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"Siamo dalla vostra parte, l'azione della Turchia nell'Egeo è inaccettabile, invieremo un chiaro messaggio alla Turchia". E' quanto ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leynen inviando un chiaro segnale alla Grecia sullo sfondo delle crescenti tensioni con la Turchia sulle aree marittime.

L'annuncio della presidente von der Leyen ieri al vertice dei presidenti dei gruppi parlamentari del Ppe. Lo scrive il sito Euractive ricordando che Ankara ha recentemente firmato un memorandum d'intesa con la Libia per delimitare le zone marittime della regione. Una mossa che ha scatenato forti reazioni ad Atene, Nicosia e al Cairo. L'accordo turco-libico 'ignora' l'isola di Creta e la Grecia afferma che la Turchia vuole creare un precedente legale con questo "illegale" protocollo d'intesa ai sensi del diritto internazionale.Creta sorpassa Sigonella nella scala valoriale delle basi strategiche americane nel mare nostrum? Gli Usa mollano la Turchia per sposare la Grecia, per via di una serie di dossier altamente sensibili che si intrecciano su gasdotti, terrorismo e ricostruzione in Siria.

L’Italia si trova in una posizione estremamente delicata scrive inside Over. In quelle acque opera Eni, e già l’anno scorso Erdogan ha tuonato contro le nostre attività bloccando la nave Saipem 12000, mentre in Libia ha sostenuto per anni Serraj trovandosi però sempre più marginalizzata grazie (anche) alla continua penetrazione turca nell’area sotto il fragile controllo del governo di Tripoli. La Francia, invece, ha da tempo messo gli occhi su Cipro: dapprima l’ha fatto con un accordo per una base militare per la propria flotta nell’isola: e adesso, invece, il rinnovato asse con Nicosia significa per Parigi anche inviare un avvertimento a Erdogan che, in Libia, si trova sul fronte opposto, schierandosi più o meno apertamente con Khalifa Haftar.

Il pattugliamento della Zee di Cipro insieme alla marina cipriota e a quella francese è perfettamente inserito nel quadro delle politiche di Diplomazia Navale che è uno strumento essenziale per l’Italia per rafforzare le partnership strategiche. La maggior parte delle risorse energetiche e commerciali che giungono in Italia, lo fanno attraverso il Mediterraneo. Ed è anche per questo motivo che l’Italia dà il via a queste esercitazioni: non solo per confermare la propria presenza nel Mare Nostrum, ma anche per ribadire che tramite la Marina può giocare un ruolo essenziale e, come spiegato anche dal comunicato, difendere “gli interessi nazionali”. Interessi che – è evidente – sono messi seriamente in pericolo dalle manovre turche nell’area dal momento che, con l’invio delle navi per le perforazioni petrolifere nelle acque di Cipro, con l’accordo per la Zee libica, e con una presenza sempre più massiccia a Tripoli (politica, di intelligence, ma anche, come confermato di recente, militare) sta “circondando” Roma e gli interessi strategici italiani.

Ovviamente l’esercitazione è programmata da tempo: ben prima che Erdogan decidesse di firmare l’intesa con Serraj e anche prima che le notizie dalla Libia facessero temere una penetrazione ormai costante nelle file dell’esercito di Serraj. Ma la situazione è bollente e queste manovre, svolte con la Marine nationale e con la flotta cipriota, assumono chiaramente un significato preciso: ricordare che Roma ha, come tutti i suoi partner e rivali del Mediterraneo, interessi da tutelare anche attraverso lo strumento della Marina, appunto quella Naval Diplomacy spesso dimenticata dai nostri governi. In un momento in cui la Grecia pubblica foto di caccia che puntano le fregate turche, la Francia blinda Cipro con una base navale e quando la Libia è sul punto di rovesciarsi, ricordare la presenza italiana in quelle acque e frenare le velleità turche diventa necessario. Il rischio è troppo elevato.

