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Primo piano di padre Samir Khalil Samir

Sui principali mass-media internazionali ormai da mesi si fa un gran parlare di Isis, Jihad e Califfato ma che cosa si nasconde realmente dietro la crescita vertiginosa del radicalismo islamico e della violenza fondamentalista che sta caratterizzando la drammatica crisi politica e religiosa delle società arabe sul versante meridionale del Mediterraneo? E' la domanda a cui ha cercato di rispondere l'incontro organizzato a Roma dal Centro Studi sul Medio Oriente (CEMO) della Fundación Promoción Social de la Cultura (http://www.fundacionfpsc.org/esp/index.php) che sul tema “Isis: il mondo fuori controllo” ha chiamato a confrontarsi appositamente due esperti geopolitici e religiosi particolarmente apprezzati nei rispettivi campi: il professor Nicola Pedde, direttore del Centro Studi del Ministero della Difesa, e l'islamista gesuita egiziano padre Samir Khalil Samir, autore già di diversi saggi sul tema (l’ultimo in ordine di tempo pubblicato per l’editore Lindau, cfr. S.K. Samir, Islam e Occidente. Le sfide della coabitazione, Lindau, Torino, Pp. 223). Aprendo per primo i lavori Pedde si è soffermato sul ruolo strategico giocato negli ultimi anni nell'area in particolare da parte dell'Iran da un lato – soprattutto a partire dalla rivoluzione del 1979 – e dall'Arabia Saudita dall'altro, due Stati mussulmani che ancora oggi esprimono posizioni tanto confessionali quanto di leadership politica per la rappresentanza del ‘vero Islam’ in concorrenza l'una con l'altra al punto che risulta piuttosto difficile parlare della realtà sociale islamica come se fosse un blocco unico al suo interno. Il panorama, poi – come noto – si è ulteriormente complicato all'indomani delle cosiddette, ma “impropriamente” per Pedde, 'primavere arabe' che dal 2011 hanno interessato in un modo o nell'altro praticamente la gran parte dei Paesi che si affacciano sul Maghreb. Tuttavia, anche qui, ad avviso dello studioso, è piuttosto complicato associare in modo univoco le differenti rivolte, soprattutto nel caso della Siria (dove gli interessi economici di Paesi esterni come la Francia e il Qatar hanno giocato un'influenza enorme) e della Libia, che si trova tuttora nel pieno del caos, dove pure le complicità dei Paesi occidentali - a cominciare dalla guerra intrapresa per far cadere il governo di Gheddafi - interessati a diverso titolo alla gestione controllata delle sorti della regione, non possono essere evidentemente sottovalutate. Solo in relazione all'Iraq, forse, la situazione attuale può farsi risalire a scelte della classe politica interna, rappresentata emblematicamente dal governo a forte impronta sciita di Nuri al-Maliki (a sua volta espressione esclusiva del Partito Islamico Da’wa), che con le sue decisioni improvvide e faziosamente partigiane ha finito per foraggiare la crescita del radicalismo fondamentalista e la divisione del Paese, già in ginocchio a causa della guerra, in blocchi etnicamente contrapposti.

