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In coincidenza con il centenario del Genocidio del popolo armeno, è stato pubblicato in lingua italiana il capolavoro di Henry Verneuil “MAYRIG“ (Edizioni Divinafollia), nel quale il noto regista e scrittore rievoca l’infanzia di un piccolo emigrato armeno, in una Marsiglia della prima metà del Novecento, che affascina il lettore per i colori che indossa, attraverso gli usi e costumi del suo quotidiano; uno spaccato socio-ambientale molto simile all’Oriente.

All’interno di questa famiglia, scampata al Genocidio Armeno, il Grande Male “Metz Yeghérn”, come gli armeni chiamano ed usano ricordare il terribile olocausto, la prima “pulizia etnica” del secolo scorso, si distingue la figura della madre: “mayrig” in lingua armena, un vocabolo onomatopeico dal suono dolcissimo. La storia e le vicissitudini dei componenti la famiglia, che passano mediante parole capaci di regalare vere e proprie immagini, fotogrammi di vita, per indurre il lettore ad opportune riflessioni sul perché di tanta efferata violenza. Il fatto più sconcertante è che l’umanità, ancora oggi, non abbia imparato a trarre alcuna lezione dagli esempi negativi appartenenti al nostro passato storico.

Letizia Leonardi, già giornalista professionista per alcune note testate, dopo aver visto trasmettere in televisione i due film “Mayrig” e “Quella strada chiamata Paradiso”per la regia di Verneuil , rimasta particolarmente colpita da questa storia molto toccante, della quale il sistema mediatico si è da sempre interessato in modo assolutamente marginale, ha deciso di cimentarsi in questa opera prima letteraria.

Dopo essersi dedicata ad un’attenta lettura del testo, ne ha curato la traduzione nei minimi particolari, utilizzando spesso vocaboli acuti, graffianti, che hanno conferito a questa bellissima ed intensa opera un tocco poetico difficile da dimenticare.

Maryg

Dal romanzo Mayrig di Henri Verneuil nel 1991 è stato tratto un film, ricco di immagini suggestive. Vorresti parlarmi del suo principale filo conduttore?

Si tratta della vera storia della famiglia dell’autore, (vero nome Achod Malakian), scampata al genocidio armeno ed emigrata a Marsiglia. Un racconto intimo che sottolinea le difficoltà economiche e psicologiche alle quali erano sottoposti i migranti. Quello che più colpisce è che questa famiglia, che nel loro paese di origine era agiata, ha saputo dimenticare il passato e affrontare una nuova vita difficile superando la nostalgia, ma con il sorriso sulle labbra e con la forza dell’amore. Nonostante l’ambiente ostile, queste persone erano comunque grate agli abitanti del Paese che le aveva accolte, dando loro la possibilità di ricominciare a vivere. Verneuil racconta la sua infanzia con gli occhi di bambino. Ritengo che l’autore con questo suo unico romanzo abbia voluto rendere un omaggio alla sua famiglia e in particolare alla sua mamma, donna dolce ma capace di affrontare le difficoltà senza perdersi d’animo. “Mayrig” ci fa capire che dietro le questioni politiche, economiche e geografiche, dietro la Storia con la esse maiuscola, ci sono persone con sentimenti e stati d’animo, che spesso sfuggono alla nostra attenzione.

Recentemente hai magistralmente curato la traduzione del libro dal francese. Un compito molto impegnativo, che ti ha investito di una certa responsabilità. Quanto tempo hai impiegato?

Ho iniziato a leggere “Mayrig” nella versione francese nel 2012. Man mano che mi immergevo nelle parole e nelle frasi di questo tenero e toccante libro, ho maturato l’idea di tradurlo in italiano. Non lavorandoci a tempo pieno, ho finito la traduzione all’inizio del 2014. Con questa crisi dell’editoria, è stata difficile la ricerca di una casa editrice disposta a pubblicarla. “Divinafollia-Ararat Edizioni” devo dire che ha subito accettato con entusiasmo questo mio progetto. Sono poi passati mesi per riuscire ad avere la liberatoria per la pubblicazione dalla casa editrice parigina “Robert Laffont”, che ha pubblicato la versione in francese nel 1985. Io, per l’anniversario del Genocidio armeno che ricorre proprio quest’anno, ho voluto dare il mio piccolo, ma ritengo importante contributo a questo popolo martoriato.