L’ennesima minaccia turca agli Usa (“Se ci sanzionate, vi togliamo le basi militari”) rischia di non produrre effetti di sorta scrive francesco De Palo... Il nuovo “neo ottomanesimo di Erdogan”, condotto dal leader turco tanto sul gas quanto sulla macroarea euro-mediterranea, prosegue imperterrito con l’avvertimento del ministro degli Esteri turco Cavusoglu: “Nel caso di sanzioni per l’acquisto di missili russi, in dubbio le basi strategiche di Incirlik e Kurecik”.

l lavoro avviato nell’ultimo triennio dall’ambasciatore americano ad Atene, Jeoffrey Pyatt, ha portato a infittire le relazioni ellino-americane, a costruire nuove partnership commerciali come quella tra il segretario al Commercio Ross e l’armatore greco Marinakis che prevede la nascita della terza maggiore flotta al mondo di navi da carico e a valorizzare poli industriali in Grecia fino a ieri in forte crisi (come i cantieri navali di Syros finiti sotto il controllo americano).

Uno scenario che in pochi anni, dunque, è cambiato radicalmente in quanto la possibile regia di Pechino e Mosca ad Atene è stata seguita, analizzata e ammorbidita dalle manovre americane che puntano così a rendere la Grecia un hub strategico nel Mediterraneo, sia sotto il versante militare che sotto quello energetico.

Washington inoltre ha “benedetto” il quadrumvirato del gas esistente tra i governi di Cipro, Grecia, Israele ed Egitto per dare slancio al gasdotto Eastmed, il più lungo del mondo che avrà anche un impatto geopolitico, oltre che economico e finanziario.

La Marina Militare Italiana ha reso noto che la fregata Federico Martinengo “ha effettuato una sosta nel porto di Larnaca, Cipro, dal 6 al 9 dicembre. Nave Martinengo, sta conducendo un’operazione di pattugliamento nel Mar Mediterraneo Orientale per svolgere attività di presenza e sorveglianza degli spazi marittimi, in rispetto del diritto internazionale e a tutela degli interessi nazionali”.

La nota ha aggiunto che “durante la sosta, iniziata lo scorso venerdì 6 dicembre, il comandante e una rappresentanza dell’equipaggio hanno partecipato alle celebrazioni di San Nicola, patrono della Marina -cipriota. Lasciato il porto, la fregata Martinengo condurrà attività addestrative con navi delle marine di Paesi amici dal 12 al 14 dicembre”.

“La presenza nel porto di Larnaca rientra nell’ambito delle attività di Diplomazia Navale, peculiarità della Marina Militare, svolte nel settore della cooperazione internazionale e del dialogo tra i Paesi dell’area, con cui l’Italia intrattiene importanti rapporti politico-diplomatici, economici e industriali” ha concluso il comunicato della Marina.

la missione della fregata italiana in quell’area va messa in relazione con le tensioni in atto tra Grecia e Cipro da una parte e Turchia e Libia (Governo di Accordo Nazionale – GNA – di Tripoli) dall’altra in seguito alle dispute sulle Zone Economiche Esclusive (ZEE) nel Mediterraneo Orientale

Il recente accordo tra Ankara e Tripoli scrive AD, firmato a Istanbul il 27 novembre, consente di fatto ai turchi di esercitare il controllo su uno specchio di mare che si incunea tra Creta e Cipro fino a incontrare a sud la ZEE libica. Un “accordo di demarcazione” contestato e ritenuto illegittimo dalla Grecia e che potrebbe impedire la realizzazione del gasdotto EastMed, destinato a portare in Europa il gas estratto nei giacimenti greci, ciprioti, israeliani ed egiziani attraverso Creta e l’Italia

L’accordo turco-libico ricopre del resto anche un importante veste militare che impatta sul conflitto in atto intorno a Tripoli dall’aprile scorso. “Siamo fiduciosi che insieme miglioreremo le condizioni di sicurezza del popolo libico. La stabilità della Libia è di importanza cruciale per la sicurezza dei libici, la stabilità regionale e la prevenzione del terrorismo internazionale”, ha commentato su Twitter il portavoce della presidenza turca, Fahrettin Altun, subito dopo la firma dell’intesa.

