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Grecia e Turchia sono a un passo dallo scontro armato nel Mediterraneo orientale. Le loro navi da guerra si confrontano con i missili pronti al lancio al largo di Cipro e presso l'isola greca contesa di Kastellorizo, a 3 km dalla costa turca. Uno scontro figlio di antiche rivalità sull'orlo della deflagrazione. Da mesi il braccio di ferro tra i due Paesi membri della Nato si fa sempre più serrato. Oggetto del contendere: la definizione dei confini delle rispettive acque territoriali e dei diritti per lo sfruttamento di giacimenti sottomarini di gas e petrolio. Ma il punto di non ritorno sta diventando una tragica realtà. E a poco paiono servire gli sforzi di mediazione europei

"Noi riteniamo le sanzioni alla Turchia assolutamente necessarie". Lo ha detto il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias,durante le giornate di lavoro del Gymnich, in corso a Berlino di qualche giorno fa. "Contiamo sulla solidarietà europea", ha aggiunto ai giornalisti prima dell'avvio della ministeriale informale dei ministri degli Esteri, che si e occupata proprio della crisi del Mediterraneo orientale.

La percezione senza precedenti della Turchia, continua il Ministro Dendias,di poter minacciare i paesi vicini con l'uso di forza quando esercitano i loro diritti legittimi è contraria alla cultura politica moderna e ai principi fondamentali del diritto internazionale. Chiediamo alla Turchia che si renda conto che il diritto internazionale e i valori su cui è costruita la moderna internazionale ordine sono vincolanti per tutti i paesi del mondo. Non possono essere applicati selettivamente e la comunità internazionale è obbligata a proteggerli, poiché la loro violazione indica gravi pericoli", si legge in un comunicato del ministero degli Esteri greco.

Atene aggiunge nella sua dichiarazione che la Turchia è obbligata a rispettare l'articolo 2 (4) della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui tutti i membri dell'ONU devono astenersi dalle minaccie o dall'uso di forza.

Secondo gli analisti economici, la crisi economica pesa sui conti pubblici di Ankara dopo una stagione turistica disastrosa mentre la lira turca si indebolisce e la pazienza degli investitori internazionali si sta esaurendo. Così Erdogan ha deciso di alzare la posta contro la Grecia per distrarre l’opinione pubblica dalle vicende interne ed economiche.

Le bordate di Ankara hanno avuto l'effetto di far i partner di Atene in questa partita che qualcuno vorrebbe anticipare a prima delle elezioni americane: dopo Tel Aviv e Il Cairo, ecco l'accoppiata Parigi-Abu Dhabi schierarsi con la Grecia.

La Francia ha saputo dimostrare coerenza in politica estera e di Difesa ma anche amicizia nei confronti della Grecia, che altri alleati nella UE, non hanno dimostrato, mandando un forte segnale, mostrando la determinazione e la leadership di Parigi ai paesi che si affacciano sul Mediterraneo.  

E così Emmanuel Macron ha fatto partire per il Mediterraneo la portaerei Charles de Gaulle, accompagnata da fregate e sottomarini, e punta anche a vendere 18 caccia Rafale ad Atene. Gli Emirati Arabi Uniti dopo l'Accordo di pace con Israele che riveste un peso specifico anche per tutti i paesi a cavallo tra l'euromediterraneo e il Medio Oriente, intende rafforzare il dialogo con Atene: lo ha confermato al telefono al primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, lo sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario di Abu Dhabi e vice comandante supremo delle forze armate degli Emirati Arabi Uniti. Già ai tempi del lockdown Covid i due leader avevano avuto modi di interfacciarsi: gli Eau infatti avevano fornito assistenza medica alla Grecia, mentre nelle ultime settimane da Abu Dhabi sono giunti nell'Egeo i caccia F-16 per dare manforte all'Aeronautica greca contro le provocazioni turche  

Secondo Globalist, uno dei principali avversari di Ankara nel risiko del Mediterraneo orientale è senza dubbio il Cairo annota Pierluigi  Barberini in un documentato report per Affarinternazionali.it -. Nel corso degli ultimi anni le relazioni tra Turchia ed Egitto si sono progressivamente deteriorate, soprattutto da quando l'attuale presidente egiziano al Sisi prese il potere nel 2013 con un colpo di stato militare, rovesciando l’allora presidente ed esponente dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, politicamente vicino ad Ankara. La partita tra quest'ultima ed il Cairo non presenta solo caratteri ideologici, importanti ma secondari nel calcolo complessivo.

