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Dietro il Dj Fabo un disegno dalle chiare intenzioni

Sono giorni che il dibattito sull’eutanasia è tornato ad invadere, anche con metodi un po’ da bulletti da parte di qualcuno, la scena pubblica. E sono giorni che la stampa dà in pasto ai lettori ‒ che invece vorrebbero leggere i giornali per conoscere la verità ‒ una storia ingannevole, piena di imprecisioni, infiocchettata da un’emotività vigliacca, che esclude una visione del reale ragionata.

Fabiano Antoniani, diventato noto come dj Fabo, nel 2014, in seguito ad un incidente stradale divenne cieco e tetraplegico. Lunedì 27 febbraio è stato aiutato a suicidarsi in una clinica Svizzera dall’associazione ‘Dignitas’. Era diventato, e lo è anche adesso che è morto, volto della campagna pro eutanasia dell’associazione Luca Coscioni.

 “Dj Fabo” non era un paziente terminale. Nessuno osa mettere in dubbio le sofferenze fisiche, e psicologiche, che lo hanno accompagnato per qualche anno, ma la malattia e l’accanimento terapeutico non c’entravano affatto col suo stato.

Non era in stato vegetativo, o comunque in una condizione per cui non fosse in grado di dare il proprio consenso, per la quale si vorrebbe l’esistenza di un testamento biologico. Quella che in gergo tecnico è definita “dichiarazione di volontà anticipata”. 

Si è detto fino alla nausea, con la retorica tipica di chi sa imbastire ad arte luoghi comuni per sentirsi accettato in questa società, che è stato costretto ad andare a morire in Svizzera perché la politica nostrana è lenta e non ha ancora approvato la legge sul testamento biologico. Ma non è così. Dj Fabo era un disabile grave, che ha chiesto e ottenuto di essere ucciso o aiutato a uccidersi. Nel suo caso si parla di “suicidio assistito” o “eutanasia attiva”, atti vietati dalla nostra legge e da quelle di quasi tutti i paesi europei. Atti che sarebbero vietati anche se fosse già vigente una legge sul testamento biologico.

La verità è che Fabiano Antoniani avrebbe potuto tranquillamente decidere di spegnersi nel suo letto, i giudici e la legge non avrebbero avuto nulla da ridire. La scelta di andare in Svizzera è figlia di una strategia mediatica curata nei minimi dettagli. Una manovra politicizzata, niente di più. 

Lunedì 27 febbraio non era una data casuale, ma lo stesso giorno in cui era stato messo in calendario dalla conferenza dei capigruppo della Camera dei Deputati l’inizio della discussione del disegno di legge sulle direttive anticipate e sul consenso informato (il Ddl sul biotestamento). Possibile che una morte che richiede – secondo la stessa associazione Dignitas nella cui clinica è morto dj Fabo, “per ogni singolo caso, un viaggio di questo genere, il colloquio con un medico, la redazione di una ricetta e il suicidio assistito è preceduto da un iter Dignitas che normalmente richiede fino a tre mesi, ma che può durare anche più a lungo; solo dopo questa procedura preparatoria, entro tre o quattro settimane, potrà aver luogo il suicidio assistito”‒ un così lungo iter, sia avvenuta proprio in quella data? 

Dj Fabo è morto alle 11:40 e neanche dieci minuti dopo – alle 11:48 – Marco Cappato, via Twitter dava l’annuncio della morte, che, alle 11.55, era già il titolo di apertura di tutte le grandi testate e di tutti i telegiornali nazionali. 

Andare in Svizzera è stata una mossa tecnica. E lo ha confermato Maria Antonietta Coscioni nel salotto di La7 qualche giorno fa, “Fabo poteva percorrere la strada di Welby, una via italiana già percorsa con Pannella, la sospensione della respirazione artificiale”. Insomma, per morire avrebbe potuto rinunciare a idratazione e alimentazione artificiali. Messaggio che Cappato ha provato a tamponare gridando “non è vero”, ma la Coscioni ha incalzato, “non fa differenza se morire in un giorno o in poche ore. È l’impatto che abbiamo voluto dare”. Quindi, tra andare in Svizzera o scegliere di abbandonare le cure, si tratta di misure che si sovrappongono, la differenza è “l’impatto”. Anche perché qualunque legge che preveda la “desistenza terapeutica” è eutanasica. 