Secondo Altun l’accordo è “una versione più ampia” di quello precedente e riguarda “l’addestramento, struttura la cornice legale e rafforza i legami tra i nostri eserciti”.

“Se la Libia ce lo chiedesse, saremmo pronti a mandare tutte le truppe di cui ci fosse bisogno” ha annunciato ieri Erdogan in un discorso all’università Bilkent di Ankara ribadendo un’ipotesi già annunciata in un’intervista alla tv statale TRT.

 

 

 

 

 

Rispondere all'accordo sulle frontiere marittime tra Turchia e Libia che preoccupa la Grecia - è il compito dei ministri degli esteri dell'Ue riuniti a Bruxelles. Occhi puntati su Jospeh Borrell per capire quali strategie abbia in mente. Il 72enne spagnolo è il nuovo capo degli affari esteri dell'UE e presiederà questi incontri per i prossimi 5 anni secondo Euronews

"Abbiamo dovuto affrontare un protocollo d'intesa firmato tra la Libia e la Turchia. È chiaro che questo documento suscita grande preoccupazione. Abbiamo espresso la nostra solidarietà alla Grecia e a Cipro e continueremo a farlo"ha affermato Joseph Borrell.

Paesi come la Grecia e Cipro, ritengono l'accordo sia contrario al diritto internazionale.

"Ho chiesto la condanna esplicita dell'accordo, la previsione di un quadro di sanzioni eventualmente per la Turchia e il governo di Tripoli qualora non rispettassero il diritto internazionale, e, naturalmente, il sostegno dell'Ue alla Grecia e a Cipro" ha affermato Nikos Dendias, ministro degli affari esteri della Grecia.

I ministri degli esteri hanno anche discusso di un piano tedesco per trovare una soluzione sostenibile all'instabilità in Libia. Per la ONG Amnesty International, è responsabilità di Joseph Borrell porre fine alle violazioni dei diritti umani nel paese.

Per difendere Eni e Total dalle provocazioni di Erdogan Italia e Francia mandano le fregate nel blocco 7 della ZEE ha dichiarato ai giornalisti il ministro della Difesa greco Nikos Panagiotopoulos. Al momento ci sono già gli incrociatori turchi che accompagnano la perforatrice turca Yavuz, impegnata in attività illegali in blocchi che sono stati assegnati tramite regolare banco a players primari come Exxon Mobile, Eni e Total. Ma la Turchia, dopo la zampata in Siria, ne medita un’altra per il prezioso idrocarburo.  

Il memorandum d'intesa firmato tra la Turchia e il governo libico di Tripoli il mese scorso sulle frontiere marittime "è una minaccia per la stabilità regionale".
Lo ha detto il portavoce del governo greco Stelios Petsas in una conferenza stampa, secondo quanto riferisce il sito Ekathimerini. La Grecia ha inviato due lettere all'Onu per chiedere un intervento delle Nazioni Unite, delineando le obiezioni all'accordo, visto come un tentativo di espandere i diritti di trivellazione turca nel Mediterraneo orientale.

Stando a quanto riportato da al Jazeera, il governo di Kyriakos Mītsotakīs avrebbe deciso di inviare una delegazione di navi da guerra a Creta, dopo che Libia e Turchia hanno istituito una ZEE marittima (Zona economica esclusiva) senza tener conto né della presenza dell’isola greca nell’area, né del fatto che la Grecia stessa interpreta quell’area – stando alle leggi internazionali – come una propria zona economica esclusiva.  