La posta in palio scrive Umberto De Giovannangeli sul globalist,consiste da un lato nella leadership del mondo musulmano a livello regionale e mediorientale, e dall’altro nell’estendere la propria influenza e nell’affermare i propri interessi sui principali dossier in gioco. Questi ultimi spaziano dalla partita sui giacimenti di idrocarburi scoperti nella Zee egiziana e di altri Stati adiacenti, fino alla guerra per procura in Libia, dove Turchia ed Egitto sostengono due schieramenti contrapposti (rispettivamente al-Sarraj la prima, Haftar il secondo). La forte condanna egiziana dell'intesa turco-libica e le minacce di un possibile intervento militare diretto nel conflitto testimoniano la centralità della posta in gioco anche per il Cairo, e in generale la grande valenza geopolitica delle dinamiche in corso nel Mediterraneo orientale”.

L'Italia non ha mosso un dito, continua globalist, forse intimidita dal “bullismo” turco in grado, ora che Erdogan ha l’egemonia in Tripolitania, di ricattare Roma minacciando di colpire gli interessi italiani in Libia. In Libia, l’Italia continua a essere visibilmente schierata (pur facendo ben poco sul campo) dalla stessa parte di Turchia, Qatar, Fratellanza Musulmana. Sul fronte opposto Francia, Egitto, Arabia Saudita e EAU, oltre alla Russia. Roma rischia di venire percepita ormai irrimediabilmente come assente e passiva su tutti i “dossier caldi” in quello in che una volta era il “Mare Nostrum”, dove oggi sembra aver abdicato a qualsiasi ruolo di rilievo.

l'atteggiamento turco allarma non solo l'UE ma anche la leadership degli Stati Uniti. All'inizio del 2019, Washington ha revocato l'embargo sulle armi a Cipro e ha inoltre concluso un trattato sullo spiegamento di basi militari, la modernizzazione degli aerei da combattimento F-16 e l'acquisto di nuovi jet F-35.

In risposta, la Turchia ha continuato ad aumentare la sua potenza militare nella regione. Ciò è dimostrato dall’adozione della nave d'assalto anfibia multiuso “Anadolu” per il servizio nel 2020 e la progettazione di sei sottomarini di tipo 214. Allo stesso tempo, Ankara ha istituito una base militare sul territorio della Repubblica turca di Cipro del Nord, dove vengono dispiegati gli ultimi UAV turchi “Bayraktar”.

Come confermano i più importanti analisti internazionali, il sogno e la determinazione turchi di appropriarsi delle acque comprese tra Creta, l’Anatolia e Cipro non svanirà quando il presidente non sarà più Erdogan. Ma se gli Stati Uniti indulgesse ulteriormente nel sostegno aprioristico ad Atene, Ankara uscirebbe definitivamente dall'orbita occidentale.

Come riferisce Globalist, annota Franco Palmas su Avvenire: “Erdogan ha gioco facile. Ha tessuto una trama circolare, quasi una tenaglia, avviluppando i potenziali nemici in una rete di basi navali, dal Corno d'Africa a Misurata, in Libia. Con il governo di Tripoli ha siglato un'intesa sulle zone economiche esclusive, dal potenziale esplosivo. L'accordo ha esteso la piattaforma turco mediterranea a 200 miglia nautiche, contro le 12 previste dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e le 6 relative al mar Egeo. Con Ankara esiste un ‘mega-problema’ a tratti irriducibile. La Turchia disconosce la Convenzione e, di conseguenza, non è possibile adire il Tribunale internazionale sul diritto del mare. La sua intesa con Tripoli è gravida di conseguenze, perché priva Atene di ampi spazi di mare, aperti a sud di Creta a promettenti ricerche energetiche; in seconda battuta, separa la Grecia da Cipro e, terzo, taglia in due il Mediterraneo, creando problemi geopolitici sulla libertà di navigazione e la posa di gasdotti fra Israele, Cipro, Grecia e l'Italia.

La tensione tra Grecia e Turchia coinvolge due partner della Nato e "questo non può lasciarci freddi". Lo ha detto Angela Merkel, affermando di aver "parlato molto intensamente" con Emmanuel Macron circa la situazione attuale. Merkel ha ricordato che la Germania "si è molto impegnata per evitare un'escalation".

