dai loro antichi signori feudali. Per gli avversari della repubblica sono invece i crociati dei tempi moderni». (M. Sanfilippo, La Vandea: alle origini di un mito antiliberale, in Storia e Dossier, n. 92, marzo 1995).

I vandeani allo scoppio della Rivoluzione francese nel 1789, accolsero favorevolmente l'avvento di ciò che pareva essere solo una ristrutturazione della società e del governo e che si stava svolgendo nei limiti del diritto tradizionale. Infatti, la convocazione degli Stati generali (il 5 maggio 1789), sebbene non accadeva da tanto tempo, rientrava a pieno titolo negli strumenti del governo della monarchia francese. La rivoluzione, soprattutto nelle regioni periferiche della Francia, fu immediatamente avvertita come fattore “nuovo” ed epocale.

Le cose cambiarono quando il governo rivoluzionario parigino cominciò ad imporre misure amministrative rigide, aumento delle tasse, introduzione della leva obbligatoria, nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, soppressione degli ordini religiosi, sostituzione della religione cattolica con il culto prime dell'Essere Supremo, poi della dea Ragione.

Tre particolare avvenimenti scatenarono le rabbia della popolazione francese, che a differenza di buona parte degli intellettuali, della gran parte della nobiltà, dell'esercito, di una parte del clero, imbevuti di cultura illuminista liberal massonica, rimaneva profondamente legata alle tradizioni e alla religione Cattolica. Peraltro la regione della Vandea, aveva avuto la predicazione di quel grande sacerdote santo San Luigi Maria Grignon de Montfort.

Il 1° avvenimento che ha scatenato la reazione popolare è stato la Costituzione civile del clero, mediante il quale il governo rivoluzionario intendeva controllare direttamente gli ecclesiastici, tentando di dar vita a una Chiesa nazionale francese scismatica e sottomessa ai voleri dei dirigenti parigini. Con il giuramento di fedeltà al governo si aspirava a emarginare chi si opponeva al regime. I protagonisti di questa costituzione furono i vescovi Charles de Lomenie de Brienne e Henri Gregoire, amico dei sanculotti, che cercava finanziamenti per comprare le famose picche, che saranno utilizzate per massacrare tanti sacerdoti confratelli.

«Il rifiuto della gran parte dei sacerdoti di prestare giuramento e di rompere, quindi, la comunione con la Santa Sede fece di fatto fallire il progetto della Chiesa nazionale, che costituì  comunque un elemento importante del tentativo di operare la completa scristianizzazione della nazione. I sacerdoti che si rifiutarono di giurare fedeltà al governo rivoluzionario, i cosiddetti preti refractaires, vennero sistematicamente perseguitati, imprigionati o deportati e assieme a loro subiva vessazioni il popolo che ampiamente li sosteneva». (Vandea e Messico. La fede è il dono più prezioso...Edizioni Centro Grafico Stampa- Bergamo)

Successivamente il culto viene vietato, il Dio dei cristiani viene messo fuorilegge. Le croci, le immagini, le feste e tutti gli oggetti devozionali, vengono fatti scomparire. Il Cristianesimo è bandito.

Il 2° fattore che ha scatenato la reazione popolare fu la decapitazione, il 21 gennaio 1793, di Luigi XVI di Borbone, re di Francia, oltre all'uomo moriva un'intera generazione del mondo e della vita. L'esecuzione fu intesa come un “deicidio” per alcuni, per altri come un sacrilegio.

Infine il 3° fattore che ha scatenato l'ira popolare, avviene nel marzo del 1793 quando la Convenzione di Parigi decreta il reclutamento di 300.000 uomini da inviare al fronte per la guerra che la Francia aveva dichiarato contro il re di Boemia e d'Ungheria. Iniziano le lunghe guerre rivoluzionarie della Francia. Alla fine questa leva obbligatoria ricade sui ceti deboli, i contadini.

Nell'Ancien Regime, la milizia in media ne reclutava 12.000 uomini, per un servizio locale. Pertanto, «i vandeani fedeli alla Chiesa cattolica, devoti al re e riottosi a combattere una guerra d'aggressione, dovendo per questo pure abbandonare le famiglie e i campi, non fecero attendere la propria reazione contro quella rivoluzione che il filosofo conservatore irlandese Edmund Burke descrisse come 'prodigio del sacrilegio'».

