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Sta fecendo discutere il presepe allestito in Piazza S. Pietro. L’opera è un dono della città di Castelli (Teramo) centro famoso da secoli per le sue ceramiche. Il presepe è stato realizzato tra il 1965 e il 1975 dai docenti e alunni dell’Istituto d’arte “F.A. Grue”. Nella sua interezza è composto da 54 grandi statue, tra cui figurano anche un islamico, un rabbino ebreo, un astronauta e persino un boia (in riferimento alla pena di morte) ma solo alcune figure sono esposte a San Pietro.

Si tratta di un’opera moderna, che probabilmente non è stata apprezzata, visto che in rete, si stanno manifestando diverse critiche. Sulla pagina di Vatican news, si leggono solo commenti negativi, peraltro identificandoli con il pontificato di papa Francesco.

Probabilmente e non scrivo altro, sarebbe stato apprezzabile un presepe in linea con la tradizione. Tuttavia, papa Francesco l’anno scorso ha dedicato una splendida lettera apostolica la “Admirabile signum”, sul valore del presepe, firmata proprio presso la grotta, al Santuario di Greccio, dove nel Natale del 1223 S. Francesco organizzò la prima rappresentazione della Natività.

In un’epoca come quella contemporanea, dove la secolarizzazione e gli eccessi del politicamente corretto ci hanno ormai abituato a notizie sui simboli cristiani della Natività proibiti nei luoghi pubblici, papa Francesco intende “sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe” e “la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze”. Il papa esprime l’augurio che “questa pratica non venga mai meno” e che “possa essere riscoperta e rivitalizzata” là dove fosse caduta in disuso. E’ una pratica che si impara da bambini, quando i genitori e i nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine.

La lettera apostolica del papa contiene una ricostruzione storica di quanto avvenne nella notte del 1223 nella valle del reatino. Il Poverello d’Assisi, scrive Francesco, con l’invenzione del presepe realizza “una grande opera di evangelizzazione” capace di arrivare fino ai nostri giorni “come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità”.

La lettera apostolica passa poi ad analizzare il significato dei singoli segni che compongono generalmente la rappresentazione della Natività. Naturalmente nel documento non mancano i riferimenti alla salvaguardia del creato e la predilezione per i poveri irrompono anche in questa bella tradizione e lo testimonia la collocazione delle “montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori” e delle “statuine simboliche (...) di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore”. “I poveri sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi”, mentre “il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. Il papa nel presepe fa spazio a figure che non hanno relazione con i racconti evangelici.

Tuttavia, il presepe riporta alla mente l’attesa per il suo allestimento negli anni dell’infanzia e dunque alla famiglia, ovvero il luogo privilegiato per la trasmissione della fede. Per papa Francesco, “Non è importante come si allestisce il presepe,- scrive papa Francesco -  può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita”.

In conclusione, il presepe è parte integrante del “processo di trasmissione di fede” che Francesco definisce dolce e al tempo stesso esigente. Questa bella tradizione che il papa a Greccio invita a non abbandonare ma, al contrario, a rilanciare laddove non più utilizzata, favorisce la nostra presa di coscienza nel credere che “Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria”.

Pertanto, non allestire il presepe nelle scuole a Natale è la negazione della nostra identità e il suicidio della nostra cultura cristiana, dei nostri valori e il rifiuto delle nostre radici. La sensibilità che ci porta ad assumere comportamenti rispettosi dell’altrui diversità, non può prescindere dal rispettare, anzitutto, noi stessi, e dal fatto che comunque il rispetto deve essere reciproco.

Da qualche anno si ripete il solito stupido e ridicolo disegno di cancellare le nostre tradizioni natalizie, in particolare quello più caratteristico: il presepe. Non mancano presidi o insegnanti che con una grande dose provocatoria, impediscono ai propri studenti anche a quelli non cattolici, di poter conoscere quel messaggio universale di pace che è il Santo Natale. Per la verità a cancellare totalmente il Natale ci aveva pensato Erode, con il suo metodo radicale, ora ci provano in tanti modi i fautori del “multiculturalismo”, della “libertà”, della “democrazia”, alla fine la scusa è quella di non “offendere” lo “zero-virgola” di alunni islamici presenti nelle scuole.