 

 

 

 

 

 

 

Doveva essere il futuro dell'Unione Europea, il ponte fra oriente e occidente, il primo Paese musulmano, ma laico, a entrare nel cloud di Bruxelles. E invece la Turchia si è trasformata nell’incubo peggiore non solo delle cancellerie europee, ma di mezzo Mediterraneo.

Erdogan ha minacciato la Grecia che, a differenza di Ankara agisce sotto il cappello del diritto internazionale: «Eviti errori che la porterebbero sulla strada della rovina. Se la Grecia vuole pagare un prezzo, che venga ad affrontarci. Se non ne hanno il coraggio, si tolgano di mezzo». Parole dure, di chi vuole cercare più il casus belli che un compromesso, che servono anche per solleticare l’elettorato più nazionalista, ma che rappresentano una minaccia concreta per tutti noi.

Erdogan ha messo in guardia oltre Atene anche Parigi dai tentativi di impedire alla Turchia di continuare le sue attività di rilevamento sismico per localizzare e identificare le fonti di petrolio e gas nel Mediterraneo orientale, sottolineando che Ankara è "determinata a pagare qualsiasi prezzo" per difendere i suoi interessi nazionali e sovrani. Il presidente turco ha affermato che i cittadini della Grecia e della Francia non sono pronti a pagare il prezzo pesante per le azioni dei loro governi.

Così tra Grecia e Turchia è di nuovo crisi. Oltre al nodo migranti, nelle ultime settimane le tensioni tra i due Paesi si sono fatte sentire nelle acque del Mediterraneo orientale. Alla base dell’escalation c’è soprattutto una grossa rivalità per le risorse energetiche. Ma non solo...oggetto del contendere sono i fondali di questo Egeo gran bleu e gran caos di idrocarburi e gas. Il problema sono i limiti delle acque territoriali e le EEZ - zone di commercio esclusivo fra Paesi.

A iniziare la partita è stata la Turchia: Recep Tayyip Erdogan pregava nella neo riconquistata Santa Sofia, mentre il suo governo trasmetteva un perentorio e spiccio Navtex: «Salpiamo alla ricerca di gas per salvaguardare la nostra indipendenza energetica». La Grecia non ha gradito, ha chiamato in causa l'Unione europea, consultando, prima, il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, poi accettando la mediazione, per ora fallita, di Angela Merkel e minacciando, quindi, di rivolgersi al tribunale dell'Aia: «La più piccola scintilla può tramutarsi in disastro».

La Turchia ha perseguito un’azione definita aggressiva di esplorazione del gas, “scontrandosi”, metaforicamente parlando, con navi greche rivali. Un terzo paese Nato, la Francia, è stato coinvolto, schierandosi con i greci. Più recentemente è stato anche annunciato che un piccolo numero di aerei da guerra F-16 degli Emirati Arabi si sta schierando in una base aerea a Creta per esercitazioni con le controparti greche.

Erdogan mina la pace nel Mediterraneo e l'esistenza stessa della UE evocando pagine di storia, conflitti e relative sofferenze che l’Europa credeva superate. Purtroppo non è così. Per Erdogan la partita con l’Occidente non si è chiusa e nel 2023, anni in cui verrà ridiscusso il Trattato di Losanna, rivendicherà come turche isole che appartengono alla Grecia. Utilizzando chiaramente il motivo nazionalista per coprire interessi energetici e commerciali. I prossimi tre anni quindi potrebbero portare alla fine della pace nel Mediterraneo. Se non sta attenta, anche a quella dell’Unione Europea.


Le Germania di Angela Merkel, sul cui territorio vivono oltre tre milioni di turchi, è quella più spaventata all'idea di un muro contro muro con il presidente, che potrebbe anche portare a disordini interni. Ci sono poi Paesi come l'Italia che, sbagliando, pensano si possa trattare la Turchia come partner. Il problema è proprio questo: Erdogan fa il partner solo con se stesso e con il suo disegno. Tanto più ora che può contare su un'arma potentissima come quella dei migranti.

