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Le insorgenze popolari controrivoluzionarie in Italia

Nel dibattito sull'identità nazionale italiana sembra mancare un “tassello”, assai importante ai fini esplicativi del processo di formazione della nazione italiana. Questo“tassello” è il fenomeno dell'Insorgenza anti-giacobina e anti-napoleonica che si verificò pressoché ovunque in Italia, in concomitanza di tempo e di luogo con l'invasione rivoluzionaria francese alla fine del secolo XVIII.

Ma che cos'é l'Insorgenza? Si tratta delle insurrezioni delle popolazioni italiane tra il 1792 e il 1815 contro gli eserciti invasori francesi di Napoleone. Sono rivolte popolari di cui non ci è stata trasmessa la memoria, per la “cultura ufficiale” non esistono, (sono come pagine strappate) quando si è costretti a parlarne, si marchiano come reazioni di “masse fanatiche”, di “plebaglia criminale”, o di“briganti”, sostanzialmente rivolte strumentalizzate dal clero e dalla nobiltà.

Questa è l'unica versione passata finora nelle nostre scuole italiane, ma grazie a valenti studiosi, ricercatori, da qualche decennio si è riusciti a “bucare” quell'omertà che da tempo li circondava. Senza ombra di dubbio tra questi studiosi, si può ascrivere Giovanni Cantoni che nel saggio introduttivo del 1972 al libro, «Rivoluzione e Controrivoluzione», del professore Plinio Correa de Oliveira, amplificando quello che aveva scritto lo storico Niccolò Rodolico scriveva: «Quando i reggitori della repubblica di San Marco, tremanti di paura alle minacce francesi, strappavano le gloriose insegne del leone alato, e supplicavano la pace, i contadini del Veronese gridavano 'Viva San Marco' e morivano per esso in quelle Pasque  che rinnovarono i Vespri [...]». La citazione continua, facendo riferimento alle altre insorgenze in tutta la penisola. Pertanto per Cantoni il vero popolo italiano è  «rappresentato dai 'branda' piemontesi e dai lazzari meridionali, dai montanari valtellinesi e dai 'Viva Maria' aretini, dagli animatori delle Pasque veronesi e da quelli delle resistenze sull'Appennino emiliano, il popolo italiano prova il suo attaccamento alla tradizione religiosa e civile e la sua avversione alla Rivoluzione».  Così da questo momento è iniziato lo studio di ricerca su queste insurrezioni e sono nate opere storiche significative, ma soprattutto è nato un Istituto per la Storia delle Insorgenze (I.S.IN.), successivamente si è aggiunto per l'Identità Nazionale, con lo scopo di studiare e diffondere esclusivamente la conoscenza delle insorgenze popolari contro-rivoluzionarie, manifestatesi in Italia tra il 1796 e il 1815. L'Istituto insieme ad Alleanza Cattolica hanno organizzato due importanti convegni a Milano, nel 1996 e poi nel 1997, per rilanciare lo studio delle insorgenze anti-giacobine in Italia.

La Rivoluzione dopo aver conquistato la Francia attraverso il Terrore dei Giacobini, il Direttorio, subentrato a quest'ultimi, cercò di esportare “le nuove idee” rivoluzionarie a tutto il resto dell'Europa. Sostanzialmente con la scusa di liberare i “popoli fratelli”, per vent'anni hanno fatto la guerra a tutta l'Europa, causando cinque milioni di morti, per creare delle “Repubbliche sorelle”, loro che si erano proclamati contro la guerra.

Naturalmente il popolo più fratello di tutti, bisognoso di essere “liberato”, non poteva che essere quello italiano (per ovvie ragioni geografiche, di razza e cultura) pertanto occorreva iniziare la grande conquista in nome della fraternità rivoluzionaria.