Padre Khalil Samir, da parte sua, si è invece soffermato sull'idea della ‘guerra permanente al diversamente altro’ che da mesi sta diffondendo l'Isis nell'area tornando – così secondo i suoi stessi proclami – all'idea del Califfato, una realtà che si pensava ormai scomparsa dalla storia (era stata abolita da ultimo dal fondatore della Turchia moderna, Kemal Atatűrk, de-islamizzando il morente impero ottomano, nel 1924) e che invece riemerge strumentalmente (giacché è perlomeno dubbio che goda di un consenso significativo tra il miliardo e mezzo degli attuali fedeli islamici) in questi mesi in chiave accesamente antioccidentale, favorita anche grazie alla crescita esponenziale in loco di alcuni gruppi palesemente radicali come i Fratelli Mussulmani andati al potere recentemente in Egitto con Mohamed Morsi. E proprio uno sguardo alla storia di questi gruppi può offrire oggi nuove chiavi di lettura per interpretare con cognizione di causa la crisi endogena al mondo arabo-islamico maghrebino. I Fratelli Mussulmani, infatti, ha spiegato Samir, nascono “precisamente poco dopo l'abolizione del Califfato” da parte di Atatűrk, nel 1928, con un'operazione esattamente antitetica e speculare: il movimento fondato in Egitto dall’ideologo religioso Hasan al-Banna (1906-1949) avrebbe dovuto infatti battersi per la re-islamizzazione integrale delle società già in passato islamiche e quindi con l'ambizioso obiettivo di ricostituire a lungo-termine nella coscienza delle masse popolari quell'idea di grandezza insieme politica e religiosa che solo il mito mobilitante del Califfato poteva soddisfare. Dapprima le classi dirigenti locali – anzitutto egiziane – tenteranno un dialogo moderato con il movimento finché con l'ascesa al potere di Gamal Abd el-Nasser (1918-1970) e della stagione delle riforme di matrice più laica il conflitto all’interno dei poteri e dei vertici dello Stato esploderà definitivamente si farà insanabile al punto da arrivare a decretare la condanna a morte del capo stesso della Fratellanza. Tuttavia, attualmente, i Fratelli Mussulmani godono nella società civile di un consenso significativo, realissimo e assolutamente non trascurabile: ci si potrebbe chiedere come mai.

Per Samir la risposta va ricercata nella rete estesa di servizi sociali che le sue strutture offrono sul territorio, ancorché sempre confessionalmente marcata, ma che permette ciononostante di essere percepiti come ‘più vicini’ dalla gente delle classi sociali più diverse: dal cibo dispensato gratuitamente a quei fedeli che osservano il digiuno durante il Ramadan all'educazione religiosa, sempre gratuita, offerta fin dalla più tenera età alle famiglie che la richiedono. Inoltre, paradossalmente al momento non sono nemmeno i Fratelli Mussulmani il gruppo più estremista nell’area: ancora più oltre infatti emerge il salafismo (dall'arabo “salaaf”, che significa “antenato”) che predica il ritorno alla primitiva purezza originaria della società islamica: come esso, cioè, si presentava più o meno intorno alla metà del VII secolo, coincidente con 'l'età d'oro' delle conquiste per via militare in mezzo mondo delle truppe di Allah. Infine, non va ovviamente dimenticata la realtà spaventosa degli ultimi mesi dell'Isis: a dispetto di quanto detto e scritto ancora recentemente da alcuni osservatori internazionali, per Samir l'Isis rappresenta oggi proprio l'islamismo più oltranzista all'ennesima potenza e non una sua marginale strumentalizzazione politica o ideologica. Il gruppo, infatti, “non fa niente se non c'è una fatwa” e persino le sue azioni di terrorismo più criminale sono, almeno superficialmente, tutte motivate da riferimenti pubblici all’insegnamento coranico, che sia quello del testo scritto del libro o quello che si rinviene nella tradizione. Tuttavia, in questo panorama di oggettiva crisi drammatica non mancano comunque dei diffusi segnali di speranza come quelli – ha concluso Samir – provenienti dall’evoluzione della situazione sociopolitica in Egitto negli ultimi mesi dove, pur in presenza di una Costituzione ancora discriminatoria su molti fronti (uomini e donne non possiedono tuttora gli stessi diritti, come non li possiedono i non-mussulmani rispetto ai mussulmani), si sta assistendo a una crescita di vera autocoscienza critica da molti settori della società civile, oltre che dalla classe intellettuale, che mira a chiedere più spazi di libertà nella vita sociale del Paese e più riforme sostanziali, particolarmente nel campo dell’educazione (l’analfabetismo tocca ancora la doppia cifra in moltissime regioni) e del lavoro. Da ultimo, non va nemmeno dimenticato il discorso assolutamente incoraggiante che il nuovo presidente Abd al-Fattah al-Sisi – pure mussulmano praticante – ha rivolto solo poche settimane fa a una platea composta da oltre un migliaio di Imam, all’interno dell’università più prestigiosa dell’Islam sunnita, ovvero il centro cairota di al-Azhar, quando ha chiesto energicamente una “riforma religiosa” che parta da una “rinnovata interpretazione” ufficiale dei testi sacri e sia guidata passo passo al proprio interno dalle guide religiose pubblicamente più riconosciute e ascoltate: una presa di posizione epocale, che ha innescato già un vivacissimo dibattito, e le cui conseguenze potrebbero andare oltre ogni aspettativa. Ieri come oggi, insomma, una svolta probabilmente fondamentale per comprendere il futuro che si delinea davanti a noi per i prossimi anni potrebbe arrivare proprio dall’Egitto, al centro di una transizione tanto controversa e criticata quanto audace: da lì, dall’ormai celebre Piazza Tahrir, era partita giusto quattro anni fa la famosa rivoluzione delle piazze arabe, da lì potrebbe ora avere luogo una nuova, inedita e quantomai ‘singolare’ rivoluzione civile e religiosa insieme. Certamente per gli egiziani, in primis, ma forse, di rimando, anche per una parte non marginale dei Paesi circostanti dell’area.

