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È in stampa, per i tipi di Progetto Cultura a Roma, Appesa a un filo, di Silvana Palazzo, poetessa e saggista direttrice della rivista Redazione Unical presso l'ateneo calabrese dove ha coordinato le attività del Centro di ricerca e documentazione sul fenomeno mafioso e criminale.
Un lavoro "sul campo", sia didattico che di ricerca, che, in questa nuova pubblicazione, fa da evidente background ai temi trattati.
Si tratta infatti di una raccolta poetica "di genere" concepita durante i giorni del lockdown, in un tempo "frantumato, fatto a pezzi". Ed infatti vi aleggia il tentativo di spiegare il perché di quanto avvenuto e che ci ha costretti alla solitudine. Pensiero e riflessione sono ancora una volta l'anima dei versi dell'Autrice di fronte ad un evento devastante per cui anche la psiche sente la necessità di ricorrere alla parola. 
La poesia può far volare lontano ma nello stesso tempo non fa dimenticare che l'uomo ha delle colpe di quanto accaduto. Può diventare denuncia di responsabilità ma anche narrare tragedie individuali domestiche collettive.
Sono versi in bianco e nero intinti di tenerezza quelli della Palazzo, che qua e là nel volume, si rivolgono a figure femminili, a donne che hanno subito violenza i cui nomi sono Olga, Gloria, Maria Rosaria, Sestina, Jessica, Rose, Pamela, Mary, possono essere delle celebrità come Marilyn o la povera moglie di Althusser, giovani ragazze strette dalla morsa parentelare come Sarah od anche vittime della fatalità come Isabelle.
La scrittura si dibatte fra l'anelito alla valorizzazione della donna con la speranza di realizzare un mondo al femminile che sia di pari dignità e opportunità con quello maschile e le resistenze che a ciò si frappongono sin dagli albori del genere umano.
Un velo di pietà ricopre idealmente le figure nude martoriate laddove si fa riferimento al flagello del femminicidio, mattanza proseguita persino durante il lockdown.
La guerra dei sessi è continuata, alimentata da chi non riconosce alla donna un ruolo pieno nel contesto familiare sociale culturale.
Se intelligenza vuol dire capacità di adattamento alle situazioni che si presentano durante la nostra vita allora la scarsa adattabilità, la ridotta disponibilità di alcuni soggetti maschili a riconoscere innovazioni nella scala sociale favorevoli alle donne ne denota quantomeno rigidità mentale e assenza di volontà nel rinunciare alle posizioni di potere acquisite.
Nei casi estremi si arriva, dalla violenza, fino alla follia della soppressione fisica, all'omicidio, che viene visto come un cruento atto di debolezza.
Bisognerebbe parlare di più delle vittime e la Palazzo lo fa con la poesia, interrogandosi su valori veri come quello del rispetto della integrità e della vita di soggetti storicamente deboli come le donne.
I suoi versi offrono spunti esistenziali, appesi al filo del ricordo di fatti concreti e persone, di emozioni e impressioni, pensieri sospesi che cercano il perché il male a volte debba avere il sopravvento in questa nostra vita vissuta "come le foglie morte d'autunno".

Un volume di Amedeo Furfaro sulla regione edito da The Writer.

È stato appena dato alle stampe da The Writer un volume di Amedeo Furfaro dedicato ad una serie di "teche" tutte calabresi.
"Quali Calabrie. Storie di ieri" è il titolo dell'originale reportage giornalistico a tappe nel passato recente e nel novecento calabrese, di vicende ma anche di risonanze, scenari, immagini che possano meglio delineare l'Idea di Calabria come si è configurata nel tempo, nell'immaginario collettivo, al di fuori degli stereotipi che spesso si è cercato di cucirle addosso.
Il taglio è quello del taccuino personale, dell'agenda che una volta compilata rende meglio il profilo di quell'Idea di Calabria che l''Autore ha maturato nella propria esperienza di operatore culturale di vasti interessi seppure con specifica propensione al campo della musica e dello spettacolo.
In questo sguardo all'interno del ventre popolare borghese ed aristocratico di una terra nobile e selvaggia che il " progresso" ha modificato radicalmente, l'Autore non si attarda su ricami nostalgici. Il suo resoconto è semmai animato, come nel precedente lavoro "Quante Calabrie" (CJC) dal proposito di fornire un quadro che metta in luce, della regione, varie facce che ne sappiano descrivere in modo eloquente la bellezza e la ricchezza antropologica, storica, ambientale e culturale, spaziando dai profili etnici a quelli letterari da quelli professionali agli intellettuali.
Un quadro che è quello che egli stesso ha conosciuto e, in diversi casi, immortalato in alcuni safari fotografici sul territorio in questione alla ricerca di volti luoghi oggetti. 
Il lavoro è una maniera di raccontare la Calabria ritraendo protagonisti noti e anonimi, cose ed manufatti d'arte, architetture e paesaggi, bellezze naturali e storiche, narrando alcune storie di ieri che sono tracce di un passato che un libro può contribuire a far rivivere.