Questo libro rappresenta la biografia del talentuoso regista, sceneggiatore e produttore francese, di origine armena. Egli nacque in Turchia, ma in tenera età fu costretto a fuggire con la sua famiglia in Francia ed è venuto a mancare diversi anni fa; cosa puoi raccontarmi di lui?

Henry Verneuil, come dicevo prima, nome d’arte di Achod Malakian, è stato un grande patriota, molto stimato dalla sua gente. A volte mi chiedono perché il cognome Verneuil: è il cognome della sua seconda moglie Veronique Verneuil. “Mayrig”, sia come film, che come romanzo, in Italia non è molto conosciuto ma è molto sentito dagli armeni. Verneuil è stato un regista, commediografo e sceneggiatore di successo. Ha saputo affrontare diversi generi cinematografici. Ha diretto film western, thriller, rosa, avventura, spionaggio, commedia, film di guerra, ecc… Fino al film biografico nel 1991 “Mayrig” e il suo seguito nel 1992 “Quella strada chiamata Paradiso”, magistralmente interpretati da Claudia Cardinale e Omar Sharif. Solo una parentesi da scrittore, nel 1985, con appunto la pubblicazione del suo romanzo “Mayrig”. Nel 1996 ha vinto il “Premio César alla Carriera” ed è entrato a far parte dell'Accademia delle Belle Arti . Purtroppo è venuto a mancare nel 2002 a Parigi, a 81 anni, per un attacco di cuore lasciandoci però questa sorta di testamento spirituale, che è una parte della sua storia in un momento particolare della vita, condiviso con la sua famiglia.

Mayrig in lingua armena significa “madre”: quindi, un libro ricco di intensi ricordi legati all’infanzia. Un accorato racconto, che rappresenta appunto una sorta di testamento spirituale di Verneuil. Trasformare i contenuti di un romanzo in dialoghi adattati per un film non è impresa semplice. Ritieni che attraverso le scene il messaggio arrivi comunque forte e diretto allo spettatore?

Penso proprio di sì, anche perché a dirigere il film in due parti è stato lo stesso Henry Verneuil, che ha saputo pertanto rappresentare nel migliore dei modi la trasposizione scenica dei contenuti del suo romanzo. Elementi toccanti sono palpabili nel libro, come nei due film. Ci si emoziona e ci si commuove leggendo, come guardando le scene di “Mayrig” e “Quella strada chiamata Paradiso”. Direi che si nota che è la stessa mano quella che ha scritto e quella che ha battuto il ciak. Vorrei anche aggiungere che il sostantivo “Mayrig” viene utilizzata anche nell’accezione più affettuosa di “mammina”.

Pensi che il romanzo “Mayrig” sia stato in qualche modo oscurato dalla sua trasposizione cinematografica?

No, non credo. Il film aggiunge un seguito alla storia ma non ha oscurato il romanzo. “Mayrig” è stato pubblicato nel 1985 e i film, ai quali facevo riferimento prima, sono stati realizzati dopo alcuni anni. Inoltre, in Italia il film ha colpito al cuore chi è riuscito a vederlo, visto che non è mai uscito nelle sale cinematografiche, ma semplicemente mandato in onda dalla Rai, nelle fasce orarie di minor ascolto. Posso quindi dire che alle mie presentazioni mi capita spesso di incontrare persone che hanno visto il film e che ora sono contente di poter leggere il romanzo. Quindi, il film lo considero un valore aggiunto, tanto da utilizzarne alcuni spezzoni nelle mie presentazioni del libro.

La tua traduzione del libro è stata accurata, attenta alla semantica. La ricerca di aggettivi taglienti, diretti ha conferito al tuo lavoro una certa connotazione poetica, che si percepisce sin dalle prime pagine. Qualcuno prima di me ha fatto la stessa osservazione?

