La riforma Renzi delle banche popolari nel 2015, con le pesanti conseguenze che ha provocato e che ancora si stanno scontando, è oggetto dello studio Siamo molto popolari, che Corrado Sforza Fogliani, presidente dell’Assopopolari (l’Associazione che raggruppa le banche popolari) e vicepresidente dell’Abi (l’Associazione bancaria italiana), ha scritto per Rubbettino. Definire il volume uno “studio”, appunto, e non un “pamphlet”, come altri potrebbe inquadrarlo, significa rendere contezza di una ricerca che, pur nei toni polemici e nell’asprezza del linguaggio, serba l’intenzione di documentare passo dopo passo le tesi sostenute, che del resto si fondano su fatti precisi, per i quali le ampie appendici forniscono utili riscontri.
Le banche popolari svolgono, dall’Ottocento, una funzione precisa all’interno del credito: rispondere alle esigenze del territorio, grazie alla diretta conoscenza di eventi e persone, di tradizioni e di prospettive, sociali economiche politiche, nei centri ove operano. La loro concorrenza giova a chi, piccoli imprenditori in particolare, abbia bisogno di trovare un credito che i maggiori istituti possono negargli o proporgli a condizioni che non è in grado di rispettare. Questa funzione rischia ora di venir meno: il mercato italiano del credito sta incamminandosi a finire fagocitato da poche, pochissime grandi banche.
A seguito della riforma Renzi, con il connesso obbligo di quotazione per le maggiori popolari, i proprietari veri sono diventati i fondi d’investimento esteri, europei ma non solo. Gli antichi proprietari, in buona sostanza i risparmiatori, sono stati messi in un angolo dalla penetrazione della finanza internazionale. Si è così snaturata la storia delle popolari, sorte per volontà di uomini del mondo liberale postunitario, pensosi delle necessità dei ceti medi, ma altresì attenti a operare per le classi meno abbienti, che andavano allora costituendo istituti solidali, quali le mutue operaie.
Sforza rifà la storia delle popolari, non tacendo le difficoltà frapposte dal fascismo che non ne tollerava l’indipendenza. Oggi l’Assopopolari raggruppa 52 banche associate, 186 società finanziarie e strumentali: in totale, un milione di soci, sei milioni di clienti, 48 mila dipendenti e 270 miliardi di euro in attivo. Un simile patrimonio, storico e creditizio, corre pesanti pericoli. La grande finanza e i maggiori istituti non apprezzano la concorrenza di un piccolo mondo, antico quanto a storia però moderno quanto a iniziative e attività: mediamente, le popolari hanno una miglior patrimonializzazione e subiscono minori sofferenze. Il pensiero unico – della finanza, della burocrazia ministeriale, delle autorità, del mondo della comunicazione – esalta le concentrazioni e spinge alle fusioni, nel tentativo di persuadere che piccolo o medio sia brutto e soltanto grande sia bello.
Sforza Fogliani non tace taluni esempi di mala gestio fra le popolari, ma un onesto raffronto con gli altri settori bancari giova anche sotto tale aspetto, perché altrove si riscontrano esempi ben peggiori e gravi. Tuttavia singoli episodi sono ingigantiti dai giornaloni per gettare discredito, contribuendo così a un fenomeno che va accelerandosi, in danno del mercato: l’oligopolio bancario.