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Giovedì, 02 Maggio 2024

L'Unione Europea abbia rigettato l'intervento turco in Libia, in seguito all’incontro a Bruxelles, l'Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune e i ministri degli Affari Esteri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta con cui respinge l’intervento militare turco in Libia e qualsiasi azione unilaterale da parte di Paesi terzi. Alla luce della posizione netta della Fratellanza Musulmana contro l'Europa e il popolo libico sarebbe ora che la Comunità Internazionale ritiri il sostegno al Governo ad Al-Serraj e metta il popolo libico in condizione di esprimere la propria volontà.

In Libia i precedenti governi italiani hanno scelto di stare dalla parte sbagliata, quella di Fayez al-Serraj e degli islamisti. Come scrive Giovanni Giacalone, ricercatore ed analista presso l'Università Cattolica, la retorica del “supporto alla popolazione libica” e della “mediazione” più volte espressa dall’Italia è andata di pari passo con una predilezione per Tripoli in quanto governo supportato dall’Onu e “riconosciuto dalla comunità internazionale”, mentre nel frattempo Haftar si agganciava ad alleati come Egitto, Emirati, Arabia Saudita e Russia.

È plausibile che il sostegno di Roma all’esecutivo islamista di al-Sarraj, al di là degli interessi italiani in loco, non fosse altro che l’eredità di una strategia atlantista fallimentare che trova origine in quelle “Primavere Arabe” che di primaverile hanno tra l’altro mostrato ben poco. Scive Giacalone che aggiunge: "all’epoca, infatti, l’amministrazione Obama puntò su una serie di esecutivi guidati dai Fratelli Musulmani che dovevano andare a rimpiazzare i regimi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria, ma di fatto poi le cose andarono diversamente". Era prevedibile che il sostegno all’islamismo politico in Libia non avrebbe portato a nulla di buono e le ragioni erano diverse: dalla presenza di milizie islamiste di varia estrazione e signori della guerra tenuti assieme prettamente da interessi particolari (oltre che dalla contrapposizione ad Haftar) all’arruolamento di personaggi improponibili legati a gruppi qaedisti tra le milizie fedeli a Tripoli, tra cui Mahmoud Ben Dardaf, terrorista ricercato dal governo della Libia orientale per l’assalto al consolato statunitense di Bengasi del settembre 2012. Bisognava inoltre chiedersi se fosse veramente al-Sarraj a controllare le milizie o se non fossero invece le milizie a controllare lui.

Il fatto che Tripoli e Misurata fossero legate a quell’area ideologico-religiosa vicina ai Fratelli Musulmani era noto, non a caso il principale sostegno ricevuto viene proprio da Qatar e Turchia, i due sponsor per eccellenza dell’organizzazione islamista. Non a caso al-Sarraj, appena se l’è vista brutta, ha aperto le porte a Erdogan, principe del terrorismo, che si è precipitato.  Erdogan non è certo esempio di democrazia e tolleranza. Era lo stesso Erdogan che durante il conflitto siriano inviava armi e rifornimenti ai jihadisti e li curava nei propri ospedali. Purtroppo però c’è chi a livello istituzionale è ancora convinto che bisogna dialogare con l’islamismo politico di quell’area e i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. Erdogan manda le truppe e l’Italia molto probabilmente resterà a guardare e a bocca asciutta. Erdogan potrà così utilizzare i porti della Libia per “aprire il rubinetto” e riversare migranti verso le coste europee, come già fatto da est. Un disastro su tutta la linea e una situazione che non permette più mezze misure e posizioni ambigue.

Il prossimo 19 gennaio del nuovo anno, cadrà il ventennale della morte di Bettino Craxi. C’è da augurarsi che ancora una volta non si scateni la solita trita polemica, volgare e violenta, come purtroppo è accaduto in questi anni e anche in tempi recenti.