Bianca Rita Cataldi, laureata in filologia, diplomata al conservatorio, editor, correttrice di bozze e traduttrice è anche autrice giovanissima di respiro internazionale. Alle spalle ha già numerose pubblicazioni e diversi riconoscimenti. Il suo nuovo romanzo “Acqua di sole”, il secondo edito da Harper Collins, non tradisce le aspettative del suo pubblico e non smette di stupire col suo “tocco” appassionato, coinvolgente e mai banale. 

“La vita è ciò che viene prima della morte”: una certezza incrollabile all’inizio del romanzo e un evento che subito capovolge i termini del discorso, ed è un bambino a prenderci in contropiede dandoci una prospettiva nuova: “Forse la vita poteva anche venire dopo la morte, dopo il respiro sospeso, dopo l’assenza”. I bambini spesso sono portatori di quelle piccole verità che mettono gli adulti con le spalle al muro. Una scelta forte per l’inizio di questo romanzo. Raccontaci il perché.

Mi è sempre piaciuto scrivere dal punto di vista dei bambini perché la loro è una prospettiva pulita, scevra da tutti i condizionamenti e anche dalle paure dell’età adulta. Il bambino si chiede il perché di ogni cosa ed è molto più obiettivo di un adulto nel darsi le risposte. Magari gli sfuggono le sfumature, senz’altro ci sono cose che è ancora troppo presto per capire, ma al tempo stesso è difficile che un bambino si prenda in giro da solo e si racconti mezze verità semplicemente per paura di affrontare la realtà così com’è. Penso che gli adulti spesso sottovalutino ciò che un bambino prova. Dicono ‘oh, se ne dimenticherà’, e sminuiscono i piccoli, grandi dolori di chi ancora vive nel mondo dell’infanzia. Non penso sia vero: il bambino soffre, gioisce e ricorda, e ciò che prova è alla base della persona che diventerà un giorno.

Gesti dal sapore antico di cui spesso il braciere è testimone: fondi di caffettiere colmi d’acqua per umidificare l’aria, storie raccontate ai bambini dinanzi al fuoco, la cerimonia del bucato. I Gentile, uno scorcio di umanità vero, onesto, brillantemente caratterizzato, del quale si sente nostalgia man mano che la narrazione va avanti. La stessa nostalgia che attanaglia Adriano Fiorenza ogni volta che la semplicità si fa accoglienza. È il troppo benessere che ci fa perdere di vista l’essenziale?

Purtroppo sì, molto spesso. Siamo abituati a ottenere tutto e subito, a comprare tutto ciò che ci serve senza pensarci neppure un secondo. Per hobby, mi piace lavorare a maglia e all’uncinetto. Quando ho iniziato, ho dovuto cominciare per necessità di cose dalle noiosissime sciarpe, dai cappellini sbilenchi e dalle presine. Un’amica un giorno mi ha detto «Ma perché non fai i maglioni?» e io sono cascata dal pero perché, semplicemente, non ero pronta per i maglioni: ci vuole tempo. Abbiamo fretta, sempre. Fretta di raggiungere i nostri obiettivi, solo per poi accorgerci che, adesso che li abbiamo raggiunti, abbiamo bisogno subito di qualcos’altro, altrimenti la vita non avrà più senso. Covid-19 ci ha costretti a scendere a patti con la realtà, a renderci conto che le cose importanti sono altre: stare con le persone che amiamo, raccontarci storie intorno al fuoco, tramandare i ricordi e la vita di generazione in generazione, non dimenticarci delle nostre radici.

I Gentile e i Fiorenza, due paesaggi umani allo specchio. Curiosa la geniale specularità di due scene: il gioco senza età delle cognate Gentile con le palle di neve e quello della zia Betta e la nipote Vittoria con la sabbia. Qual è la reale distanza di queste due famiglie?

Nel profondo, i Gentile e i Fiorenza non sono poi molto diversi. Tutti loro desiderano essere ascoltati, amati per ciò che sono, accettati senza se e senza ma dal resto della famiglia. Ciò che li divide è il contesto sociale e, di conseguenza, la diversa risposta ai loro bisogni. Giulio Gentile invidia i bei denti dritti e bianchi di Adriano Fiorenza e i suoi soldi, ma anche Adriano ha qualcosa da invidiargli: l’amore sincero che lo lega a sua moglie, la semplicità della sua vita apparentemente più felice. Entrambe le famiglie sono insoddisfatte, sebbene per motivi diversi, e ciascuna vorrebbe qualcosa che l’altra ha, che è un po’ il destino di ogni uomo.