Copertina dell'ultimo saggio della studiosa britannica

E’ stata la prima a coniare la famosa espressione “Eurabia”, in un’intervista per un giornale francese del 2002, più avanti ripresa nel titolo di un saggio tradotto con successo anche in Italia (Eurabia. Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita, Lindau, Torino 2007, Pp. 416, Euro 26,00) e quindi rilanciata a loro volta sui principali mass-media internazionali soprattutto dallo storico britannico Niall Ferguson e da Oriana Fallaci: a seguito degli ultimi fatti legati all’esplosione del terrorismo in Europa Bat Ye’or in questi giorni è tornata in Italia per una serie di conferenze e approfondire dal vivo i numerosi spunti dei suoi libri più discussi. Nell’ultima svoltasi martedì scorso a Roma la studiosa ebraica di origine egiziana ma naturalizzata britannica ha spiegato che quella a cui assistiamo oggi è solo l’ultima parte di una storia cominciata secoli addietro: almeno dalla battaglia di Lepanto (1571), se non si vuole andare ancora più indietro fino alla conquista della penisola iberica nel Medioevo. Oggi fanno eco sulla stampa gli ultimi proclami lanciati dai terroristi sulla conquista di Roma e persino di San Pietro ma in realtà – ha osservato Ye’or – si tratta di una volontà di conquista affatto nuova e anzi plurisecolare. Da sempre il cosiddetto ‘jihad’, infatti, ha almeno due interpretazioni che se divergono nelle modalità attuative coincidono comunque nello scopo finale: una direttamente bellica e militare che tende a legittimare il ricorso alla via armata chiamando in causa Dio, e una più ‘soft’ che si può constatare nella conquista del territorio per via più pacifica con l’immigrazione o la crescita demografica in loco. In ogni caso, è un fatto che la presenza islamica in Europa oggi conti più di venti milioni di persone (il numero non comprende qui i clandestini evidentemente) di cui un milione e mezzo in Italia, cifreinsomma obiettivamente importanti che pongono sfide assolutamente inedite nell’età pure segnata dalla globalizzazione delle culture che stiamo attraversando dopo la fine della Guerra Fredda (1945-1989) e l’implosione dell’ex Unione Sovietica (1991).