Per quanto riguarda i rapporti con la Libia, la Grecia aveva già espulso l’ambasciatore libico da Atene lo scorso 6 dicembre, dopo che gli esponenti del governo di al-Sarraj avevano dichiarato di non voler fare passi indietro sugli accordi.

La situazione resta caratterizzata da una altissima tensione, come dimostrano le parole che giungono da Ankara: fa sapere che non “arretrerà” nella sua ricerca del gas naturale nelle acque del Mediterraneo orientale, nonostante una controversia con l’Unione Europea e con Cipro. Lo ha confermato il ministro dell’Energia Fatih Donmez, condotta che è stata anche al centro di una precisa risposta da parte del segretario di Stato americano Mike Pompeo, che l’ha definita “illegale”.

Ma Donmez non se ne è curato e ha raddoppiato: “Abbiamo già perforato due pozzi nelle acque ad est e ad ovest dell’isola di Cipro, e Yavuz perforerà il nostro terzo pozzo. Tali attività proseguiranno con determinazione”, ha detto in occasione del Summit energetico di Antalya.

Due giorni prima, durante gli incontri del vertice Nato a Londra, Mītsotakīs aveva incontrato Erdoğan «per discutere di tutte le questioni che hanno aumentato le tensioni tra i due Paesi».

Che gli accordi tra Turchia e Libia soprattutto la parte sull’esclusività commerciale avrebbero complicato gli equilibri nell’area era chiaro fin dalle prime ore della firma. Il 28 novembre, data della stipulazione dei memorandum a Istanbul, si era subito espresso il ministro dell’Interno greco, Nikos Dendias, che aveva affermato come, qualsiasi fossero i dettagli dell’accordo tra i due Paesi, questo «ignorava qualcosa di ovvio, e cioè che tra questi due Paesi c’è Creta».

I diritti di estrazione del petrolio, gas e i relativi gasdotti che solcheranno nel Mediterraneo orientale da est a ovest verso l’Europa. Ecco il vero nocciolo della questione. A scatenare la reazione greca è il recente accordo turco-libico che secondo Atene dimentica la sovranità greca di Kastellorizo, l’isola del film Mediterraneo che era parte, in precedenza, del Dodecaneso italiano di Rodi. L’accordo con il governo libico prevede la giurisdizione della Turchia in un tratto delle acque nordafricane, giurisdizione che Ankara rivendica in base all’estensione della propria costa e la posizione delle proprie isole, rigettando le pretese di Grecia e della parte greca di Cipro, basate sull’esistenza dell’isola greca di Kastellorizo, situata a pochi chilometri dalla costa turca.

L’intesa turco-libica “costituisce un’aperta violazione del diritto della navigazione e dei diritti sovrani della Grecia e di altri Paesi”, ha denunciato Dendias, giudicandolo come un tentativo deliberato di creare tensioni “sia a livello bilaterale che a livello regionale”. Immediata è giunta la reazione di Ankara mai tenera con il vicino greco. Il suo ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha definito la decisione “oltraggiosa”.

Il memorandum d’intesa Ankara-Tripoli, siglato una settimana fa a Istanbul da Erdogan con il premier del governo di Accordo nazionale libico (Gna) riconosciuto dall’Onu, Fayez al-Sarraj, attribuisce alla Turchia il controllo su un’ampia porzione del Mediterraneo orientale, rivendicata però anche da Grecia, Cipro ed Egitto. Il patto, fortemente avversato anche dal sedicente Esercito nazionale libico (Lna) guidato dal generale Khalifa Haftar, estenderebbe di circa un terzo i confini della piattaforma continentale turca, coprendo peraltro zone cruciali per le estrazioni di idrocarburi offshore in un’area che Cipro ritiene sua zona economica esclusiva (Zee).