Tuttavia, il problema, in verità non viene creato da chi ha altre fedi religiose, ma da quei laicisti che non ne hanno affatto e usano come alibi il rispetto dei non-cristiani e la paura degli attentati terroristici.

Anche se c'è qualche inaspettato buon segnale da parte di “laici, come Vittorio Sgarbi che in una trasmissione proclama l’umanità nuova nata da quel Bambino e augura “Buon Natale a tutti voi che non siete nati il giorno in cui è nato Gesù Cristo, ma dovete a Gesù Cristo la vostra libertà, la bellezza, l’indipendenza della donna, tutto…”

In pratica cancellando le nostre tradizioni natalizie stiamo censurando il nostro modo

di essere e di vivere, pensando di educare i nostri ragazzi alla tolleranza. Di questo passo arriveremo ad abolire Dante, Manzoni, i dipinti dei grandi artisti, i musei, le chiese ricche di statue e di affreschi, città intere che in ogni edificio, non solo religioso ma anche pubblico, parlano di fede. Finiremo per censurarli tutti, ma così certamente non saremo più colti, più intelligenti, né più accoglienti, soltanto più aridi e infelici.

Tempo fa un dirigente scolastico si chiedeva: "Che senso ha togliere o negare ai bambini il gusto di una tradizione popolare, segno di una bimillenaria cultura, di diffusione planetaria, radicata nel sentimento, nell’arte, nella letteratura, nella storia, nella vita di ogni ceto sociale e specialmente in un paese come il nostro? Quante forme di cultura radicano nelle varie religioni e da esse traggono la loro specificità ed essenza, persino quando, nel tempo, si discostano dai loro significati originari? Perché pensare che non debbano aver spazio a scuola, se di culture si tratta? ".

 Inoltre il dirigente scolastico precisava che “il presepio non è un precetto religioso; non è un atto liturgico; non è un fatto propagandistico, e nemmeno un atto di culto, per quanto di ovvia ispirazione religiosa, "ma in quanto tradizione popolare è un fatto 'culturale'. E la cultura non si nasconde alla vista, non offende e non si occulta: si spiega. Si aiuta a capirla, a interpretarla. Il che non significa imporla. Senza chiusure per la cultura altrui, ma soprattutto senza imbarazzo, e tanto meno vergogna, per la propria”.

Allora quali sono i motivi per cui occorre spogliarsi delle nostre tradizioni, dei nostri segni? Forse per favorire il “dialogo” (parola-talismano dell'Occidente liquido) con i lontani, in questo caso, gli islamici? Non credo che riusciamo a dialogare meglio rendendoci nudi, attaccandoci a “niente”, soprattutto di fronte al credente in Maometto, erede consapevole di una grande religione come l'islam. Anzi è probabile che ci disprezzerà perchè ci siamo spogliati della nostra fede, della nostra cultura. E' una pia illusione credere che gli islamici si possano convertire alla nostra cultura occidentale, impregnata di relativismo religioso, libertà sessuale, edonismo, aborto, disordine familiare, omosessualismo, ideologia del gender e tanto altro. O forse pensiamo di corrompere o di integrare i musulmani, con il sex-shopping olandese, o il “nulla” dei Paesi del Nord Europa, ex protestanti, che ormai si sono adagiati su un paganesimo vissuto. 

Non sarà forse che il problema siamo noi e non i diversi? E' proprio così “Siamo noi che non sappiamo rendere ragione del bimbo nella mangiatoria”, scriveva l'informatore parrocchiale di Santa Maria delle Grazie al Naviglio in Milano.