Sì, io per prima ho notato l’impronta poetica della versione originale in francese; pertanto, non ho fatto altro che cercare di essere più fedele possibile e di scrivere in italiano quello che Henri Verneuil aveva scritto in francese. Il complimento più gradito me lo ha fatto lo scrittore di origine armena Vasken Berberian a Torino, nel corso della presentazione di “Mayrig” al Salone Internazionale del Libro. Dopo aver letto la versione originale in francese e poi la mia in italiano, ha detto: “Penso che se Henri Verneuil avesse scritto il suo libro in italiano lo avrebbe sicuramente scritto come ha fatto Letizia Leonardi. Questo era proprio il mio intento.

Anche la descrizione della Francia agli inizi del XX° secolo risulta assolutamente efficace. Insomma, la saga di una famiglia, che riesce a scampare al Genocidio armeno, del quale quest’anno ricorre il centenario, raccontata attraverso la figura della matriarca. Vorresti descrivere il carattere della protagonista?

Stranamente in “Mayrig” io non ho percepito una predominanza netta della madre a scapito di tutti gli altri protagonisti della famiglia. È vero che l’autore pone l’attenzione sulla figura femminile della mamma, ma tutti gli altri protagonisti non ne risentono più di tanto. La “Mayrig” del romanzo è una donna dolce, che affronta il duro presente sempre con il sorriso sulle labbra, che non fa pesare al figlio le difficoltà economiche che si presentano giorno per giorno, che insegna la dignità a dispetto dell’arroganza. Una donna che ha puntato sull’integrazione del figlio nella nuova società di quel Paese straniero, senza tuttavia dimenticare le origini della propria terra. Per questo “Mayrig” è un romanzo che contiene molti spunti di riflessione, a prescindere dalla commovente e toccante storia.

In questo romanzo riconosci la combinazione narrativa di più generi?

Sicuramente sì. Direi che Verneuil, pur non essendo uno scrittore di professione, ha saputo fondere diversi generi narrativi con molta maestria. Giorgio Leonardi, che ha scritto la postfazione, ha individuato perfettamente tutti questi generi. Io mi trovo d’accordo con lui. “Mayrig” è infatti un romanzo- confessione poichè è un racconto intimo. È di formazione, poiché racconta le esperienze vissute dal protagonista, prove anche umilianti. È familiare, in quanto racconta la storia vera della famiglia, i loro rapporti. È autobiografia, racconto morale e cronaca dal momento che, a parte la storia di questa famiglia, si fa riferimento ad un terribile massacro, quale è stato il Genocidio del popolo armeno.

Particolarmente toccante è la descrizione che l’autore fa di se stesso in età matura, dove, al di fuori di schemi retorici, riesce a rappresentare con un’espressione narrativa assolutamente originale, tutte le sue umane debolezze nel momento in cui assiste la madre, nei suoi ultimi momenti di vita. La scomparsa di quello che, per definizione, rappresenta l’affetto di riferimento, lo conduce naturalmente ad un bilancio esistenziale?

Sì, senza dubbio. Essendo un romanzo che implica un racconto a posteriori, è normale che si percepisca la consapevolezza di un uomo maturo che fa un bilancio della sua esistenza. Tuttavia, questo bilancio è fatto in modo peculiare, poichè troviamo un uomo ormai adulto, che si trova in un momento particolarmente triste della propria vita, in cui racconta ciò che percepiva quando era un bambino e tutto questo non in modo banale, ma con la sensibilità e l’esperienza di un uomo forgiato dagli anni e stretto nella morsa del dolore per la perdita imminente della sua Mayrig (madre)…

Il libro “Mayrig” ha la prefazione curata dal famoso giornalista e scrittore Diego Cimara, di origine armena per parte materna; una persona da sempre attivamente impegnata per far luce sul Genocidio armeno. Come è avvenuto il vostro incontro?