Un ulteriore incremento dell’influenza turca in Libia rischia di versare altra benzina sul fuoco in un Paese fallito e dilaniato da una lunga guerra civile. Le dinamiche della presenza turca in Libia sono molto simili a quelle già osservate in Siria: l’utilizzo di proxy islamisti e jihadisti per raggiungere i propri obiettivi di egemonia, il rifornimento di armi, automezzi e consiglieri militari, presenza istituzionale sul territorio per coordinare le manovre.

Se in Siria per la Turchia era semplice far entrare rifornimenti via terra, in Libia Ankara fa altrettanto con spedizioni aeree e navali, consapevole del fatto che nessuno si metterà di traverso, esattamente come già accaduto durante il conflitto siriano, con la Turchia presa più volte in castagna mentre riforniva di armi i jihadisti  e li curava nei propri ospedali, ma senza alcuna conseguenza.

Per Erdogan, legato all’area della Fratellanza,  il sostegno agli islamisti nella Libia occidentale è una priorità in quanto conta sempre meno alleati in un Medio Oriente che vede i Fratelli musulmani messi al bando in Egitto, Siria, Arabia Saudita ed Emirati e con il Qatar che era stato isolato dai suoi “vicini” del Golfo proprio per il supporto ai Fratelli musulmani e a milizie jihadiste in Siria.

Non bisogna poi dimenticare che Erdogan è acerrimo nemico del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, fautore del contrasto all’islamismo radicale della Fratellanza e colui che ha militarmente sostenuto la rivolta del popolo egiziano contro l’ex presidente islamista Mohamed Morsi. Non è certo un caso che, proprio in seguito al decesso di Morsi, Erdogan abbia puntato il dito contro il Cairo, definendo Morsi “un martire”.

L’Egitto di Al Sisi, assieme a Emirati e Arabia Saudita, svolge un ruolo fondamentale nel sostegno all’esercito di Khalifa Haftar e la Libia diventa dunque teatro di scontro tra islamisti e jihadisti da una parte e il blocco anti Fratellanza dall’altra.

C’è poi un ulteriore aspetto da tenere bene in considerazione, quello migratorio: un controllo turco sulle coste della Libia occidentale porterebbe infatti l’Europa in una pericolosa morsa in quanto Ankara potrebbe replicare nel Paese nordafricano quanto già fatto sulla rotta orientale e cioè minacciare un esodo di immigrati, pressando così l’Europa sia da sud che da est. In tutto ciò è lecito chiedersi da che parte stia l’Italia.

«Se la Libia ce lo chiedesse, saremmo pronti a mandare» tutte le truppe «necessarie». Dopo l'intervento in Siria contro le milizie curde, Recep Tayyip Erdogan minaccia di gettarsi nella mischia del conflitto libico. «Dopo la firma dell'accordo di sicurezza» con il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, «non ci sono più ostacoli», ha avvertito il presidente turco, aprendo un nuovo fronte che rischia di metterlo in rotta di collisione anche con «l'amico» Vladimir Putin. «C'è una compagnia di sicurezza russa chiamata Wagner.

Questa compagnia ha mandato il suo staff» in Libia a sostegno del generale Khalifa Haftar, ha accusato Erdogan, riferendosi alle notizie di circa 200 mercenari giunti nell'area, smentite da Mosca. I due leader ne parleranno in una telefonata nei prossimi giorni. Un possibile intervento turco rischia di accrescere le tensioni in Libia, dove da mesi proseguono gli scontri tra le forze fedeli a Tripoli e il sedicente Esercito nazionale libico (Lna) del generale Haftar, sostenuto soprattutto da Emirati Arabi Uniti, Egitto e Russia. Anche l'Italia segue da vicino la situazione e monitora gli sviluppi. Un nuovo vertice si è tenuto oggi a Palazzo Chigi tra il premier Giuseppe Conte e i ministri degli Esteri Luigi di Maio, della Difesa Lorenzo Guerini e dell'Interno Luciana Lamorgese. Una riunione in cui appare scontato si sia parlato anche delle parole di Erdogan.