Probabilmente siamo un popolo che non ha più nulla da raccontare che non ha qualcosa di caro da difendere. Peraltro, solo un popolo sa essere accogliente, altrimenti si diventa solo tolleranti. Essere tolleranti non è positivo, si tollera qualcosa che si sopporta a fatica, qualcosa che potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata. Infatti, “si tollera chi ci sta vicino, sino a quando non ci dà troppo fastidio. Invece, il cristianesimo ci educa ad accogliere”. Naturalmente, però, chi accoglie l'altro deve amare le sue differenze, per quello che è, ma nello stesso tempo non si deve vergognare di se stesso. Dunque, no alla tolleranza, si al rispetto degli altri.

Ma poi questi passi indietro, che dovremmo fare noi cristiani, non potrebbero essere un'offesa nei confronti di tantissimi martiri cristiani, non solo del passato, ma soprattutto di oggi, che continuano ad essere “trucidati perseguitati proprio perché hanno avuto il coraggio di non fare passi indietro?”. “Siamo proprio sicuri che questa spasmodica ricerca di tranquillità serva alla causa della pace?” Sono alcune domande poste ai lettori, qualche anno fa da La Nuova Bussola quotidiana.

Forse sarebbe opportuno che molti cattolici rileggessero alcuni significativi passi del Vangelo, incominciando con quello di Matteo: “non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada.. Chi ama il padre a la madre più di me non è degno di me”?

 Altro passo: “Guardatevi dagli uomini perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro ed ai pagani”; Oppure, “sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi persevererà fino alla fine sarà salvato»; “chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli...”.

E che dire infine, di quel “birichino di San Paolo, che ci invita ad annunciare Cristo in modo «opportuno», ma se occorre anche in modo «inopportuno?

 

 

C’è una pagina di Storia del primo Novecento completamente sconosciuta, si tratta della resistenza del popolo polacco all’avanzata degli eserciti bolscevichi russi del 1920. Una storia che viene proposta nell’ultimo numero dalla rivista Cristianità. La Rivoluzione bolscevica guidata da Lenin, dopo aver conquistato la Russia, già nel novembre 1918 il Consiglio dei Commissari del Popolo (il governo bolscevico), aveva preso la decisione di portare la Rivoluzione in Europa e nel mondo. Due anni dopo a Smolensk, il 10 marzo 1920, ci fu una riunione dei capi dell’Armata Rossa e dei commissari comunisti, fra cui anche il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, “Stalin”. In quell’occasione fu deciso di attaccare la Polonia e poi tutta l’Europa.

Nell’estate del 1920, l’Armata Rossa avanza minacciosamente verso Varsavia. Di fronte a questa drammatica situazione è la Chiesa polacca a mobilitarsi a invitare il popolo alla resistenza. I vescovi si rivolgono al Papa Benedetto XV chiedendo preghiere e benedizioni per la Polonia minacciata dai bolscevichi. “La lettera dei vescovi di tutto il mondo, del mese di luglio, è di grande importanza, perché analizza l’ideologia che i comunisti volevano imporre all’Europa e al mondo con le armi già soltanto tre anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre”. (Wlodzimierz Redzioch, “Quando la Polonia salvò l’Europa dal comunismo”, luglio-agosto 2020, n.404, Cristianità)

In quell’occasione i vescovi chiariscono che il bolscevismo non intendeva conquistare solo la Polonia, ma tutto il mondo. “Oggi tutto è già preparato per la conquista del mondo. Le schiere organizzate in tutti i paesi aspettano soltanto la parola d’ordine per iniziare la battaglia; dappertutto si preparano continuamente scioperi per paralizzare la vita organica delle nazioni”.

I vescovi volevano far capire che la Polonia era rimasta l’ultimo baluardo che impediva la marcia trionfale del bolscevismo su tutta l’Europa. La Chiesa era consapevole che il bolscevismo era il primo nemico, perché “porta nel suo petto un cuore pieno di d’odio. Il suo odio si rivolge prima di tutto contro il Cristianesimo, del quale è la vera negazione: si rivolge contro la croce di Cristo e contro la sua Chiesa […]”.