Il mio incontro con Diego Cimara è avvenuto grazie alla questione armena. Io, dopo aver visto i film “Mayrig” e “Quella strada chiamata Paradiso,” sono rimasta molto colpita non solo dalla delicata storia di questa famiglia, ma da questo terribile massacro passato sotto silenzio. È stato così che, dopo aver appurato che non c’era la versione italiana del testo, ho fatto arrivare dalla Francia il libro in francese ed ho cominciato la traduzione di “Mayrig”; ma nel frattempo ho anche iniziato a leggere altri libri che parlavano di Armenia e del Genocidio. Il libro “Il Genocidio Armeno” di Diego Cimara mi è capitato tra le mani, l’ho letto e gli ho parlato della mia traduzione e lui, molto gentilmente, si è offerto di scrivermi la prefazione. Ho avuto modo di leggere anche il suo ultimo romanzo pubblicato da DivinaFollia-Ararat edizioni “AmarArmenia”, doppio legame quindi, sia per l’argomento che per la casa editrice.

Quali sono i tuoi programmi nell’immediato futuro?

I miei programmi sono quelli di promuovere il più possibile non solo il libro che ho tradotto, ma far conoscere questa pagina di storia completamente ignorata, che è il genocidio armeno. Nei prossimi mesi quindi continuerò a girare l’Italia. Ho debuttato a maggio scorso con la presentazione al Salone Internazionale del Libro di Torino e ho proseguito con incontri nei vari Comuni. Il Comune di Milano ha addirittura programmato la presentazione e il dibattito sul genocidio in 5 biblioteche ma devo dire che sono stati pochissimi i Comuni che non hanno mostrato interesse per questa iniziativa. Il Comune di Civitavecchia oltre ad avere organizzato un incontro-presentazione sul Genocidio armeno e su “Mayrig,” mi ha anche comunicato che, con l’inizio del prossimo anno scolastico, ha intenzione di predisporre degli incontri nelle scuole. Spero che anche altri Comuni prendano esempio perché sui libri di scuola si parla della prima guerra mondiale, ma non si fa cenno al massacro degli armeni, il primo genocidio del XX secolo.

maseroli la chiesa reggiana

In occasione del 70esimo anniversario della Liberazione, il mensile di apologetica cattolica Il Timone propone ai suoi lettori, un dossier accurato e coraggioso dove si affronta la storia dei tanti preti uccisi dai partigiani comunisti in odio alla fede sul finire della seconda guerra mondiale. Partendo dalla storia del beato Rolando Rivi, il giovane seminarista ucciso dai partigiani, il mensile racconta la storia degli oltre 80 preti uccisi in odio politico e religioso. Il Timone propone già nel titolo la beatificazione collettiva, “saranno i nostri martiri del triangolo della morte”.

Nel dossier di 12 pagine, l'operazione è trasparente: «Dei 150 preti uccisi dalla violenza rossa, nel clima di vendette e ritorsioni, un buon numero trovò la morte perché apertamente simpatizzante del Regime fascista e dunque compromesso, anche se un prete ucciso, da una parte o dall'altra, porta sempre dietro di sé un aberrante sacrilegio. Pochi cadono vittime di errori e vendette personali per questioni banali: eredità, prestiti etc...». «Ma c'è un numero – fa notare la rivista – che una ricerca storica degna di tal nome deve incaricarsi di definire in maniera scientifica e che attualmente si aggira sulle 70-80 unità che trova la morte in un contesto ideologico-politico».Tuttavia secondo la rivista, questi preti“furono uccisi perché tenacemente anticomunisti. Avevano capito che mentre si combatteva la guerra di Liberazione le formazioni marxiste stavano utilizzando quel vasto movimento insurrezionale in vista di un'imminente rivoluzione comunista. Si tratta per lo più di preti emiliani e friulani, uccisi perché dal pulpito condannavano non solo le aberrazioni della guerra, ma anche l'ideologia marxista che ispirava i princìpi di molte brigate partigiane”.

Il dossier si avvale di testimonianze di preti scampati ad agguati che erano finiti nella lista nera, come quella di don Raimondo Zanelli, oggi 85enne. Ma anche di documenti, tra cui lettere e diari, in cui viene mostrata la pianificazione strategica della caccia al prete da parte dei partigiani comunisti che non accettavano un disimpegno nella causa della Resistenza da parte di quei preti che non condividevano le impostazioni ideologiche delle Brigate Garibaldi.