Dall'altra parte c’è un’Europa che appare debole impotente, pronta a subire i ricatti di un Erdogan che non ha alcuna intenzione di fermarsi e che si placherà solo quando avrà la certezza di potere, lui, da solo, con un Paese da media potenza, controllare una delle istituzioni più importanti nate dopo la guerra.

Non è la prima volta che Grecia e Turchia si trovano in conflitto per il controllo del mar Mediterraneo orientale. La disputa più lunga e importante è quella per l'isola di Cipro, che ancora oggi è divisa tra la Repubblica di Cipro, di influenza greca e riconosciuto a livello internazionale, e la Repubblica turca di Cipro del Nord, che è riconosciuta soltanto dalla Turchia. Il fatto che la Turchia rivendichi l'esistenza di uno stato che non è riconosciuto da nessuno crea ulteriori complicazioni nel risolvere le dispute legali attorno allo sfruttamento delle risorse dell’area.

Per esempio lo scorso anno, il vicepresidente turco, Farou Oktay, aveva detto che la Turchia e la Repubblica di Cipro del Nord non potevano essere «escluse dall’equazione delle risorse energetiche nella regione» e che conducevano attività di ricerca ed estrazione nella legittimità del diritto internazionale.

Come ha raccontato su The Conversation Clemens Hoffmann, esperto di Medio Oriente, la Turchia sostiene che la sua posizione nel Mediterraneo orientale sia di tipo difensivo; tuttavia diversi analisti pensano che non sia così, che le politiche turche abbiano spinte espansionistiche, che si ricollegherebbero all'idea di “Mavi vatan” (Patria blu), ovvero l’ambizione della Turchia di ottenere la supremazia sul Mediterraneo orientale. In più, le zone esclusive rivendicate nell'accordo tra Turchia e Libia non tengono in considerazione gli effetti sull’isola greca di Creta, che si trova nel mezzo della zona reclamata dalla Turchia.

Come ha chiarito l’ISPI, inoltre, la Turchia ritiene che parte del territorio marittimo di Cipro, in particolare quello attorno a Cipro del Nord, sia inclusa nelle proprie zone economiche esclusive: il governo turco pertanto non riconosce i contratti siglati dal governo di Cipro con le compagnie energetiche relativamente a queste aree e starebbe anzi pensando di intensificare le proprie ispezioni per ricominciare a trivellare.

La Turchia è diventata un problema a partire almeno dal 2009, cioè da quando Ankara ha inaugurato una politica estera sempre più aggressiva, è andato in crescendo. La brutta notizia, per tutti, è che questo problema continuerà a persistere per molti anni, facendoci attraversare crisi e tensioni sempre più grosse. La Ue per il momento, complice una cordata di Paesi, fra cui l'Italia, ha deciso di non procedere con sanzioni per contenere le mire egemoniche, sempre più avide e arroganti, del Presidente Recep Tayyip Erdogan e questo è un grosso errore, per due motivi. Il primo è che la Ue sta dando un'impressione di debolezza e mancanza di coesione che per il capo di Stato di Ankara è la maggiore garanzia del suo successo. In secondo luogo, e questa è la cosa più importante, è che la Turchia non ha alcuna intenzione di accontentarsi e ingloberà voracemente tutte le posizioni che la Ue lascerà vacanti. Ne dovrebbe sapere qualcosa proprio l’Italia, vista la progressiva diminuzione della sua influenza in Libia, Albania e Somalia. Tutti luoghi dove la presenza turca è preponderante.

Il punto, è che in un futuro non troppo remoto, cercare di contenere questo Paese, che è anche membro della Nato, ma firma serenamente accordi di forniture Militari con i russi, le sole sanzioni potrebbero non bastare più. La verità è che Erdogan in testa ha un piano molto chiaro e pensa di poterlo portare avanti perché ormai considera la Ue prova di ogni credibilità e capacità di azione collettiva.

Il presidente Turco, mira a governare mari che si riveleranno sempre più chiave nel futuro. La presenza massiccia in Libia, Somalia, Sudan e Qatar serve proprio a controllare un immenso corridoio blu che dal mediterraneo, dal Mar Rosso, dal Golfo Persico sfocia nel mare Arabico. Alle sue spalle, può contare sull'appoggio economico del Qatar, con la Turchia altro Paese legato ai Fratelli Musulmani.