Poche battute, forse non studiate a tavolino, e la drammatizzazione è iniziata subito a scricchiolare. Sono emerse, infatti, le chiare intenzioni: puntare all’impossibilità di morire in Italia legalmente, per ottenere un testo il più presto possibile. 

E allora si è ripiegato sullo strazio che avrebbe comportato interrompere le terapie. Però quando lo ottennero per Eluana Englaro nessuno si preoccupò della sofferenza ulteriore che le fu inflitta. È sconcertante il racconto di morte e il desiderio di scappare dalla vita a cui ci stanno sottoponendo. Sconcertante soprattutto al cospetto e agli occhi di chi versa in condizioni anche peggiori di quelle che erano di Fabiano, e che non cerca per sé un termine alla vita. Ma il cui coraggio non viene celebrato.  

Si pensa che l’autodeterminazione sia un bene in sé, e per questo è lo stendardo per giustificare eutanasia et similia. “Autodeterminarsi”, per dirla in breve, è l’azione quotidiana che consiste nello scegliere o meno di fare qualcosa. 

 Ma se la capacità di autodeterminarsi fosse davvero cosa buona e giusta a prescindere dall’azione preferita, allora sarebbe sana autodeterminazione anche scegliere di commettere uno stupro, abusare di un bambino, sniffare cocaina. In quale di questi casi sarebbe giusta la tolleranza dello Stato? Ma, anche qui: tollerare e cooperare per il male sono due concetti diversi. Giustificare ogni cosa con l’“autodeterminazione” è un modo come un altro per dire che vale tutto, e quindi non c’è niente che vale.

Offrire una pace illusoria che ha come corollario la fuga dalle responsabilità a cosa porterà?

Per quel che riguarda il biotestamento, invece, l’obiettivo è renderlo presto legale, con l’aiuto, magari, di qualche sentenza “creativa” della magistratura. Così che la sua formula nuda, dura e pura sia codificata: morte per tutti come e quando si vuole.

Eppure negli angoli di mondo dove regna la “civiltà al passo con i tempi”, non sembrano passarsela troppo bene.

Per esempio nel “civilissimo” Canada l’eutanasia è legale da appena otto mesi, ma secondo l’Associazione dei medici canadesi sono in tanti ad averla praticata e a non voler più ripetere l’“esperienza”. 

In Canada c’è una legge iper permissiva e secondo Jeff Blackmer, vicepresidente di Cma, “molti dottori dopo una prima esperienza con l’eutanasia non se la sentono più di rifarla perché la considerano travolgente, troppo difficile. Ci sono quelli che dicono: ‘Non posso più farlo’”.

Per molti altri, invece, il problema è di natura pratica: la legge è talmente vaga che temono di andare troppo oltre, procurando la morte a chi non ne avrebbe “diritto”. In Quebec, dopo i primi otto mesi, la commissione di controllo ha riscontrato ventuno violazioni della legge su ducentosessantadue casi di eutanasia. Ma finora nel mondo, a fronte di diverse violazioni anche al di fuori del Canada, non è mai stato condannato nessuno. Com’è strana la magistratura.

In Ontario sono rimasti centosette i medici disposti a praticare l’eutanasia. Altri trenta sono disponibili solo a dare un secondo parere, ma non a somministrare la letale iniezione. E a neanche un anno dall’entrata in vigore della legge, si riscontrano anche effetti perversi. La scorsa settimana un uomo di Montreal è stato denunciato per omicidio volontario dopo l’uccisione della moglie sessantenne affetta da Alzheimer. L’uomo aveva chiesto che potesse essere uccisa con l’eutanasia, ma i medici, riscontrando l’assenza delle condizioni necessarie, avevano respinto la domanda. Quando si entra nell’ordine di idee che va ben tutto ...

Si può essere più alla moda di tutti in fatto di ‘diritti’, ma nel cuore dell’uomo non si potrà mai cancellare la certezza che l’eutanasia è un omicidio con pseudonimo. 

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