A margine della proposta del Timone, credo che sia interessante leggere lo studio che ho trovato durante le mie escursioni” nella solita outlet milanese dei libri, si tratta del volume di 271 pagine, ben documentato di Rossana Maseroli Bertolotti, La Chiesa Reggiana. Tra Fascismo e Comunismo”, Edizioni “Il Girasole d’Oro” (Pavia 2001).

L’opera raccoglie la testimonianza di 28 preti, che hanno visto personalmente o che hanno raccolto le testimonianze di altri confratelli sui fatti tragici di guerra, in particolare dellaguerra civile intorno alla provincia di Reggio. Un’ampia documentazione accurata di preti superpartes, che sono stati all’altezza della situazione e della loro missione. A questo proposito don Raimondo Zanelli, scrive:“in un primo tempo hanno difeso i deboli e gli oppressi dal nazifascismo, ospitando nelle loro canoniche ebrei, inglesi, fuggiaschi (…)Poi negli ultimi mesi, di guerra, hanno aiutato coloro che sono stati perseguitati dalla violenza comunista”, don Zanelli, riporta le gesta del mite don Venerio Fontana, figura evangelicache accoglieva tutti nella sua canonica e trovava il cibo per tutti. Alla sorella che viveva nel terrore per le rappresaglie, ripeteva: “Facciamo il nostro dovere davanti a Dio…E’ inutile che tu sappia a memoria le opere di misericordia, se non dai da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, e se non alloggi i pellegrini…La Provvidenza ci aiuterà…”. Un po’ quello che sta predicando Papa Francesco. Il momento difficile lo descrive bene don Trento Bonini:“Si era in guerra, e la situazione era ovviamente difficile; l’ambiente in cui vivevo era fortemente politicizzato, e noi sacerdoti dovevamo barcamenarci come potevamo. Dovevamo, cioè, ascoltare molto e parlare poco, limitando la nostra opera a sostegno delle miserie fisiche e morali (…) Ho visto, purtroppo, violenze commesse da entrambe le parti belligeranti(…)”. Il peggio della guerra civile per don Trento è “il seguito della guerra civile”. Leggendo le schede del libro di Maseroli Bertolotti, si racconta dipreti, schierati con la resistenza, che erano a tutti gli effetti dei partigiani, ma che poi si son dovuti pentire, come don Battista Guidetti, che ha raccolto il cadavere ancora caldo del suo confratello, don Luigi Ilariucci, trucidato dai suoi amici partigiani. Scrive don Giudetti: “da quel momento ho capito che alcuni partigiani, più che liberare l’Italia dalla occupazione tedesca, pensavano ad instaurare un regime comunista nel quale i sacerdoti erano uno scomodo, inutile ‘optional”.

Trovo di notevoleimportanza la scheda proposta nel libro su don Flaminio Longagnani, classe 1906, il sacerdote, deceduto nel 1991, ha prodotto un vero e proprio Diario,“Cronache della Parrocchia di Melotele”, preziose e documentate fonti che si trovano nella Curia Vescovile di Reggio Emilia. Qui si tratteggiano episodi caratterizzati da violenze dall’una e dall’altra parte, esecuzioni sommarie, epurazioni, commessi dai fascisti e dai comunisti, racconti ben dettagliati, “la popolazione viveva tra due fuochi…occorreva favorire gli uni e far piacere agli altri…la vita era diventata impossibile…”.

Stimolante la descrizione che fa il sacerdote dell’opera di scristianizzazione dei comunisti anticlericali nell’anno 1946. “I comunisti, pure dichiarandosi cristiani e cattolici per meglio accalappiare il povero popolo che ancora sente la sua Fede, vanno svolgendo una spaventosa opera di scristianizzazione con ogni mezzo, soprattutto gettando la loro bava contro il Clero, i Vescovi e il Papa, memori che ‘percosso il Pastore, viene disperso il gregge’”.