Il 9 aprile 1796 al comando dell'Arméé d'Italia, Napoleone entra in Italia e conquista il Piemonte, poi la Lombardia, imponendo ovunque contributi di guerra, dando inizio a quella che può essere considerata la più grande depredazione della terra italiana che la Storia ricordi. Oltre alla ghigliottina, alle campagne di guerra napoleoniche, «la rivoluzione d'oltralpe e il suo 'fulmine di guerra' meriterebbero di essere associati anche a un'altra immagine, quella dei rapinatori d'arte, dovuta alle sistematiche spoliazioni delle nazioni vinte che venivano deliberatamente umiliate nel loro patrimonio artistico-devozionale, strappato ai luoghi di culto profani, e negli oggetti asportati dalle collezioni private delle famiglie nobili dell'Ancien Règime». (Marco Albera, “I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre”, in Cristianità, n. 261-262, genn.-febbraio 1997). Napoleone capì subito il valore e il prestigio che potevano avere le arti e le scienze per un regime politico. Ecco perchè alle “conquiste artistiche” seguirono quelle militari; per dare una parvenza di legalità, Napoleone escogitò il sistema geniale di includere le opere d'arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura come contributi di guerra.

Gli eserciti francesi occupano l'intera penisola, tranne la Sicilia, infatti qui non si registra nessun fatto di insorgenza popolare controrivoluzionaria. Gli eserciti francesi furono accolti soltanto da una esigua minoranza di giacobini italiani, che Cantoni chiama, «invertebrati, fantasticatori e corrotti dai “lumi”». La restante maggioranza del popolo italiano non accettò la “liberazione” che offriva la “sorella” repubblica francese.

A questo punto accade qualcosa che nella Storia dell'Italia non si era mai visto. Scrive Rino Cammilleri: «I popoli d'Europa, cioè i civili e la gente comune, si sollevarono contro i Francesi[...]». Occorre precisare che in passato le guerre hanno riguardato solo i militari e si risolvevano con qualche cambiamento dinastico. «Gli italiani per esempio, erano abituati a vedere sui troni degli stati in cui erano politicamente divisi dinastie spagnole, austriache, francesi. Ma, per il popolo, di fatto non cambiava niente. Il nuovo re, o duca, o principe era giudicato solo sulle capacità amministrative; se il benessere era garantito e le particolarità dei popoli rispettate, nessuno aveva da ridire». (Rino Cammilleri, “Fregati dalla scuola”, Effedieffe 1997)

I nuovi invasori erano diversi dagli altri, questi saccheggiavano e profanavano le chiese, violentavano le monache, arruolavano con la forza i giovani, rappresaglie, fucilazioni indiscriminate, rubavano gli oggetti sacri e le opere d'arte, dichiaravano guerra alla Chiesa di Roma, volevano costruire un mondo nuovo, distruggendo il passato.

Per questo motivo gli italiani insorgono uniti e compatti per difendere le loro patrie, i loro ideali, la loro Religione, i loro sovrani, le loro cose, la loro civiltà, aggredita da un esercito invasore, spalleggiato da un gruppo minoritario di italiani che condividevano le idee folli dei francesi giacobini.

A questo proposito la storiografia liberale ha invertito i ruoli: «i collaborazionisti come Ugo Foscolo e traditori come Vincenzo Monti sono stati chiamati 'patrioti', mentre eroi come il mitico Fra' Diavolo furono definiti 'briganti'. L'epopea di popolo del Sanfedismo, che quasi senza versare sangue riconquistò il Regno di Napoli, venne etichettata come 'masse fanatiche'. Insomma - scrive Cammilleri – il 'popolo' è buono se plaude all'invasore francese; è 'plebe fanatizzata' se insorge per difendere la religione dei suoi padri [...]». (Ibidem)

A questo punto passiamo alla descrizione dei fatti, naturalmente cerco di evidenziare quelli più importanti. In Lombardia a Pavia e a Binasco, qui si ha la prima vera e propria insorgenza contro l'invasore, migliaia di contadini, operai, artigiani riempiono le strade della città prendendo il controllo, al loro comando un umile capomastro Natale Barbieri. Abbattuto l'albero della libertà, al grido di “Viva l'imperatore”, danno la caccia ai francesi. Ma ben presto gli insorti furono schiacciati dall'esercito francese che si abbandona al saccheggio della città con inaudita violenza, i capi della rivolta furono fucilati. In Piemonte da segnalare la rivolta dei contadini piemontesi guidati dal maggiore imperiale milanese Branda de' Lucioni (1744-1803), il quale riesce a costituire un’armata cattolica — l’Ordinata Massa Cristiana — e a liberare Torino dai franco-giacobini. Oltre a quella di Branda, altre masse cristiane si formarono a Novara, Biella, Ivrea, Santhià, Chivasso.