In questa situazione la Chiesa polacca svolge un ruolo determinante. La gente dopo l’appello si arruola massicciamente nell’esercito. Anche i sacerdoti sono al fianco dei soldati polacchi, uno di loro è diventato un eroe, don Ignacy Skorupka, cappellano del 236° reggimento di fanteria, don Skorupka, partecipa alla battaglia di Varsavia sempre con la talare, si ritrova da solo a comandare circa duecentocinquanta soldati: “con la croce in mano (come il cappuccino Marco d’Aviano a Vienna nel 1683) come unica arma guida i giovani volontari al contrattacco contro le linee nemiche e muore in combattimento”.

Tuttavia, parlando della battaglia di Varsavia bisogna nominare l’artefice della vittoria polacca, il maresciallo Jozef Klemens Pilsudski (1867-1935), un grande statista che si rende conto della natura della battaglia in corso. Di fronte a due milioni di bolscevichi elabora un piano rischioso quanto geniale, perché non previsto dai comandanti russi. Esce fuori dalla capitale e attacca il fronte scoperto dell’Armata bolscevica, che sorpresa da questo audace attacco, si ritira, perdendo terreno e viene sconfitta senza potersi riorganizzare. In questo modo Pilsudski consegue la vittoria passata alla storia come “il miracolo della Vistola”.

A questo punto l’intervento della rivista pone una interessante domanda: come mai il papa Pio XI ha voluto decorare la propria cappella privata nella nuova residenza di Castel Gandolfo con i quadri attinenti la storia della Polonia con il Miracolo sulla Vistola che raffigura il valoroso don Skorupka mentre, con la croce in mano, guida i soldati all’attacco?

Redzioch fa intendere che il motivo è dovuto al fatto che Pio XI, aveva legami stretti con la Polonia, è stato visitatore apostolico, poi nunzio, infine nominato arcivescovo consacrato proprio a Varsavia con la partecipazione del popolo polacco, Per questo motivo, mons. Ratti, poi Pio XI, si sentiva “un vescovo polacco”.

Tra l’altro nell’estate del 1920 con i bolscevichi a pochi chilometri da Varsavia, mons. Ratti svolge un ruolo importantissimo. È l’unico diplomatico che non lascia la capitale polacca, mentre tutto il corpo diplomatico fugge spaventato. “Mons. Ratti partecipa alle preghiere organizzate durante la battaglia sulla Vistola. Compie anche un gesto molto coraggioso e simbolico, che solleva il morale dei combattenti: si reca a Radzymin, a nord-est di Varsavia, sulla linea del fronte, per far sentire la propria vicinanza ai soldati”. Il monsignore era consapevole che in quella battaglia si stava decidendo le sorti dell’intera Europa, di fronte a un nemico spietato.

Successivamente da Papa, non dimenticherà mai la Polonia, che rimarrà sempre nel suo cuore. Soprattutto “quell’epico scontro fra i bolscevichi russi e i polacchi, che salvarono l’Europa dal comunismo e di cui fu testimone oculare”.

Comunque, Benedetto XV invierà un’epistola, “Cum de Polonia”, l’8 settembre, per la cessazione delle ostilità, indirizzata al cardinale Aleksander Kakowski, arcivescovo di Varsavia e a tutti gli altri vescovi della Polonia. Pertanto ricordando il centesimo anniversario del Miracolo della Vistola, Redzioch pubblica l’importante e poco conosciuta lettera del Papa Benedetto XV.

A cento anni di distanza anche Papa Francesco, ha inteso ricordare ai fedeli polacchi “il centenario della storica vittoria dell’esercito polacco, chiamata ‘Miracolo sulla Vistola’, che i vostri avi attribuirono all’intervento di Maria”.

Nel dibattito sull'identità nazionale italiana sembra mancare un “tassello”, assai importante ai fini esplicativi del processo di formazione della nazione italiana. Questo“tassello” è il fenomeno dell'Insorgenza anti-giacobina e anti-napoleonica che si verificò pressoché ovunque in Italia, in concomitanza di tempo e di luogo con l'invasione rivoluzionaria francese alla fine del secolo XVIII.