Le schede che presenta il libro sono tutte interessanti, termino facendo riferimento alla fierezza del novello arcivescovo di Reggio Emilia, monsignor Beniamino Socche, l’alfiere della lotta al comunismo. Il prelato era consapevole dopo l’uccisone di don Pessina, che “l’atteggiamento di violenza dei comunisti era più intenso di quello esercitato dai fascisti (…)il fascismo reggiano non ha ucciso preti in tempi di pace, il comunismo sì”. Monsignor Socche era stanco di vedersi ammazzare i Sacerdoti. “I nazifascisti avevano ucciso don Borghi, don Donadelli e don Pigozzi, nell’arco dei venti anni; i comunisti, in pochi mesi, avevano ‘fatto fuori’ don Iemmi, don Ilariucci, don Terenziani, don Corsi, don Mattioli, don Manfredi, don Pessina…”

Secondo uno studio eseguito dall’Azione Cattolica nel 1963, dovrebbero essere ben trecento i sacerdoti assassinati dal 1940 al 1946, l’ultimo fu don Umberto Pessina, ucciso da ex partigiani comunisti a Reggio Emilia, in località San Martino di Correggio, il 18 giugno 1946.

Luca Taldini nell’introduzione al testo di Maseroli Bertolotti dopo aver fatto l’elenco dei 12 religiosi uccisi nella provincia di Reggio Emilia: “Otto sacerdoti ed un seminarista dai partigiani comunisti, due sacerdoti dalle forze armate tedesche, ed un altro dai soldati della RSI”.Denuncia il silenzio omertoso delle istituzioni che ancora oggi sono incapaci “ad affrontare la vicenda dei sacerdoti uccisi dai partigiani, anche solo dal punto strettamente oggettivo di citare il fatto storico, permane fra i più giovani storici della Resistenza reggiana”. Mentre si festeggia con tanta enfasi il 70esimo della Liberazione non possiamo dimenticare queste uccisioni di sacerdoti. Infatti non è un caso che questi drammatici fatti storici ancora oggi trovano spazio soltanto in piccole case editrici e non in quelle più grandi. Peraltro,rimangono isolati gli sforzi di qualche studioso della Resistenza dei cattolici, che hanno avuto l’onestà di chiedere il riconoscimento storico dell’esistenza di questi crimini. Al contrario, è consuetudine ricordare solo i sacerdoti vittime della violenza fascista e tedesca. Nel dopoguerra, tranne monsignor Socche e due giornalisti, un partigiano delle Fiamme verdi, Giorgio Morelli, e monsignor Wilson Pignagnoli hanno osato sfidare il silenzio imposto dall’egemonia comunista. Morelli per questo suo impegno venne fatto oggetto di un agguato e morì per le conseguenze dello sparo poco tempo dopo. Anche lui un martire del Triangolo rosso.

 