Tra il 10 e l'11 marzo l'intera Vandea insorge al suono a martello delle campane delle chiese, chiamano gli uomini alla battaglia. Insorgono gli umili, i contadini, non i nobili e il clero che tra l'altro erano stati spogliati dei loro privilegi. «I contadini, infatti, dovettero a lungo pregare i nobili affinchè si ponessero alla loro testa per guidarli in battaglia, forti della loro perizia e dell'istruzione militare appresa nelle scuole per ufficiali dell'Antico Regime». (Ibidem)

Ma non furono solo i nobili a guidare i vandeani anzi, molti erano appartenenti ai ceti più bassi, come Jaques Cathelineau, un venditore ambulante. Ben presto il simbolo dei contadini vandeani cucito sulle vesti diventa, un pezzo di stoffa bianca sulla quale è posto un cuore rosso sormontato da una croce, il Sacro Cuore di Cristo. Nasce così l'Armata cattolica e reale schierata contro i blues, i soldati della repubblica francese.

Cathelineau aveva ordinato di iniziare la marcia e la battaglia intonando con i suoi uomini, il “Vexilla Regis”, canto della tradizione liturgica cattolica, e poi alla fine delle battaglie, si ringrazia il Signore con il “Te Deum”. Cathelineau, per la sua pietà religiosa, era, soprannominato “le saint de l'Anjou”.

La guerra condotta dai vandeani al grido di battaglia, “Dieu et le Roil!”, ha alterne vicende, gli storici hanno individuato tre fasi, si passa da conquiste ad autentiche disfatte, come quella di Cholet, il 17 ottobre.

Tra i valorosi capi vandeani ricordiamo Lescure, Bonchamps, Charette, D'Elbee, Stofflet, Cadoudal, il giovane Henri de la Rochejaquelein. Tutti si sono distinti in battaglie contro le truppe, le cosiddette “Colonnes Infernales” dei vari generali Duval, Grignon, Boucret, Moulin, coordinati dal comandante in capo Lous-Marie Turreau, che voleva trasformare la Vandea in «cimitero nazionale».

Turreau verso la fine della guerra, poteva scrivere al Comitato di Salute Pubblica: «[...]entro quindici giorni non esisteranno più in Vandea né case, né viveri, né armi, né abitanti all'infuori di quelli che, nascosti nella profondità delle foreste, saranno riusciti a sfuggire alle più scrupolose perquisizioni».

Il generale Grignon si vantò, in rapporti militari ufficiali, dei risultati ottenuti dalla Colonne da lui capitanata, che uccideva quotidianamente «circa duemila fra vecchi, uomini, donne e bambini». Addirittura ad Angers le vittime furono scuoiate per farne delle culottes, dei pantaloni, per ufficiali. A Clisson, il 5 aprile del 1794, i soldati del generale Crouzat bruciarono circa 150 donne per estrarre del grasso con il quale ungere le ruote dei carri. Furono varate due leggi che prevedevano la distruzione totale della regione insorta e lo sterminio completo della popolazione. Ne faranno le spese soprattutto le donne, definite brutalmente “solchi riproduttori”, e i bambini, chiamati con disprezzo “futuri briganti”. Ogni mezzo venne impiegato per decimare gli insorti anche nediante il fracassamento delle teste con i calci dei fucili con le sciabole e le ghigliottine.

Tutte queste informazioni li documenta con dovizia di particolari lo storico francese Reynald Secher, con i suoi studi e ricerche ha portato a galla una storia che le istituzioni tenevano nascondere. Secher ha pubblicato per la casa editrice Effedieffe nel 1991, «Il genocidio vandeano», inoltre sempre con la stessa casa editrice, ha sponsorizzato la pubblicazione di «La guerra della Vandea e il sistema di spopolamento», testo inedito per decenni, scritto da Graccus Babeuf. Questo libro ha una storia rocambolesca, era stato ritirato dai termidoriani, poi era scomparso, sopravvissuto in otto esemplari, metà dei quali custoditi nell'ex Unione Sovietica dove gli studi su Babeuf hanno sempre goduto ottima salute.