Ma che cos'é l'Insorgenza? Si tratta delle insurrezioni delle popolazioni italiane tra il 1792 e il 1815 contro gli eserciti invasori francesi di Napoleone. Sono rivolte popolari di cui non ci è stata trasmessa la memoria, per la “cultura ufficiale” non esistono, (sono come pagine strappate) quando si è costretti a parlarne, si marchiano come reazioni di “masse fanatiche”, di “plebaglia criminale”, o di“briganti”, sostanzialmente rivolte strumentalizzate dal clero e dalla nobiltà.

Questa è l'unica versione passata finora nelle nostre scuole italiane, ma grazie a valenti studiosi, ricercatori, da qualche decennio si è riusciti a “bucare” quell'omertà che da tempo li circondava. Senza ombra di dubbio tra questi studiosi, si può ascrivere Giovanni Cantoni che nel saggio introduttivo del 1972 al libro, «Rivoluzione e Controrivoluzione», del professore Plinio Correa de Oliveira, amplificando quello che aveva scritto lo storico Niccolò Rodolico scriveva: «Quando i reggitori della repubblica di San Marco, tremanti di paura alle minacce francesi, strappavano le gloriose insegne del leone alato, e supplicavano la pace, i contadini del Veronese gridavano 'Viva San Marco' e morivano per esso in quelle Pasque  che rinnovarono i Vespri [...]». La citazione continua, facendo riferimento alle altre insorgenze in tutta la penisola. Pertanto per Cantoni il vero popolo italiano è  «rappresentato dai 'branda' piemontesi e dai lazzari meridionali, dai montanari valtellinesi e dai 'Viva Maria' aretini, dagli animatori delle Pasque veronesi e da quelli delle resistenze sull'Appennino emiliano, il popolo italiano prova il suo attaccamento alla tradizione religiosa e civile e la sua avversione alla Rivoluzione».  Così da questo momento è iniziato lo studio di ricerca su queste insurrezioni e sono nate opere storiche significative, ma soprattutto è nato un Istituto per la Storia delle Insorgenze (I.S.IN.), successivamente si è aggiunto per l'Identità Nazionale, con lo scopo di studiare e diffondere esclusivamente la conoscenza delle insorgenze popolari contro-rivoluzionarie, manifestatesi in Italia tra il 1796 e il 1815. L'Istituto insieme ad Alleanza Cattolica hanno organizzato due importanti convegni a Milano, nel 1996 e poi nel 1997, per rilanciare lo studio delle insorgenze anti-giacobine in Italia.

La Rivoluzione dopo aver conquistato la Francia attraverso il Terrore dei Giacobini, il Direttorio, subentrato a quest'ultimi, cercò di esportare “le nuove idee” rivoluzionarie a tutto il resto dell'Europa. Sostanzialmente con la scusa di liberare i “popoli fratelli”, per vent'anni hanno fatto la guerra a tutta l'Europa, causando cinque milioni di morti, per creare delle “Repubbliche sorelle”, loro che si erano proclamati contro la guerra.

Naturalmente il popolo più fratello di tutti, bisognoso di essere “liberato”, non poteva che essere quello italiano (per ovvie ragioni geografiche, di razza e cultura) pertanto occorreva iniziare la grande conquista in nome della fraternità rivoluzionaria.

Il 9 aprile 1796 al comando dell'Arméé d'Italia, Napoleone entra in Italia e conquista il Piemonte, poi la Lombardia, imponendo ovunque contributi di guerra, dando inizio a quella che può essere considerata la più grande depredazione della terra italiana che la Storia ricordi. Oltre alla ghigliottina, alle campagne di guerra napoleoniche, «la rivoluzione d'oltralpe e il suo 'fulmine di guerra' meriterebbero di essere associati anche a un'altra immagine, quella dei rapinatori d'arte, dovuta alle sistematiche spoliazioni delle nazioni vinte che venivano deliberatamente umiliate nel loro patrimonio artistico-devozionale, strappato ai luoghi di culto profani, e negli oggetti asportati dalle collezioni private delle famiglie nobili dell'Ancien Règime». (Marco Albera, “I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre”, in Cristianità, n. 261-262, genn.-febbraio 1997). Napoleone capì subito il valore e il prestigio che potevano avere le arti e le scienze per un regime politico. Ecco perchè alle “conquiste artistiche” seguirono quelle militari; per dare una parvenza di legalità, Napoleone escogitò il sistema geniale di includere le opere d'arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura come contributi di guerra.