La copertina della biografia in uscita

Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi sull’operato dei vertici della Chiesa durante la Seconda Guerra Mondiale in favore dei perseguitati – anche e soprattutto ebrei – la vicenda ai più ancora sconosciuta dell’archeologa tedesca Hermine Speier (1898-1989), raccontata ora per il grande pubblico dalla giornalista Gudrun Sailer in un volume in uscita per le edizioni Aschendorff di Münster in collaborazione con l’università di Friburgo che raccoglie e sintetizza le oltre 3000 lettere del suo ricchissimo epistolario (cfr. G. Sailer, Monsignorina. Die deutsche Jüdin Hermine Speier im Vatikan [Monsignorina. L'ebrea tedesca Hermine Speier in Vaticano], Pp. 384, Euro 19,80, tutti i dettagli on-line sono disponibili qui: http://www.aschendorff-buchverlag.de/shop/product_info.php?info=p2313_Sailer--Gudrun-br----Monsignorina.html) contribuirà a fare finalmente luce su un periodo in assoluto tra i più discussi e controversi nella storia recente dei rapporti tra cattolicesimo ed ebraismo. Straniera ed ebrea trovatasi a dover affrontare all’improvviso un contesto sociale difficilissimo – l’Italia fascista degli anni Trenta, che la vedeva pubblicamente emarginata sia in quanto donna che in quanto ebrea – riuscì a mantenere nonostante tutto prima la propria indipendenza professionale e poi ad avere salva la vita proprio grazie alla Santa Sede e ai Pontefici che la guidarono in quegli anni: una storia incredibile, a tratti romanzesca, ma col lieto fine che – soprattutto alla luce delle periodiche polemiche spesso montate ad arte sul tema – merita assolutamente di essere raccontata. Nativa di Francoforte e allieva del grande Ludwig Curtius (1874-1954) all'università di Heidelberg, la Speier in giovinezza si avvicina ai circoli letterari del poeta Stefan George (1868-1933) dando prova già a suo tempo di una curiosità e di una vivacità intellettuale assolutamente fuori dal comune. Più tardi, dopo il conseguimento della laurea in archeologia e i primi lavori a Königsberg, si trasferisce in Italia, dove viene assunta dal Deutsches Archäologisches Institut (DAI), il noto istituto di ricerca archeologico germanico dipendente dal Ministero degli Affari Esteri tedesco fondato nel 1829 come centro di alta specializzazione ed eccellenza per gli studi sull’antichità classica. La presa del potere da parte di Adolf Hitler, però, anche a tanti chilometri di distanza, finirà per sconvolgere i piani della sua vita: già nel 1934, per il solo fatto di essere ebrea, perde il lavoro e si trova a dover ricominciare tutto da capo in una terra straniera. D'altra parte in Germania non può tornare perché in Patria per quelli col suo sangue non c'è più posto.

E' allora che accade l'incredibile: grazie all'intermediazione di Curtius – nel frattempo anch'egli trasferitosi a Roma – viene presentata all'allora direttore dei musei vaticani Bartolomeo Nogara (1868-1954) e, con l'assenso di Papa Pio XI, trova riparo in Vaticano e assunta al servizio diretto dei musei papali nella nascente fototeca con l’obiettivo di costruire l’archivio fotografico della più celebre collezione d’arte antica del Papa. Ora, che sia proprio un'ebrea a prendersi cura della più grande collezione di tesori artistici della Chiesa sarebbe una notizia che già da sola farebbe piazza pulita di parecchi luoghi comuni – dal maschilismo all'antigiudaismo – che pure allora vengono riversati dai mass-media di mezzo mondo sul vertice istituzionale della Chiesa, ma la notizia non uscirà mai, in primis per tutelare la sicurezza della stessa Speier. Dopo Pio XI, quando con la promulgazione delle leggi razziali del fascismo (1938) la situazione diventerà piuttosto critica anche in Italia, per uno di quei paradossi della storia recente, sarà proprio Pio XII – il Papa a cui solitamente vengono imputati invece i maggiori silenzi sulla persecuzione ebraica – a confermare intatta la fiducia della Chiesa vero l'operato della Speier, salvandole di fatto la vita, mentre lei fisicamente riparerà presso la comunità di monache benedettine delle catacombe di Priscilla. Tutto questo oggi alla mentalità comune dice relativamente poco ma, come argomenta l'autobiografia della Sailer, assumersi una responsabilità del genere nell'Europa degli anni Trenta non era di certo facile: fino ad allora in Vaticano avevano lavorato in effetti diverse donne ma mai una straniera. La Speier fu così la prima donna straniera, oltre che ebrea, a lavorare sotto la cupola di San Pietro grazie all'interessamento e al supporto diretto di due Papi solitamente descritti dai manuali storici come tutt'altro che moderni: Papa Ratti e Papa Pacelli. L'altro dato poco noto è che – se la vicenda della Speier è esemplare per tutti questi motivi, e molti altri raccontati dettagliatamente nel libro – essa non fu l'unica di quegli anni, come dimostrano pure le ricerche più recenti di studiosi anche italiani citati nel volume quali tra gli altri gli storici Andrea Riccardi e Grazia Loparco. Nell'epoca di Pio XI infatti, la resistenza della Santa Sede alle ideologie totalitarie, oltre ai documenti espliciti (come l'enciclica antinazista Mit Brennender Sorge) si attuò proprio con una singolare “strategia di impiego professionale” tra le ‘sacre mura’ grazie alla quale trovarono salvezza non meno di “due o tre dozzine” di studiosi: accademici, intellettuali e ricercatori di vario tipo accolti in Vaticano con le tipologie di collaborazione più diverse, tra questi diversi “non ariani” per il Terzo Reich come pure “personaggi accusati di comunismo”, per non citare qui i casi italiani più celebri – oggi rimossi da molta stampa – come quello di Alcide De Gasperi (1881-1954), il futuro Presidente del Consiglio, che negli anni della guerra trovò ospitalità proprio presso la Biblioteca Vaticana.