Margherita, Maria, Elisa. Donne diverse ma che con la loro dignità e la loro bellezza ci fanno riflettere. Siamo abituati a pensare che la “modernità” sia sinonimo di “progresso” ma spesso non è così. C’è della preziosità da conservare nella nostra storia perché ci sia vero progresso. Cosa ha perso oggi la donna rispetto al passato e perché?

Non so se l’ha già persa, ma forse rischia di perdere la sua naturalità, l’attaccamento alla terra e alle radici e, soprattutto, un ‘centro’ che si mantenga costante. Siamo costantemente bombardate dai media che vorrebbero dirci come dovremmo essere, anche dal punto di vista fisico. Per anni si è parlato delle modelle scheletriche e, adesso che finalmente abbiamo le modelle curvy, il bullismo si fa al contrario. Ora c’è il/la tipo/a X che guarda me, che sono una stecca piatta come una tavola da surf, e mi fa «Che schifo, tutta ossa. Una vera donna ha le curve». Come ti giri e ti volti, trovi un muro. La lotta per l’uguaglianza e per il rispetto è ancora lunga e, se da un lato la consapevolezza di ciò ci dà la forza di andare avanti per la nostra strada, dall’altro ci tiene in costante tensione. Dobbiamo tenere gli occhi aperti, vigilare su ciò che ci viene detto e fatto, filtrare le informazioni che riempiono i social. È una bella fatica, ma ne varrà sempre la pena.

Cito testualmente: «Quello fu il primo di una lunga serie di pomeriggi caratterizzati dalla quiete profonda che soltanto l’infanzia può regalare […]. La sensazione di essere al sicuro, come sottovetro, in un mondo protetto che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire». La libertà, la vita, la morte, il pericolo. Il rischio di vivere sembra non tocchi il mondo dell’infanzia, ma in verità, nel tuo libro, sembra che solo i bambini non abbiano paura di assumersi il rischio della vita. È per questo che non siamo più capaci di assumerci i rischi di una vita piena? Perché non abbiamo saputo conservare il nostro “bambino interiore”?

Molto probabilmente sì. Non sono un’esperta, ma secondo me risolveremmo gran parte dei nostri problemi se ci ricordassimo di essere stati bambini e se, di tanto in tanto, ci chiedessimo se il bambino che siamo stati sarebbe orgoglioso di ciò che siamo diventati. Da bambina, intorno agli otto anni, ho scritto una lettera alla me adulta, da leggere dieci anni dopo. Quando l’ho letta, mi sono sentita felice perché quella Bianca lì, nella sua lettera dal passato, mi aveva scritto che avrei dovuto avere ‘i capelli lunghissimi’ (mia madre voleva che li portassi corti, all’epoca) e che avrei dovuto scrivere libri, e avevo tenuto fede alla promessa. Certo, poi mi immaginavo anche sposata a vent’anni, ma insomma... A volte i desideri e i sogni cambiano nel tempo, ed è giusto che sia così. Al tempo stesso, però, è importante chiedersi cosa farebbe il bambino che siamo stati, al nostro posto. Quel bambino, molto spesso, custodisce la risposta alle nostre domande.

Acqua di sole, un titolo che riassume perfettamente la bellezza contenuta in questo romanzo. Da un lato ricorda il gesto di lasciar scaldare l’acqua ai raggi del sole per lavare i bambini, dall’altro richiama il nome di una nota fragranza, evocando un mondo fatto di benessere. In sé, però, ha la delicatezza di due elementi, l’acqua e la luce, che ci riassumono un po’ la metafora della vita: la morte non è una sola e dopo ognuna di esse ci può essere la vita, la sofferenza ha un senso, la vita in tutte le sue sfumature, porta sempre con sé la luce. Ora dicci la tua: come mai questo titolo?

All’inizio, come spesso accade, avevo in mente un titolo diverso, ma non mi convinceva e sapevo che in seguito l’avremmo cambiato. Acqua di sole era già presente nel romanzo, proprio come il titolo della fragranza, per l’appunto. Un profumo che segna un momento importante nella vita di Adriano Fiorenza e, indirettamente, delle due famiglie. Durante il lavoro di editing, abbiamo deciso che questo titolo sarebbe stato più adatto a rappresentare il mondo dei Fiorenza e dei Gentile, la loro corsa verso la luce e l’importanza del profumo e dei fiori nelle loro vite. Mi piace il leggero ossimoro tra acqua e sole. Sembrano incompatibili, a una prima occhiata. Proprio come i Fiorenza e i Gentile.

 

 

 

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