Ye’or ha poi concentrato la sua attenzione soprattutto sulla storia dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (l’OCI, fondata a Rabat con il nome di Organizzazione della Conferenza Islamica, nel 1969) che raccoglie al suo interno cinquantasette Paesi mussulmani – compreso lo Stato Palestinese –in rappresentanza di oltre un miliardo di fedeli e della tutela dei loro interessi a livello internazionale e può vantaretuttora una delegazione permanente presso le Nazioni Unite.E’ infatti soprattutto attraverso i suoi accordi economici e commerciali e le sue prese di posizione a livello geopolitico che l’organizzazione negli ultimi decenni ha visto progressivamente allargarsi la sua sfera d’azione e d’influenza arrivando a incidere in modo notevole su molteplici accordi bilaterali riguardanti tra l’altro i temi dell’energia e delle risorse petrolifere come anche quelli legati all’immigrazione verso i paesi occidentali. Lungi dall’esprimere prese di posizione unilaterali, tuttavia, la studiosa ha anche sottolineato le colpe interne e la complicità materiale dell’Europa – accusata di praticare lo ‘spirito di Monaco’, con riferimento all’ignavia dei governanti europeidegli anni Trenta verso il Terzo Reich – nella crescita della politica espansionistica arabo-islamica sul Mediterraneo che ha fatto risalire soprattutto agli anni Sessanta caratterizzati dallaleadership incontrastata del generale Charles De Gaulle (1890-1970), Presidente della Repubblica francese ininterrottamente per l’intero decennio 1959-1969, e la cui politica estera si contraddistinguerà - tra l’altro - prima per la condanna dell’intervento statunitense in Vietnam – coincidente con il ritiro della Francia dal comando militare integrato della NATO – e poi per l’embargo verso Israele a seguito della fulminea guerra dei sei giorni condotta contro Egitto, Siria e Giordania (5-10 giugno 1967). Il risultato è che oggi – culturalmente e spiritualmente – molti occidentali vivono già nella condizione di “dhimmi”, lo status di sudditanza – cioè – che all’interno di una Nazione governata dalla sharia (la legge coranica) storicamente ha investito le comunità delle minoranze non-mussulmane, particolarmente dal punto di vista dei diritti civili e di cittadinanza, conculcati o riconosciuti solo in maniera parziale e relativa. Per questo, ha concluso la studiosa, è oggi più che mai fondamentale imparare a conoscere a fondo anzitutto la storia della civiltà islamica, a cominciare dai termini “jihad” e “dhimmi” che ne connotano aspetti fondamentali socialmente e ci riguardano peraltro oramai sempre più da vicino, come dimostrano da ultimo le recentissime cronache dalla Libia e dall’Iraq. In secondo luogo sarà poi necessario che l’Europa – particolarmente nell’ambito delle sue classi dirigenti politiche e istituzionali – riscopra la sua diretta discendenza dai valori biblici e dalla propria storia religiosa, fattore di indubbia civilizzazione su temi fondamentali come quelli della dignità umana e del rispetto della persona e che è invece dall’altra parte messa in discussione se solo si considera che i Profeti dell’Antico Testamento e lo stesso Gesù sono considerati anticipatori di Maometto e assumono naturalmente significato solo in rapporto alla sua figura e alla sua predicazione.

 

Con il secondo volume, comprendente oltre 400 voci biografiche, dedicate a personaggi insigni del mondo liberale italiano, inteso in un’accezione ampia, vissuti fra il primo Ottocento e i giorni nostri (viventi esclusi), si è compiuto il Dizionario del Liberalismo italiano. Anche questo secondo tomo è pubblicato da Rubbettino (pp. 1.196, € 48). L’opera collettanea è stata coordinata da un comitato di studiosi (Giampietro Berti, Dino Cofrancesco, Luigi Compagna, Raimondo Cubeddu, Elio d’Auria, Eugenio Di Rienzo, Francesco Forte, Tommaso Edoardo Frosini, Giovanni Orsina e Roberto Pertici), fra i quali ha compiuto un poderoso lavoro Fabio Grassi Orsini, mentre l’attività redazionale è stata svolta soprattutto da Gerardo Nicolosi. Appunto a Grassi Orsini ci siamo rivolti perché illustri taluni primari aspetti del Dizionario.

Come vi è venuta l’idea del Dizionario?

Da una decina di anni un gruppo di noi ha pensato che fosse necessaria una svolta nella storiografia italiana, che si era occupata quasi esclusivamente, fino a quel tempo, di storia sociale, di storia di partito o di classi popolari. Tale svolta doveva essere nel senso di un recupero della dimensione politica, cioè in direzione dello studio delle istituzioni, delle élites dirigenti e delle classi politiche e, infine, non dei partiti presi singolarmente, bensì dei sistemi politici. Abbiamo tenuto una serie di convegni. Nel 1993 se ne svolse uno a Siena e a Roma-Luiss sul “Partito politico dalla grande guerra al fascismo”. Un altro, su “I partiti politici nell’Italia repubblicana”, si tenne alla Luiss e presso le università di Siena e di Lecce (nel 2002-‘03). I risultati sono stati raccolti in due volumi: I partiti politici nell’età repubblicana (a cura di Gerardo Nicolosi, con prefazione di Fabio Grassi Orsini, Rubbettino 2006) e Partiti e sistemi di partito in Italia (a cura di Giovanni Orsina, Rubbettino 2011).

Che ne avete ricavato?