L'espressione tipica utilizzata per giustificare questi rapporti nei documenti ufficiali era: “collaboratore scientifico” (“wissenschaftliche Mitarbeiter”), perlopiù svolgevano la loro attività nella Biblioteca Vaticana e tutti venivano comunque dotati di un documento d'identità vaticano che li avrebbe tutelati nel caso di fermo o arresto delle autorità italiane. Più tardi, negli anni della guerra (1940-1945) - stando agli ultimi documenti emersi - gli ebrei complessivamente salvati solo a Roma dall'azione della Chiesa perché ospitati segretamente all’interno di conventi, case, strutture religiose o parrocchie arriveranno a superare quota 5.000 mentre nella speciale ‘enclave tedesca’ presso il Campo Santo Teutonico, direttamente all'interno del Vaticano, troveranno rifugio un'altra cinquantina di persone comprese diverse famiglie – ebree e non – con i loro bambini. Un discorso a parte riguarderebbe infine la rete clandestina di espatrio, pure accennata da Sailer, che ad esempio vide ancora Pio XII perorare ripetutamente la richiesta di 3000 visti per il Brasile come lasciapassare per altrettanti ebrei in pericolo di morte, richiesta a cui però le autorità sudamericane risposero molto tardi e soddisfacendola solo in piccola parte, accogliendo solo 1/3 delle domande.

Tornando alla Speier, che negli stessi anni visse anche una coinvolgente storia d’amore con il generale Umberto Nobile ((1885-1978), il celebre esploratore, più tardi esponente politico eletto all’Assemblea Costituente, che – pioniere – compì in dirigibile per due volte la trasvolata del Polo Nord (nel 1926 e 1928)), ancorché non coronata da matrimonio, la sua vicenda umana ebbe comunque un lieto fine: non solo infatti si salvò, ma dopo undici anni in Italia si convertì al cattolicesimo ricevendo il battesimo, oramai quasi 41enne. Una scelta sincera e tutt'altro che facile da comprendere, soprattutto per la sua famiglia di origine, da cui tuttavia non recedette mai, diventando anzi a sua volta una testimone convinta. Lavorò nei musei vaticani fino al 1967, l'anno in cui raggiunse la pensione, rifiutando deliberatamente - per gratitudine a quella Chiesa che di fatto l'aveva salvata - un'offerta professionale ritagliatale su misura presso l'Istituto Archeologico tedesco dove avrebbe guadagnato almeno tre volte tanto: “Credo che quando si diventa, in un modo peraltro eccezionale come il mio, una 'serva Sancti Petri' ['una persona al servizio del Papa', in latino nel testo], non si possa andare via”. Si deve a lei, tra le altre cose, l’ultima monumentale edizione dell’“Helbig”, come viene sinteticamente chiamato il manuale di studi archeologici sulla romanità classica – giunto alla quarta edizione – tra i più diffusi al mondo che prende il nome dall’omonimo archeologo di Dresda, Wolfgang Helbig (1839-1915), il quale per primo lo ideò, ma la cui ultima versione – in quattro corposi volumi – vide la luce proprio grazie alla curatela durata quasi dieci anni che portò a termine poco prima di morire la stessa Speier con alcuni stretti collaboratori (il titolo completo dell’opera in tedesco è: Führer durch die őffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom [Guida alle collezioni pubbliche dell’antichità classica di Roma]).

 

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