Questo e un articolo di Gianpaolo Sodano che condivido per intero scritto per Moondo  :

È innegabile che esiste (non risolta) una questione Craxi e quindi sarà inevitabile una riflessione intorno all’operato di un leader che ha segnato con la sua presenza e le sue idee una intera stagione della politica italiana. Dovremo dare una risposta alla domanda se il socialista Bettino Craxi sia stato un grande statista oppure un latitante sfuggito ai rigori della legge, anche se per rispondere basterebbe riascoltare, con un po’ di attenzione, il Suo discorso alla Camera dei Deputati del luglio 1992: ci accorgeremmo che seguendo il filo della sua analisi si sarebbe potuto realizzare una riforma dei partiti e delle istituzioni e dare una soluzione politica alla questione morale, senza passare attraverso il buio della reazione populista e giustizialista che ha distrutto formazioni politiche e classi dirigenti lasciando il paese in mano alla “società civile”, una espressione usata per indicare una realtà sociale contrapposta al sistema politico-istituzionale e che è stata utilizzata da noti giornalisti della carta stampata e della televisione per denunciare le responsabilità di quel sistema.

Quei stessi giornalisti che ad esempio non hanno visto, non hanno sentito, o forse non c’erano, quando si progettava e poi si realizzava la svendita che è seguita a tangentopoli di tutti i “gioielli di famiglia” dall’IRI alla STET, alla MONTEDISON oppure si erano distratti quando a Bruxelles si consumava la subalternità italiana per un cambio lira-euro, frutto della pressione francese, che ci ha fatto improvvisamente trovare in tasca la metà del salario.

Craxi è stato l’espressione più alta di quella classe dirigente che si opponeva al disegno di smantellare la potenza industriale dell’Italia, dalla chimica alla comunicazione, e che ha cercato negli anni ‘80 di realizzare una riforma dello Stato e della politica per edificare un’architettura istituzionale che potesse far uscire il nostro Paese da quel consociativismo democristiano-comunista che ha condizionato la modernizzazione e lo sviluppo della comunità nazionale.  

Bettino Craxi

Tangentopoli è stata una gigantesca messa in scena sul palcoscenico della provincia Italia per favorire, dietro le quinte, quelle forze economiche e politiche interessate a nuovi equilibri dei poteri nel nostro paese. Forse è necessario ricordare che in una vicenda di corrotti e corruttori, a pagare furono soltanto i corrotti, cioè i politici, mentre i corruttori, dopo un rapido passaggio nei corridoi della Procura di Milano potevano tornare nei loro Consigli di amministrazione e da lì cercare di ritagliarsi uno spazio nella distruzione dell’industria di Stato: agirono con una visione corta del proprio futuro con il risultato di essere costretti a passare la mano agli investitori esteri e ai fondi di investimento.

Il recente accordo Peugeot-FCA, che significa in pratica l’acquisto da parte della casa automobilistica francese di ciò che restava della Fiat, è l’ultimo atto di questa corsa suicida. Le vittime più illustri di tangentopoli sono stati probabilmente Raul Gardini e Gabriele Cagliari, che ebbero il torto di credere di poter realizzare in Italia un grande progetto della chimica con la forza delle idee e del danaro senza contare che cosa era nel nostro paese quella razza padrona che un tempo aveva ottenuto da Mussolini di far fermare un treno in piena campagna per risolvere problemi familiari di un illustre suo appartenente… e così l’unica cosa da fare per la Procura di Milano fu quella di accusare Sergio Cusani, il professionista di fiducia della famiglia Ferruzzi, di reati collegati alla joint venture tra ENI e Montedison, chiamata Enimont:  il processo, in diretta televisiva, servì a mettere alla gogna tutti i leader dei partiti di governo. Il resto è noto. Nel processo emerse anche, che una valigia contenente denaro era pervenuta in via delle Botteghe Oscure, nella sede nazionale del PCI, ma le indagini si erano arenate, dato che non si erano trovati elementi penalmente rilevanti nei confronti di persone fisiche.