Altre insorgenze significative si sono svolte in Romagna a Lugo, dove i commissari francesi avevano razziato oro e denaro e proceduto anche alla requisizione del busto di sant'Ilario, patrono locale. Il 30 giugno scoppia la rivolta violenta. Mentre l'alto clero invita ad arrendersi, duecento insorti tendono un'imboscata a una colonna di soldati francesi, ma dopo una prima avanzata, gli insorgenti furono sconfitti, sul campo morirono un migliaio di lughesi. Altra insorgenza significativa è qualla della repubblica di Venezia. Il governo non sa cosa fare di fronte all'avanzare di Napoleone, sono i contadini guidati dal generale Antonio Maffei, al grido di “Viva san Marco” a resistere ai francesi. Ma anche questa rivolta fu sedata nel sangue.

Occorre precisare che purtroppo l'insorgenza popolare non è riuscita quasi mai a raggiungere vittorie definitive, tranne quella del cardinale Ruffo, proprio per il suo carattere effimero, per la mancanza di un'élite qualificata, che ne prendesse la testa dello spontaneismo popolare.

Rivolte popolari si ebbero nella repubblica di Genova, il popolo stanco dei soprusi francesi si scatena per le vie, facchini, carbonai, bettolieri, ingaggiano battaglia con i giacobini italiani e francesi. Un'altra insurrezione di una certa importanza si ebbe in Toscana, partì da Arezzo, al grido di, “Viva Maria”, gli aretini considerarono “Generalissima” delle loro truppe (che arrivarono a contare circa 38 mila uomini), l'immagine miracolosa della Vergine del Conforto.

Gli insorti il 7 luglio 1799, guidati da Lorenzo Mari, vecchio ufficiale dei dragoni di Toscana e da Wyndham, fanno il loro ingresso a Firenze. Anche nella Toscana occidentale i francesi ovunque vengono battuti. Livorno, Perugia, vengono liberate.

Arezzo, in quanto centro militare ed economico dell’insorgenza, diventa la capitale effettiva del Granducato. I francesi vengono inseguiti fino alle porte di Roma.

Ma i francesi successivamente ritornano e si registra «La resistenza tentata dal marchese Albergotti, il 17 ottobre, in un contesto profondamente mutato rispetto a quello dell'anno precedente, risulta vana e i francesi si vendicano di Arezzo, rimasta sola. Gli insorgenti aretini scrivono le pagine più belle dell'epopea del Viva Maria, combattendo eroicamente contro l'invasore, a cui vengono inflitte notevoli perdite. Il giorno dopo, spezzate le ultime resistenze, i francesi compiono uno sfrenato saccheggio, che prosegue nei giorni successivi [...]». (Giuliano Mignini, “Il Viva Maria”, 7.7.2020 alleanzacattolica.org)

Nella primavera del 1809, scoccava la scintilla della grande insurrezione popolare anti-napoleonica destinata a incendiare il Tirolo per due lunghi anni. Sotto la guida di un intelligente e valoroso popolano della Val Passiria, Andreas Hofer, si sollevarono non soltanto le valli di lingua tedesca ma anche quelle trentine e la rivolta divampò nelle valli Giudicarie, in Val di Non, nella Val di Sole, nelle valli di Fiemme e di Fassa, fino a contagiare il Bellunese. Anche qui la rivolta si concluse dopo epiche battaglie con l'arresto e la fucilazione a Mantova dell'eroe tirolese.

Probabilmente l'insurrezione più celebre, si accende nel 1799 a Napoli, nel Regno delle due Sicilie, il re Ferdinando abbandona la città di fronte all'esercito rivoluzionario francese, a opporre resistenza è il popolo napoletano, i cosiddetti Lazzari. I francesi dovettero impegnarsi molto per domare la resistenza e soltanto dopo tre giornate il generale Championnet può annunciare la vittoria, elogiando, tra l'altro, l'eroismo dei lazzari, che hanno lasciato sul campo ben 10 mila morti. Viene proclamata la Repubblica, i rivoluzionari giacobini locali, i “patrioti”, si facevano chiamare, si accorgono subito di essere estranei alla popolazione.