Abbiamo compreso, in quelle occasioni, che il settore meno coperto era quello dei liberali intesi in senso lato, dal Risorgimento al secondo dopoguerra. In particolare è risultato evidente che tutti i movimenti politici, dagli anarchici ai cattolici, dai socialisti ai comunisti, senza parlare del fascismo, avevano repertori a loro dedicati. Ne mancava uno che riguardasse appunto la cultura e le personalità appartenenti alla “galassia liberale”, che pure aveva avuto una cosi grande importanza non solo nell’unificazione del Paese ma anche nella ricostruzione della democrazia dopo il fascismo.

Qual è la differenza tra questi repertori e il Dizionario del liberalismo italiano?

Intanto, il Dizionario non rientra nei parametri della “storia di partito”, ma cerca di ricostruire la cultura, le vite e le opere di personalità che sono appartenute al “mondo liberale”, difficile da perimetrare e anche da definire. La scelta è stata, soprattutto per quanto riguarda il periodo risorgimentale e dell’Italia liberale, di considerare il liberalismo, anzi i liberalismi, in modo molto pluralistico.

Cioè?

Si sono inclusi i liberal conservatori, i liberal democratici, i radicali e i riformisti, poi confluiti in formazioni liberal-democratiche, come parti di questo mondo. Si è altresì operata una seconda scelta.

Quale?

Abbiamo considerato il liberalismo italiano. Ciò non significa avere trascurato l’influenza che su di esso ha avuto la cultura liberale europea e americana, ma era necessario ricercare la specificità, se non l’originalità, del liberalismo italiano.

Potrebbe spiegarci in poche parole i contenuti del Dizionario?

è difficile contenere in qualche battuta la descrizione di un’opera cosi complessa che si compone di due tomi. Il primo volume, dedicato a lemmi concettuali o di ricostruzione storica, contiene 172 voci esplicative della posizione dei liberali su grandi questioni: diritti politici, economia, diritto. Inoltre ricostruisce i movimenti e i partiti che hanno fatto parte della “famiglia liberale” dal 1815 agli anni ‘90 del Novecento. Il secondo, invece, raccoglie 404 biografie di personalità politiche: presidenti della Repubblica e del Consiglio, ministri degli Esteri e dell’Interno, diplomatici, storici... Da segnalare che il volume contiene pure le biografie di grandi musicisti, attori, cantautori, giornalisti e personaggi dello spettacolo.

Quali metodi avete seguito?

Si può dire che, a parte qualche criterio volto a creare l’uniformità di tutte le voci, gli autori sono stati liberi di esprimere il loro pensiero, senza nessuna interferenza da parte della redazione. Altrimenti, che opera liberale avrebbe potuto essere?

A chi si rivolge il Dizionario?

Penso che si rivolga in primo luogo al mondo della scuola e dell’università, perché è uno strumento utile sia agli studenti sia ai docenti. In genere, però, è destinato a un pubblico colto, essendo di facile lettura nonostante la complessità degli argomenti trattati e dei personaggi biografati.

Quale attualità può rappresentare oggi?

Forse la sua attualità sta nel tentativo di superare le contraddizioni nate dopo il fallimento delle ideologie e delle interpretazioni storiografiche volte a legittimare il ruolo dei grandi partiti di massa prevalse nel Novecento. Oggi tutti si proclamano liberali (compresi molti contrari al neo liberismo), ma pochi sanno cosa significhi realmente il liberalismo. Ci si augura che questo Dizionario possa stimolare la curiosità anche di un pubblico medio che si trova appunto nella necessità di superare questa contraddizione e sia portato a riscoprire i valori e gli uomini che hanno fatto la storia d’Italia fino al prevalere del totalitarismo, e che hanno poi contribuito alla rinascita della democrazia in Italia.

Come emerge il liberalismo dal Dizionario?

Il liberalismo non è una dottrina economica, non è un’ideologia, non è una fede, ma un complesso di valori, di comportamenti e di metodi che, pur essendo caduti in disuso nel nostro Paese, tuttavia costituiscono il presupposto di una democrazia moderna. A questo proposito si intende fare propria un’affermazione del presidente Napolitano, il quale ebbe a dichiarare, in un’intervista: “Non possiamo non dirci liberali”.

Intervista a cura di

Marco Bertoncini

 

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