Ad assistere al tutto, Romano Prodi, presidente dell’Iri. Poi presidente del Consiglio. Poi Presidente della Commissione europea. Poi, di nuovo presidente del Consiglio. Poi, Nume tutelare, a disposizione. Il professor Prodi potrebbe raccontarci molte cose di quella vicenda ad iniziare dalla fine dell’IRI che fu liquidato alla chetichella, chiuso dalla sera alla mattina non per questioni di merito ma in base a pregiudiziali ideologiche, sull’onda della “rivoluzione di mani pulite”, per finire alle privatizzazioni delle industrie di Stato come per esempio la Cirio, cessata di esistere dopo la sua svendita e di cui è rimasto solo un marchio ballerino. Pietro Armani, consigliere di amministrazione dell’IRI, è morto senza aver visto affermate o negate le sue accuse su quell’ “affare”.

Ha scritto Augusto Minzolini: “L’avvento del Prodi “politico” fu progettato, programmato. Fu il tentativo di ricostituire un “ordine” dopo Tangentopoli. Ricordo un aneddoto: pochi mesi prima di essere costretto a lasciare l’Italia, a poche settimane dall’episodio delle monetine davanti al Raphael, Bettino Craxi, che io seguivo assiduamente come cronista politico de La Stampa, mi consegnò un documento, senza intestazioni, di 13 pagine. Dentro c’era un’analisi che individuava in Tangentopoli uno strumento per privatizzare i gioielli dell’economia italiana (era menzionata anche la famosa riunione sul Britannia, quella nella quale la grande finanza internazionale aveva immaginato un “dopo” per il mondo post-comunista e per il nostro Paese): ebbene nell’ultima pagina di quel documento, siamo nel 1993, si parlava di un possibile governo Prodi… Dopo qualche settimana mi fu detto – ma non ebbi mai una conferma ufficiale – che quel documento era un rapporto dei servizi segreti tedeschi sui piani della finanza anglosassone. Fantapolitica? Probabilmente, ma ho sempre pensato che Prodi fosse un predestinato. L’uomo su cui l’establishment italiano – quello che era venuto fuori dalla democrazia cristiana e dal partito comunista – aveva puntato per portare l’Italia nella seconda Repubblica.” (Augusto Minzolini “Quando il retroscena conquista la ribalta” in “Passi perduti” di Giorgio Giovannetti, 2018).

Sarà utile rileggere le cronache di Tangentopoli alla luce di quanto è accaduto dopo, con diverse leggi elettorali, per consentire la nascita di nuovi partiti o la rinascita di vecchi, oppure movimenti che uno dopo l’altro si sono candidati a governare senza averne cultura e capacità e soprattutto, salvo qualche eccezione, esprimendo una classe dirigente non in grado di restituire alla politica il prestigio perduto e alla democrazia liberale il necessario equilibrio dei poteri.

E così, periodicamente, la mattanza continua. Inseguito per un decennio da tutte le procure è tramontata la stella di Silvio Berlusconi, il tycon della tv commerciale che si era illuso di farla franca sposando il linguaggio dei populisti e mettendo al loro servizio le sue reti.

Al suo posto è salito sul palcoscenico Matteo Renzi, sicuramente il più “politico” dell’ultima generazione di politici. Si può essere d’accordo con lui o meno, ma aveva un progetto per il Paese: ricreare un soggetto politico in grado di governare l’Italia da una posizione di centro. Che sia una sinistra che guarda verso il centro, o viceversa, per Renzi poco importava. Non era una novità ma uno schema con cui la democrazia cristiana aveva governato nel secolo scorso, anche se bisogna dire che l’aggiunta di intenzioni rottamatrici e di riformismo anticorporazioni, dopo vent’anni di Seconda Repubblica, era apparso a molti del suo ex partito un progetto estraneo alla cultura cattocomunista del PD e da eliminare presto, e con ogni mezzo, dal dibattito politico.