L’Ue rischia di trovarsi letteralmente schiacciata sotto il peso di un Paese che ha assunto una apparente consistenza in rapidissimo tempo e che viene ricattata da un presidente che vuole influenzare non solo le scelte politiche di Bruxelles a suo favore, ma anche i milioni di musulmani che abitano sul territorio della Ue e che vedono in Erdogan un leader.

 

 

 

Una forte esplosione è stata riportata nella serata di martedì nella zona del porto di Beirut, capitale del Libano. La causa esatta non è stata ancora accertata: imponenti i danni, sale tragicamente il computo delle vittime.

La terrificante esplosione al porto di Beirut vista dal mare: si alza un fungo di fumo alto chilometri come quello causato da ordigni nucleari. Fra le migliaia di feriti anche un soldato italiano del contingente Unifil.

L'esplosione è avvenuta intorno alle ore 18 locali, una colonna di fumo alta più di un centinaio di metri si è alzata verso il cielo della capitale libanese.
Secondo quanto riportato dall'emittente televisiva "Al Majadin" l'esplosione è avvenuta nel blocco 12 del porto, in un capannone dove è stoccato materiale pirotecnico altamente infiammabile.

I residenti locali hanno affermato sui social che l’esplosione è stata talmente forte che in alcune case le finestre sono state distrutte. Prima si è sentita tremare la terra e solo pochi secondi dopo il suono di una forte esplosione.

Incidente o attentato? È la domanda che sorge spontanea nel guardare le immagini della gigantesca esplosione che ha sconvolto martedì pomeriggio il cuore di Beirut. Un enorme fungo di fuoco e detriti ha investito l’area del porto, non distante dal centro storico ricostruito dopo la guerra degli anni Settanta e Ottanta che aveva ridotto in macerie larga parte della capitale libanese.

I sospetti si tratti di un attentato sono sostanziati dalle notizie — ancora confuse — che giungono circa quella che sembrerebbe essere stata una seconda esplosione, avvenuta dopo quella principale, al porto, nei pressi della residenza dell'ex premier sunnita Hariri. Alcuni video mostrano, al porto, due esplosioni molto vicine una all'altra.

Secondo le prime ricostruzioni non si tratta di un attacco terroristico.
In interi quartieri del centro praticamente nessun edificio è rimasto con i vetri intatti. Fonti riferiscono che nella zona di Mar Mikhael nell'alto edificio di Electricité du Liban, l'ente elettrico nazionale, sono rimasti intrappolati molti dipendenti e che si è lavorato a lungo per trarli in salvo. Sull'autostrada costiera che va verso nord e che passa vicino al porto, per un lungo tratto si vedono auto semidistrutte, mentre la carreggiata è coperta di detriti. Anche all'aeroporto internazionale Rafic Hariri, distante alcuni chilometri, i danni all'aerostazione sono evidenti.

Nel porto di Beirut sono ancorate anche alcune unità navali dell'Unifil, la forza di interposizione dell'Onu al confine tra Libano e Israele. In serata fonti informate hanno detto all'ansa che squadre dei 'caschi blu' sono riuscite a raggiungere l'area dello scalo in elicottero e i membri degli equipaggi, che dovrebbero essere formati da marinai del Bangladesh, sono stati evacuati a Sidone. Fonti qualificate hanno detto invece che due militari italiani dell'Unifil sono rimasti feriti in modo non grave. Mentre in serata il presidente libanese Michel Aoun ha convocato una riunione d'emergenza del Supremo consiglio della Difesa presso il palazzo di Baabda, voci di ogni tipo si rincorrono sulle cause della deflagrazione.

"I responsabili della catastrofe ne pagheranno il prezzo", ha detto il primo ministro Hassan Diab in un discorso televisivo, senza tuttavia sbilanciarsi in alcuna ipotesi. Il capo delle forze di sicurezza nazionali, generale Abbas Ibrahim, ha detto all'origine del disastro vi è un incendio sviluppatosi in un deposito usato per custodire materiali altamente infiammabili sequestrati in passato. Un video circolato sui social media mostra dapprima una colonna di fumo nero alzarsi nel cielo. Poi, in quelle che sembrano le fiamme di un incendio, alcune deflagrazioni minori. Infine, un'esplosione gigantesca che investe anche il balcone da cui vengono riprese le immagini, molte centinaia di metri dal porto.

