Il massacro subìto dal popolo armeno nel 1915-1916, oltre ad essere il preludio di quel ‘secolo dei genocidi’ efferati che è stato il Novecento, resta una ferita aperta nel cuore della memoria storica più recente del Cristianesimo, per questo lasua commemorazione– dentro e fuori la Chiesa – non deve andare perduta: è il messaggio che arriva da Villa Malta, sede romana della rivista Civiltà Cattolica, nella serata dedicata alla tavola rotonda “1915-2015: A cento anni dal genocidio armeno”. Introdotto da padre Francesco Occhetta, componente del collegio degli scrittori del più importante e rappresentativo periodico gesuita nel mondo, l’incontro – svoltosi dinanzi a un folto pubblico che ha gremito le due sale a disposizione in ogni ordine disponibile di posti – ha visto la partecipazione di padre Georges Ruyssen, docente di diritto canonico presso il Pontificio Istituto Orientale, che nell’occasione ha presentato anche il quarto volume delle sue pluriennali ricerche in proposito (La questione armena (1908-1925), Lilamè, Roma 2014) e di padre Luciano Larivera, specialista sui temi di politica estera ed economia internazionale del medesimo collegio degli scrittori della rivista. Nel primo intervento della serata Ruyssen si è soffermato principalmente sulle testimonianze autografe che ha raccolto negli ultimi anni tra i numerosi documenti diplomatici conservati nell’Archivio Segreto Vaticano, nell’Archivio della Congregazione per le Chiese Orientali e nell’Archivio Storico della Segreteria di Stato: su tutte quella del frate cappuccino Norberto Hofer e del delegato apostolico a Costantinopoli monsignor Angelo Maria Dolci, in stretta corrispondenza con l’allora segretario di Stato vaticano Pietro Gasparri. E’ emerso così che – stando a quanto riferivano gli osservatori presenti in loco – del massacro (iniziato ufficialmente con l’arresto e la deportazione di centinaia di notabili armeni già nell’aprile del 1915) non si seppe praticamente nulla fino al luglio, quando la persecuzione iniziò ad assumere un carattere di configurazione sistematica e capillare su tutto il territorio. Da parte ottomana, infatti, si continuava superficialmente a sostenere che le feroci rappresaglie sulla popolazione armena erano solo la conseguenza degli attacchi che gli stessi gruppi indipendentisti armeni armati (i cosiddetti ‘Comitati rivoluzionari’) sferravano da anni contro il potere imperiale costituito e dunque, a loro modo, un’arma difensiva per tutelare l’integrità territoriale dell’impero. Che le cose non stessero affatto così e che quello ordito dal partito dei Giovani Turchi al governo intendeva essere invece un vero e proprio piano mirato di annientamento della minoranza armena (come attestato poi dall’ordine scritto che diede in tal senso Talaat Pascià, ministro dell’interno nel biennio 1915-1916) si seppe solo mesi più tardi e la Guerra Mondiale in corso non contribuì d’altra parte a facilitare il compito di chi avrebbe dovuto fare da mediatore. Nello specifico, sia l’impero austro-ungarico che quello tedesco, messi al corrente di quanto avveniva, si rivelaronodi fatto incapaci ad intervenire presso Costantinopoli,nonostante le preoccupate e reiterate denunce della Santa Sede in proposito. La voce di Papa Benedetto XV fu anzi allora l’unica ad alzarsi nel silenzio generale,e a volte oggettivamente complice,della comunità internazionale – gli storici oggi possono affermarlo senza tema di smentita – ma purtroppo non venne ascoltata. Il risultato fu un massacro – perpetrato tramite le marce forzate di uomini, donne e bambini senza fine nel deserto – dalle proporzioni immani: un milione e mezzo di vittime, di fatto il primo genocidio in ordine di tempo del XX secolo. Ruyssen ha fatto notare come nessuno sia scampato all’eccidio: la persecuzione colpì laici e religiosi (suore, diaconi e preti non esclusi i Vescovi), bambini e anziani, donne incinte e invalide. Il piano era quello di avere insomma una “Armenia senza armeni”, come qualcuno si espresse allora, con la conseguenza diretta della scomparsa del Cristianesimo che era presente in quella regione perlomeno fin dal III secolo. Si disse pure che anni più tardi lo stesso Hitler prendesse spunto da quel massacro dimenticato per incitare i suoi a quelli che sarebbero tragicamente seguiti, con la fatidica frase: “Se [in Europa, ndr] non si sono accorti degli armeni, figuriamoci degli ebrei”.
La seconda parte della serata ha visto invece l’intervento di Larivera che ha sottolineato come il termine ‘genocidio’ sia (anzitutto dal punto di vista giuridico internazionale) ancora adesso oggetto di un vivace dibattito tra gli studiosi della materia. Il riconoscimento del crimine di genocidio comporta infatti non solo il riconoscimento pubblico esplicito della propria responsabilità storica – qualcosa che per i governi delle Nazioni, compresa l’attuale Turchia, è sempre problematico per ovvie ragioni di contingenza, e convenienza, politico-elettorale – ma poi anche il relativo risarcimento alle famiglie delle vittime. Da questo punto di vista la ‘questione armena’ resta sicuramente ancora aperta, anche se va detto che il governo di Ankara già l’anno scorso ha fatto pervenire a firma dell’allora primo ministro (oggi Presidente della Repubblica) Recep Tayyip Erdogan – il 24 aprile, giorno di commemorazione nazionale del genocidio in Armenia–un messaggio di cordoglio relativamente ai fatti del 1915-1916. Quest’anno, poi, con il moltiplicarsi delle commemorazioni per il centenario potrebberegistrarsi un ulteriore avvicinamento ma molto dipenderà probabilmente anche dall’evoluzione della complicata situazione geopolitica dell’area che negli ultimi tempi ha visto una destabilizzazione crescente dei già precari equilibri di frontiera e la recrudescenza di nuove tensioni etniche tra i diversi attori presenti (basti pensare alla sempre viva questione curda, alla crescente espansione russa o al conteso Nagorno Karabakh). La speranza, tuttavia, è che i cento anni dal Metz Yeghèrn (ovvero ‘Grande Male’, come gli armeni definiscono nella loro lingua il genocidio) contribuiscano per una volta a mettere finalmente da parte revanscismi e spiriti di rivalsa lasciando spazio alla riflessione interculturale e a favorirein tutte le popolazioni dell’area una rinnovata consapevolezzadel valore e della dignità dell’altro indipendentemente dal credo o dall’appartenenza razziale: questo sì, ha concluso Larivera, sarebbe un segno di un felice progresso.