Gli eserciti francesi occupano l'intera penisola, tranne la Sicilia, infatti qui non si registra nessun fatto di insorgenza popolare controrivoluzionaria. Gli eserciti francesi furono accolti soltanto da una esigua minoranza di giacobini italiani, che Cantoni chiama, «invertebrati, fantasticatori e corrotti dai “lumi”». La restante maggioranza del popolo italiano non accettò la “liberazione” che offriva la “sorella” repubblica francese.

A questo punto accade qualcosa che nella Storia dell'Italia non si era mai visto. Scrive Rino Cammilleri: «I popoli d'Europa, cioè i civili e la gente comune, si sollevarono contro i Francesi[...]». Occorre precisare che in passato le guerre hanno riguardato solo i militari e si risolvevano con qualche cambiamento dinastico. «Gli italiani per esempio, erano abituati a vedere sui troni degli stati in cui erano politicamente divisi dinastie spagnole, austriache, francesi. Ma, per il popolo, di fatto non cambiava niente. Il nuovo re, o duca, o principe era giudicato solo sulle capacità amministrative; se il benessere era garantito e le particolarità dei popoli rispettate, nessuno aveva da ridire». (Rino Cammilleri, “Fregati dalla scuola”, Effedieffe 1997)

I nuovi invasori erano diversi dagli altri, questi saccheggiavano e profanavano le chiese, violentavano le monache, arruolavano con la forza i giovani, rappresaglie, fucilazioni indiscriminate, rubavano gli oggetti sacri e le opere d'arte, dichiaravano guerra alla Chiesa di Roma, volevano costruire un mondo nuovo, distruggendo il passato.

Per questo motivo gli italiani insorgono uniti e compatti per difendere le loro patrie, i loro ideali, la loro Religione, i loro sovrani, le loro cose, la loro civiltà, aggredita da un esercito invasore, spalleggiato da un gruppo minoritario di italiani che condividevano le idee folli dei francesi giacobini.

A questo proposito la storiografia liberale ha invertito i ruoli: «i collaborazionisti come Ugo Foscolo e traditori come Vincenzo Monti sono stati chiamati 'patrioti', mentre eroi come il mitico Fra' Diavolo furono definiti 'briganti'. L'epopea di popolo del Sanfedismo, che quasi senza versare sangue riconquistò il Regno di Napoli, venne etichettata come 'masse fanatiche'. Insomma - scrive Cammilleri – il 'popolo' è buono se plaude all'invasore francese; è 'plebe fanatizzata' se insorge per difendere la religione dei suoi padri [...]». (Ibidem)

A questo punto passiamo alla descrizione dei fatti, naturalmente cerco di evidenziare quelli più importanti. In Lombardia a Pavia e a Binasco, qui si ha la prima vera e propria insorgenza contro l'invasore, migliaia di contadini, operai, artigiani riempiono le strade della città prendendo il controllo, al loro comando un umile capomastro Natale Barbieri. Abbattuto l'albero della libertà, al grido di “Viva l'imperatore”, danno la caccia ai francesi. Ma ben presto gli insorti furono schiacciati dall'esercito francese che si abbandona al saccheggio della città con inaudita violenza, i capi della rivolta furono fucilati. In Piemonte da segnalare la rivolta dei contadini piemontesi guidati dal maggiore imperiale milanese Branda de' Lucioni (1744-1803), il quale riesce a costituire un’armata cattolica — l’Ordinata Massa Cristiana — e a liberare Torino dai franco-giacobini. Oltre a quella di Branda, altre masse cristiane si formarono a Novara, Biella, Ivrea, Santhià, Chivasso.