Allo spegnersi dell’esperienza del leader fiorentino si accendeva il Movimento 5 Stelle: l’eredità della protesta delle monetine del Raphael la prende Beppe Grillo con i suoi “Vaffaday”, una nuova puntata del populismo made in Italy. Tuttavia è giusto riconoscere che i “grillini” hanno incanalato il malessere nel solco dell’antipolitica assolvendo ad una funzione positiva, evitare che il malumori vestissero i gilet gialli o addirittura la camicia nera dei nostalgici del fascio. Il problema è nato nel momento in cui, con le elezioni del 2018, il Movimento ha dovuto assumere i connotati di un nuovo ceto politico di governo. La mediocrità dei suoi rappresentanti è sotto gli occhi di tutti e il primo ad esserne consapevole è Beppe Grillo, l’apprendista stregone che non riesce a gestire la sua alchimia.

E poichè in politica non esistono vuoti di potere ecco che dalle quinte spunta il nuovo pretendente, Matteo Salvini, l’ultimo arrivato che si è preso la scena. Tutto lascia supporre che tra Di Maio da una parte e i magistrati dall’altra, con un Bossi non troppo soddisfatto di avergli ceduto il posto, lo spettacolo non durerà a lungo. Il povero Matteo ha alzato troppo la posta, tra comunismo padano e sovranismo rischia sempre più di perdere il filo del discorso politico, insidiato da una Giorgia Meloni ormai tutta protesa fuori della Garbatella, il popolare quartiere romano che un tempo costituiva tutto il suo feudo.

La morte di Bettino Craxi fuori dalla patria è stato il segno più evidente di un rigetto che una parte dell’opinione pubblica – ingannata dal circuito mediatico-giudiziario e dalla propaganda populista della televisione commerciale e dei pifferai del servizio pubblico RAI – ha nutrito verso il partito socialista che in Parlamento e al Governo ha saputo garantire, malgrado la tragedia del terrorismo, pace sociale e sviluppo economico, frenando, nello stesso tempo, le tentazioni assolutiste del partito di maggioranza relativa e la vocazione egemonica del partito comunista.

Non tutti i socialisti lo compresero fino in fondo: abbandonarono Craxi e la sua linea politica per il timore dei nuovi equilibri politici e istituzionali. Craxi restò solo: la responsabilità politica non va ricercata solo negli altri partiti, nei giudici di mani pulite e nei giornali legati alla grande industria che li sostennero. Alla fine pagarono coloro che si erano più esposti: ricordiamo i 34 suicidi che accompagnarono la fanfara di “mani pulite”.

Cogliamo l’occasione della commemorazione della morte di Bettino Craxi per aprire una fase nuova: dopo il tempo della abiura lasciamo il passo ad una riflessione più serena, alziamo lo sguardo oltre i confini del presente, ricostruiamo la memoria di un popolo umiliato e offeso dalla dittatura fascista, capace di conquistarsi un rinnovato prestigio e di realizzare nel giro di pochi anni, sulle macerie della guerra nazista, un vero miracolo economico.

Il ritrovarsi ad Hammamet il 19 gennaio 2020 può essere l’occasione per l’inizio di un esame di coscienza collettivo. Noi di Moondo ci saremo, consapevoli che l’epilogo è tutto da scrivere: uno di noi ha iniziato a farlo scrivendo un libro documentato che sarà in libreria dalla metà del prossimo mese in cui si tenta una riflessione su quanto accaduto 30 anni fa (Mario Pacelli, Ad Hammamet, edizioni Graphofeel, 2020) augurandoci che qualcuno non rovini tutto mettendo in scena una passerella per pentiti con il cappio o con le monetine. 

Nella giornata di ieri Giancarlo Giorgetti ha aperto al governo di scopo, ma il segretario federale del Carroccio ha precisato: "Dopo Conte c’è soltanto il voto. Appena salta questo governo, l’unica via sono le elezioni e il prossimo premier sarà scelto da un parlamento nuovo". La sua proposta bipartisan è invece diversa: "Altro paio di maniche è dire: ascoltate. Ascoltate Confindustria, Coldiretti, i sindacati, le associazioni... E se avanza tempo, anche le opposizioni: evitate di peccare di arroganza, oltre che di ignoranza".