I “patrioti” imbevuti di ideologie utopiche, credevano nella magica virtù della “libertà”, venerando il regime repubblicano come infallibile e con una carattere quasi religioso. Sono convinti che basta promulgare alcune leggi per realizzare sistematicamente la felicità dei popoli. Pertanto scoprono, «com'era accaduto ai loro colleghi francesi, che il popolo reale non era il 'popolo' da essi idealizzato: pertanto, paralizzati tra il seducente miraggio di un popolo mitico e il terrore di una «plebe» concreta, decretano che questa era corrotta e occorreva costringerla alla «virtù». (Francesco Pappalardo, “1799: La Crociata della Santa Fede”, in Quaderni di Cristianità, n.3, inverno 1985)

Ironicamente possiamo scrivere che secondo gli intellettuali giacobini, era un popolo ignorante, rozzo, che deve ancora essere istruito e quindi bisogna costringerlo alla “libertà” rivoluzionaria. In pochi aderiranno alla nuova Repubblica; gli occupanti non fanno nulla per attirarsi simpatie, ovunque impongono tasse, taglieggiano gli inermi, rubano opere d'arte, perseguitano monaci, abusano delle donne e di religiose, incendiano edifici sacri, fanno scempio delle spoglie dei santi e organizzano mascherate con sacri arredi e manifestazioni contro la Religione.

L'8 febbraio 1799, il cardinale Fabrizio Ruffo, sbarca in Calabria con pochi uomini per organizzare la Controrivoluzione. «Ha con sé soltanto pochi compagni e una grande bandiera di seta bianca con lo stemma reale da una parte e la Croce dall'altra, su cui stava scritto il celebre motto: 'In hoc signo vinces'».

Ben presto il cardinale raccoglie migliaia di volontari provenienti di ogni ceto sociale, nasce l'Armata Reale della Santa Fede, molto si è scritto contro questo esercito composito, certamente non si può negare che alcuni vi aderiscono per desiderio di bottino o di vendetta personale, ma sicuramente la gran parte di volontari erano animati dalla devozione religiosa e monarchica.

Il 13 giugno 1799, l'Armata fa il suo ingresso trionfale nella capitale, «la festa dura poco. Il popolo minuto, che non aveva dimenticato i tradimenti, la sconfitta, le brutalità, i saccheggi, si vendica ferocemente dei suoi nemici. Fabrizio Ruffo cerca di arginare la guerra civile, ma poco manca che egli stesso sia imprigionato; a nulla valgono neppure le sue proteste contro la proditoria violazione, da parte dell’ammiraglio inglese Nelson, della convenzione conclusa con i vinti». (Ibidem)

Comunque sia i fatti di quei giorni che condussero alla condanna in massa dei giacobini napoletani, merita ben altro spazio, la storiografia di parte attribuisce la morte dei cosiddetti “patrioti” come Eleonora Fonseca Pimental, al cardinale Ruffo , ma basta guardare con serietà ai fatti, non si può negare che il cardinale fu l'unico a fare qualcosa per salvare i giacobini.

Tuttavia, ben presto il cardinale fu messo da parte, e la «restaurazione è ridotta a un’operazione di polizia e la monarchia ripropone il suo dominio assoluto, incapace di comprendere la necessità di una vasta opera di formazione dottrinale e contro-rivoluzionaria della classe dirigente e di messa in guardia della popolazione contro la penetrazione settaria».

Per concludere la pagina storica dell'Insorgenza italiana, nel 1799 i francesi dovettero abbandonare l'Italia, anche sotto la spinta dell'esercito russo-austriaco. La restaurazione durò poco, Napoleone, riconquista l'Italia e Pio VII venne incarcerato e deportato prima a Savona poi in Francia.

Il tema delle insorgenze merita qualche approfondimento sui protagonisti (le Masse cristiane) e sulle tre correnti storiografiche che hanno trattato l'argomento, lo faremo in seguito.

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