Altre insorgenze significative si sono svolte in Romagna a Lugo, dove i commissari francesi avevano razziato oro e denaro e proceduto anche alla requisizione del busto di sant'Ilario, patrono locale. Il 30 giugno scoppia la rivolta violenta. Mentre l'alto clero invita ad arrendersi, duecento insorti tendono un'imboscata a una colonna di soldati francesi, ma dopo una prima avanzata, gli insorgenti furono sconfitti, sul campo morirono un migliaio di lughesi. Altra insorgenza significativa è qualla della repubblica di Venezia. Il governo non sa cosa fare di fronte all'avanzare di Napoleone, sono i contadini guidati dal generale Antonio Maffei, al grido di “Viva san Marco” a resistere ai francesi. Ma anche questa rivolta fu sedata nel sangue.

Occorre precisare che purtroppo l'insorgenza popolare non è riuscita quasi mai a raggiungere vittorie definitive, tranne quella del cardinale Ruffo, proprio per il suo carattere effimero, per la mancanza di un'élite qualificata, che ne prendesse la testa dello spontaneismo popolare.

Rivolte popolari si ebbero nella repubblica di Genova, il popolo stanco dei soprusi francesi si scatena per le vie, facchini, carbonai, bettolieri, ingaggiano battaglia con i giacobini italiani e francesi. Un'altra insurrezione di una certa importanza si ebbe in Toscana, partì da Arezzo, al grido di, “Viva Maria”, gli aretini considerarono “Generalissima” delle loro truppe (che arrivarono a contare circa 38 mila uomini), l'immagine miracolosa della Vergine del Conforto.

Gli insorti il 7 luglio 1799, guidati da Lorenzo Mari, vecchio ufficiale dei dragoni di Toscana e da Wyndham, fanno il loro ingresso a Firenze. Anche nella Toscana occidentale i francesi ovunque vengono battuti. Livorno, Perugia, vengono liberate.

Arezzo, in quanto centro militare ed economico dell’insorgenza, diventa la capitale effettiva del Granducato. I francesi vengono inseguiti fino alle porte di Roma.

Ma i francesi successivamente ritornano e si registra «La resistenza tentata dal marchese Albergotti, il 17 ottobre, in un contesto profondamente mutato rispetto a quello dell'anno precedente, risulta vana e i francesi si vendicano di Arezzo, rimasta sola. Gli insorgenti aretini scrivono le pagine più belle dell'epopea del Viva Maria, combattendo eroicamente contro l'invasore, a cui vengono inflitte notevoli perdite. Il giorno dopo, spezzate le ultime resistenze, i francesi compiono uno sfrenato saccheggio, che prosegue nei giorni successivi [...]». (Giuliano Mignini, “Il Viva Maria”, 7.7.2020 alleanzacattolica.org)

Nella primavera del 1809, scoccava la scintilla della grande insurrezione popolare anti-napoleonica destinata a incendiare il Tirolo per due lunghi anni. Sotto la guida di un intelligente e valoroso popolano della Val Passiria, Andreas Hofer, si sollevarono non soltanto le valli di lingua tedesca ma anche quelle trentine e la rivolta divampò nelle valli Giudicarie, in Val di Non, nella Val di Sole, nelle valli di Fiemme e di Fassa, fino a contagiare il Bellunese. Anche qui la rivolta si concluse dopo epiche battaglie con l'arresto e la fucilazione a Mantova dell'eroe tirolese.

Probabilmente l'insurrezione più celebre, si accende nel 1799 a Napoli, nel Regno delle due Sicilie, il re Ferdinando abbandona la città di fronte all'esercito rivoluzionario francese, a opporre resistenza è il popolo napoletano, i cosiddetti Lazzari. I francesi dovettero impegnarsi molto per domare la resistenza e soltanto dopo tre giornate il generale Championnet può annunciare la vittoria, elogiando, tra l'altro, l'eroismo dei lazzari, che hanno lasciato sul campo ben 10 mila morti. Viene proclamata la Repubblica, i rivoluzionari giacobini locali, i “patrioti”, si facevano chiamare, si accorgono subito di essere estranei alla popolazione.