Con questi studi Secher ha potuto «definire il massacro vandeano nei termini di un vero e proprio “genocidio”, in quanto azione premeditata e scientificamente realizzata: ne ha recuperato le prove documentarie, gli ordini di sterminio inviati a Parigi ( e conservati negli scrupolosi archivi storici militari francesi) nonché gli elenchi delle vittime nei registri parrocchiali». I mandanti furono la Convenzione e Maximilien Robespierre in persona. Lo storico francese è stato contestato dalla storiografia filo-rivoluzionaria, soprattutto non hanno accettato il termine “genocidio”. Infatti con la pubblicazione “Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé” (Il genocidio vandeano). La tesi del genocidio fece molto discutere perché per la prima volta uno storico affermava d’aver mostrato scientificamente un genocidio ad opera delle truppe regolari della repubblica francese a danno della popolazione della Vandea Militare. Per questa tesi ricevette molte critiche, perché sfatava il mito della Rivoluzione francese e di conseguenza rinnegava parte della storia di Francia. A causa di questa pubblicazione Secher venne espulso dall’università e gli fu impedito l’insegnamento pubblico. Secher oltre a portare numerosi documenti inoppugnabili, ha ripresentato il libello di Babeuf, un contemporaneo alle stragi vandeani, tra l'altro rivoluzionario e non cattolico, quindi un esponente certamente non reazionario, quindi non sospetto.

Purtroppo questi testi in Italia non hanno ancora avuto la dovuta diffusione, non hanno raggiunto la grande distribuzione, probabilmente sono rimasti circoscritti alla sola casa editrice Effedieffe che ha l'esclusiva.

Prima di concludere ricordo brevemente due di quei capi combattenti vandeani, approfondirò in un altro intervento. Tra le figure più significative c'è Jacques Cathelineau, conosciuto come il “Santo dell'Anjou”.

Jacques è un venditore ambulante, dopo che la Convenzione decreta l'arruolamento in massa dei cittadini francesi, insieme ai giovani contadini, artigiani e commercianti rifiuta di servire il regime rivoluzionario che li disprezza e li perseguita.

Così Cathelineau acclamato dal suo popolo sotto lo stendardo del Re del Cielo, cantando il Vexilla regis, si avvia verso la vittoria. C'è un discorso pronunciato da S. Em. Il cardinale Paul Poupard, del 18 luglio 1993, interamente pubblicato dalla rivista Cristianità. (n. 222 Ottobre 1993), dove il cardinale fa una splendida biografia dell'eroe vandeano.

Cathelineau è il soldato di Dio. Prima di combattere, fa mettere i propri uomini in ginocchio per chiedere, il soccorso del Dio degli eserciti, con la sua voce forte, chiara e trascinante, li lancia in combattimento al grido: «Soldati di Gesù Cristo, avanti! Con le baionette, le picche, i bastoni!».

Tutti i vandeani, sia i capi che i soldati, portavano sul cuore uno scapolare su cui erano le lettere iniziali dei santi nomi di Gesù e Maria, attorno a un cuore fiammeggiante. Moltissimi portavano il rosario.

Cathelineau comincia la guerra con la forza di un crociato, fu combattente come Giovanna d'Arco. «Dio ci ha chiesto di combattere perchè non avevamo altro mezzo per affermare la nostra fede. Ma non è certo che otterremo la pace religiosa con le armi. Il sangue che si versa per Dio non è mai perso. Con quello di Cristo serve alla redenzione del mondo».

L'altro capo vandeano tra i più conosciuti è il marchese Henri de la Rochejaquelein, probabilmente il simbolo della rivolta vandeana. E' un ragazzo ha vent'anni, lo troviamo a capo di oltre duemila persone, tutti giovani, dai 18 ai 25 anni. In Henri hanno scoperto questo giovane capo dall'anima di fuoco, alto ed abbondanti capelli biondo cenere. Ancora oggi dopo due secoli entusiasma ancora i giovani di tanti Paesi.

Henri oltre a far parte dell'Armata Cattolica e reale, che fu anche, grazie al giovane nobile, un'armata di giovani. Henri, attorniato da altri giovani comandanti, nei combattimenti è sempre in prima fila, esponendosi follemente, ha una bravura senza eguale, una audacia inaudita. Profondamente religioso, alla fine di ogni vittoria ringrazia Dio del successo. Ai suoi giovani combattenti diceva: «Compagni, io non vi chiedo che una cosa, di seguirmi. Là dove vi è del pericolo voi mi troverete sempre».

 

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