Intervistato dal Corriere della Sera, è stato trattato anche il tema del referendum sul taglio dei parlamentari: "Non accelera e non rallenta. I problemi dell’Italia sono l’economia e la burocrazia. Non saranno due mesi in più a cambiare le cose". La Lega comunque voterà a favore del taglio: "Ci auguriamo che ci sia anche il nostro referendum a favore del maggioritario, la Consulta si esprimerà a gennaio".

Nella giornata di domani il Carroccio andrà a congresso: "La Lega è ormai un unico soggetto nazionale e nel corso del 2020 ci saranno tante elezioni. L’anno prossimo ci saranno anche i congressi locali per eleggere tutti gli organi del nuovo partito". Salvini al momento resterà segretario: "Poi, quando tutto sarà andato sui binari, non avrebbe senso che restassi segretario di due partiti".

L'ex ministro dell'Interno però non ci sta con chi lo vuole processare e vuole prendere posizione: "Idealmente in quel tribunale ci saranno con me milioni di italiani". A fare clamore è stata la retromarcia targata Luigi Di Maio che, dopo averlo salvato sul caso Diciotti, ha annunciato che il Movimento 5 Stelle voterà a favore del processo: "È una cosa surreale. Per un certo verso, anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario, sarei curioso di finire in Aula. Di Maio ha cambiato idea sui miei processi come l’ha cambiata su tante altre cose".

Il 20 gennaio si voterà l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti, e intanto Palazzo Chigi ha fatto sapere che il caso non sarebbe stato mai discusso in Consiglio dei ministri: "A me dispiace quando ci sono persone che perdono l’onore. È chiaro che per non litigare con il Pd loro si rimangiano tutto quello che avevano detto e fatto". Il leader della Lega ha inoltre smascherato le intenzioni del governo giallorosso: "Il Parlamento aveva tolto l’attenuante per 'tenuità del fatto' in caso di aggressioni a pubblici ufficiali. Ora, mi dicono che la riporteranno nella legge". E ha lanciato un avviso: "Se provano a ridare fiato ai balordi e ai violenti, a quel punto si muove il Paese".

Intanto dichiara al Giornale Bonafede "Come ministro non posso commentare indagini in corso. Io posso solo constatare che per il Movimento 5 Stelle è una vicenda diversa da quella della Diciotti e Luigi Di Maio ha già detto che ci sono presupposti per dare parere favorevole al processo a Matteo Salvini".

Ai microfoni della trasmissione radiofonico Circo Massimo su Radio Capital, il titolare del dicastero di via Arenula ha aggiunto: "Confermo quello che ha detto Di Maio. C'erano presupposti diversi perché c'era la possibilità della redistribuzione dei migranti a bordo della nave nei diversi Paesi".

Un attacco frontale al quale il diretto interessato ha replicato a stretto giro, da Aosta: "Il signor Bonafede è coerentemente disastroso. Mentre con la sua 'riforma' si prepara a tenere sotto processo a vita milioni di italiani, l'incapace Bonafede invoca il processo per Salvini. Condivido la richiesta avanza dagli avvocati italiani: dimissioni". Dunque, ha aggiunto: "Andrò in tribunale con il sorriso, sarà una grande festa di libertà. Da ministro ho difeso i confini, la sicurezza di questo Paese e lo rifarò. Si rassegni quel giudice: o mi arrestano o non mi fermo".

Matteo Salvini, peraltro, era stato chiaro e duro già nelle scorse ore, quando si era scagliato contro il ministro degli Esteri (e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte) per l’ennesima giravolta del M5s, che diversamente da quanto successo per la Diciotti, questa volta voterà a favore del processo contro il leghista: "È una cosa surreale. Per un certo verso, anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario, sarei curioso di finire in Aula. Di Maio ha cambiato idea sui miei processi come l’ha cambiata su tante altre cose…".