 I responsabili della "catastrofe" di Beirut dovranno darne conto": lo ha detto il primo ministro libanese Hassan Diab. "Quello che è successo oggi non passerà senza conseguenze - ha detto in un messaggio televisivo -. I responsabili di questa catastrofe ne pagheranno il prezzo".


Diab ha chiesto ai "Paesi amici" di aiutare il Libano. "Lancio un appello urgente a tutti i Paesi fratelli che amano il Libano a stare al suo fianco e ad aiutarci a guarire le nostre ferite profonde", ha detto il premier.

"Le terribili immagini che arrivano da Beirut descrivono solo in parte il dolore che sta vivendo il popolo libanese. L'Italia farà tutto quel che le è possibile per sostenerlo. Con la Farnesina e il ministero della Difesa stiamo monitorando la situazione dei nostri connazionali". Lo scrive su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

"L'Italia è vicina agli amici libanesi in questo momento tragico. I nostri pensieri vanno alle famiglie delle vittime, a cui esprimiamo il nostro profondo cordoglio, e alle persone ferite, a cui auguriamo una pronta guarigione". Lo dice il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, secondo un tweet della Farnesina.

L’esplosione a Beirut giunge in un momento delicato per la storia del Libano, alle prese con una crisi economica senza precedenti e con un governo tecnico che non riesce ad attuare le riforme necessarie a sbloccare i fondi internazionali per ridare vigore all'economia. Le cancellerie di Roma, Parigi, Londra e Washington e l'Unione europea si sono mobilitate per fornire sostegno al paese. 


Israele ha offerto al governo libanese - attraverso intermediari internazionali - "aiuti umanitari e medici e immediata assistenza di emergenza". L'iniziativa, a seguito dell'esplosione di oggi a Beirut, è del ministero degli affari esteri guidato da Gabi Ashkenazi e del ministero della difesa di Benny Gantz. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha detto che Israele condivide "il dolore del popolo libanese e offre sinceramente il suo aiuto un questo momento difficile".

Il martoriato Libano torna a vivere i peggiori incubi della guerra civile e delle crisi sanguinose che hanno segnato i 30 anni passati dalla fine di quel conflitto. Un'esplosione di potenza inimmaginabile - secondo alcuni testimoni udita fino a Cipro, a distanza di 200 chilometri - ha portato la devastazione e seminato il panico in tutta Beirut e nei sobborghi. Almeno 73 morti e 3.700 i feriti, secondo un bilancio ancora provvisorio della deflagrazione, avvenuta nel tardo pomeriggio nel porto e sulle cui cause regna l'incertezza. Il numero delle vittime potrebbe comunque aumentare, a giudicare anche dalle immagini diffuse dai social media e dalle televisioni che mostrano persone rimaste intrappolate sotto le macerie di edifici crollati.

Il generale Abbas Ibrahim, riferisce Al Jazeera, ha visitato il sito dell'esplosione sottolineando che la causa è da ricercarsi in materiale altamente esplosivo, proprio come il già citato nitrato di ammonio. C'è anche un'altra ipotesi: l'esplosione di un magazzino di armi di Hezbollah. È quella più accreditata fra varie fonti di intelligence occidentali citate dall'Adnkronos, secondo le quali ad esplodere non sarebbe stato un deposito di fuochi di artificio o un vasto quantitativo di nitrato di ammonio, come riferito dal ministro dell'Interno libanese Mohammed Fehmi, ma un deposito di armi delle milizie sciite libanesi filo iraniane

Secondo, Roberta La Fortezza, analista per la regione Medio Oriente e Nord Africa e Sahel per Ifi Advisory e dottore di ricerca in Storia delle Relazioni Internazionali, intervistato dall'agenzia Nova, a prescindere dal dilemma tra attacco e incidente e dalla possibilità che l'esplosione avvenuta oggi a Beirut possa anche essere utilizzata dalle varie fazioni (interne e non), la detonazione registrata nel porto della capitale potrebbe avere importanti conseguenze sulla stabilità del Libano. "Il porto della capitale è distrutto e per un paese import oriented come il Libano questo può diventare un fattore cruciale. Ciò è tanto più vero in questo particolare momento storico: il Libano si trova infatti a vivere la peggiore crisi economica dai tempi della guerra civile. Fosse anche solo un incidente, non sarebbe per nulla da sottovalutare", ha detto La Fortezza.

 

 

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