I “patrioti” imbevuti di ideologie utopiche, credevano nella magica virtù della “libertà”, venerando il regime repubblicano come infallibile e con una carattere quasi religioso. Sono convinti che basta promulgare alcune leggi per realizzare sistematicamente la felicità dei popoli. Pertanto scoprono, «com'era accaduto ai loro colleghi francesi, che il popolo reale non era il 'popolo' da essi idealizzato: pertanto, paralizzati tra il seducente miraggio di un popolo mitico e il terrore di una «plebe» concreta, decretano che questa era corrotta e occorreva costringerla alla «virtù». (Francesco Pappalardo, “1799: La Crociata della Santa Fede”, in Quaderni di Cristianità, n.3, inverno 1985)

Ironicamente possiamo scrivere che secondo gli intellettuali giacobini, era un popolo ignorante, rozzo, che deve ancora essere istruito e quindi bisogna costringerlo alla “libertà” rivoluzionaria. In pochi aderiranno alla nuova Repubblica; gli occupanti non fanno nulla per attirarsi simpatie, ovunque impongono tasse, taglieggiano gli inermi, rubano opere d'arte, perseguitano monaci, abusano delle donne e di religiose, incendiano edifici sacri, fanno scempio delle spoglie dei santi e organizzano mascherate con sacri arredi e manifestazioni contro la Religione.

L'8 febbraio 1799, il cardinale Fabrizio Ruffo, sbarca in Calabria con pochi uomini per organizzare la Controrivoluzione. «Ha con sé soltanto pochi compagni e una grande bandiera di seta bianca con lo stemma reale da una parte e la Croce dall'altra, su cui stava scritto il celebre motto: 'In hoc signo vinces'».

Ben presto il cardinale raccoglie migliaia di volontari provenienti di ogni ceto sociale, nasce l'Armata Reale della Santa Fede, molto si è scritto contro questo esercito composito, certamente non si può negare che alcuni vi aderiscono per desiderio di bottino o di vendetta personale, ma sicuramente la gran parte di volontari erano animati dalla devozione religiosa e monarchica.

Il 13 giugno 1799, l'Armata fa il suo ingresso trionfale nella capitale, «la festa dura poco. Il popolo minuto, che non aveva dimenticato i tradimenti, la sconfitta, le brutalità, i saccheggi, si vendica ferocemente dei suoi nemici. Fabrizio Ruffo cerca di arginare la guerra civile, ma poco manca che egli stesso sia imprigionato; a nulla valgono neppure le sue proteste contro la proditoria violazione, da parte dell’ammiraglio inglese Nelson, della convenzione conclusa con i vinti». (Ibidem)

Comunque sia i fatti di quei giorni che condussero alla condanna in massa dei giacobini napoletani, merita ben altro spazio, la storiografia di parte attribuisce la morte dei cosiddetti “patrioti” come Eleonora Fonseca Pimental, al cardinale Ruffo , ma basta guardare con serietà ai fatti, non si può negare che il cardinale fu l'unico a fare qualcosa per salvare i giacobini.

Tuttavia, ben presto il cardinale fu messo da parte, e la «restaurazione è ridotta a un’operazione di polizia e la monarchia ripropone il suo dominio assoluto, incapace di comprendere la necessità di una vasta opera di formazione dottrinale e contro-rivoluzionaria della classe dirigente e di messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria».

Per concludere la pagina storica dell'Insorgenza italiana, nel 1799 i francesi dovettero abbandonare l'Italia, anche sotto la spinta dell'esercito russo-austriaco. La restaurazione durò poco, Napoleone, riconquista l'Italia e Pio VII venne incarcerato e deportato prima a Savona poi in Francia.

Il tema delle insorgenze merita qualche approfondimento sui protagonisti (le Masse cristiane) e sulle tre correnti storiografiche che hanno trattato l'argomento, lo faremo in seguito.

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