Se il caso della nave Gregoretti porterà a un processo, "idealmente in quel tribunale ci saranno con me milioni di italiani". Lo afferma, in un'intervista al Corriere della Sera, il leader della Lega Matteo Salvini. Su Luigi Di Maio, "credo che tutta la dignità l'abbia messa nel decreto del 2018". "In questi mesi sto conoscendo la doppia faccia di Conte e Di Maio. Mi dispiace quando ci sono persone che perdono l'onore", dice Salvini. "Dopo Conte - sottolinea - c'è soltanto il voto". E della stessa idea anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti  che sempre dalle colonne del Corriere sottolinea: "Dopo la caduta di questo governo, che abbiamo fatto bene a far nascere, sarebbero inevitabili le elezioni. Sono convinto che ci siano le condizioni per andare avanti, ma ci vuole una comune volontà politica". Così il segretario del Pd Nicola Zingaretti al Corriere della Sera. Giuseppe Conte, "si è dimostrato un buon capo di governo. Non va tirato per la giacchetta, anche se è un punto di riferimento di tutte le forze progressiste", dice. Italia Viva "deve decidere se stare dentro la prospettiva del campo progressista".

E su questo punto non tarda la risposta di Carlo Calenda. "Caro Nicola Zingaretti come si può sostenere che Conte 'è il punto di riferimento fortissimo dei progressisti'? Un Presidente del Consiglio che ha fatto del trasformismo un'arte e ha varato tutti i provvedimenti, ancora in piedi, del Governo Salvini-Di Maio. Vi siete proprio smarriti, Partito Democratico". Così su Twitter Carlo Calenda, eurodeputato e leader di Azione.

Intanto la Sea Watch annuncia che tornerà in mare dopo 5 mesi. "Sea Watch ha vinto l'appello alla Tribunale Civile di Palermo: la SeaWatch3 è libera! Dopo più di cinque mesi bloccati in porto a Licata, ci stiamo preparando per tornare in mare. La giustizia trionfa sul (ex) decreto sicurezza", scrive la ong su Twitter.

Intanto c'è stata la prima riunione della giunta delle immunità del Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro Matteo Salvini per il caso Gregoretti. Sulla vicenda il leader M5s Di Maio stuzzica l'ex alleato di governo. "Lo vedo un po' impaurito, ma ognuno si deve prendere le sue responsabilità. Mi sembra sia ben chiaro che la questione Gregoretti non è come la questione Diciotti. Quest'ultima fu una decisione del Governo, la Gregoretti fu propaganda".

L'ex ministro replica: "Sono scettico che ci possa essere qualcuno che viene processato per il suo lavoro. Non vedo l'ora, se mi vorranno processare chi se ne frega!".

"Abbiamo incardinato la procedura che riguarda il caso Gregoretti - ha spiegato la senatrice M5s Elvira Evangelista - abbiamo potuto visionare la domanda di autorizzazione a procedere e abbiamo fissato 4 convocazioni a gennaio. Si andrà sicuramente al voto Il 20 gennaio".

"Nel caso in esame - scrive il tribunale dei ministri -  poiché i fatti hanno coinvolto una nave della Guardia Costiera Italiana, e quindi, una nave militare, non trovano applicazione le norme contenute nel cosiddetto Decreto sicurezza bis". Il ministro dell'Interno non può infatti vietare l'ingresso, il transito o la sosta a "naviglio militare" o a "navi in servizio governativo non commerciale.

"La questione relativa alla vicenda della nave 'Gregoretti' non figura all'ordine del giorno e non è stata oggetto di trattazione nell'ambito delle questioni 'varie ed eventuali' nel citato Consiglio dei Ministri (31 luglio 2019, ndr), né in altri successivi". E' quanto è scritto sul caso Gregoretti in una nota firmata dal Segretario generale di Palazzo Chigi e inviata l'11 ottobre scorso al Tribunale dei ministri di Catania, citata nella richiesta di autorizzazione a procedere per Salvini.

 

 

 

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