Sono mesi sempre più problematici per l’economia della Germania, sempre più fiacca e intrappolata nel circolo vizioso della stagnazione produttiva e dell’assenza di vere prospettive di rilancio.

L’Italia, priva di una politica industriale degna di questo nome, rischia di essere la grande sconfitta della crisi tedesca. I dati di alcuni settori dell’Italia del Nord sono indicativi in tal senso: tra settembre e novembre, ad esempio, l’economia della provincia di Brescia, tra le più integrate con la Germania, ha conosciuto un rallentamento del 4,5% nel campo della produzione industriale, ancora più accentuata in quei settori funzionali all’export, come metallurgia (-6,7%), meccanica tradizionale (-5,9%) e componentistica (-4,9%). In Lombardia, oltre al caso bresciano, il Messaggero segnala che i distretti più in crisi nell’ultimo scorcio di 2019 sono alcuni tra quelli più legati alla catena del valore tedesca, specie nel settore auto: la gomma del Sebino Bergamasco (-9,7%), la metalmeccanica di Lecco (-7%) e la meccanica strumentale di Bergamo (-14%). La crisi della Germania è una crisi europea. E l’Italia deve impegnarsi politicamente per contenerne le conseguenze interne: non sapendo per quanto a lungo si potrà protrarre, un’azione incisiva in materia di politica commerciale ed industriale non è solo desiderabile ma anche necessaria.

“L’industria dell’auto più di ogni altra branca, ma anche il resto del vasto comparto manifatturiero tedesco, soffre della crisi mondiale del mercato delle quattro ruote”, fa notare Repubblica. Tale situazione problematica è “aggravata poi dai ritardi delle scelte di conversione produttiva di ogni marchio tedesco dalle auto a motori a combustione interna a modelli ibridi o elettrici, rispetto ai concorrenti asiatici, francesi, o nel comparto premium anche a confronto con Volvo”. La flessione è stata del 5,6% su base mensile e addirittura del 14,4% su base annua.

I campanelli d’allarme della Germania devono preoccupare tutta l’Europa. Intenta a serrate discussioni sul “fondo salva-Stati” (il Mes) che non devono contribuire a spostare l’attenzione dal quadro generale: la complessiva rigidità della governance economica europea avente al suo centro la Germania della Merkel. Il mercantilismo tedesco è la risultante della somma dell’austerità europea alla svalutazione interna, ma l’integrazione delle catene del valore ha portato molte industrie europee, tra cui quella dell’Italia del Nord, a essere integrate nei processi produttivi delle case madri di Berlino.

Ma la soluzione del problema economico Italiano potrebbe arrivare dal Giappone ..
Secondo quanto riportato da Bloomberg, per attuare le misure previste, il governo nipponico è pronto a stanziare un budget dal valore di 216 miliardi di euro, 121 miliardi dei quali saranno destinati al taglio delle tasse. In altre parole, per limitare i danni di un’imminente recessione globale, il Giappone pensa che non basti supportare le banche centrali, ma che occorra invece sostenere la crescita dello Stato mediante un’iniziativa politica.

A limitare l’Italia dall’adottare la ricetta del Giappone, oltre all’euro, sono anche vari trattati che inchiodano il nostro Paese a un destino nefasto. L’Unione europea marca a uomo il governo italiano ed è pronta a farsi sentire quando Roma prova, anche solo lontanamente, a imboccare la strada della diminuzione del deficit. Guai a far aumentare il deficit, che deve essere ancorato ai diktat di Bruxelles e non alle esigenze del Paese. Secondo "inside Over" la situazione è alquanto paradossale se pensiamo che l’Ue, attenta a sorvegliare i nostri conti, pretende il pagamento di 110 miliardi di euro per salvare le banche tedesche e francesi nell’ambito della riforma del Mes. Non potendo spendere un euro senza l’ok di Bruxelles, a uno “Stato senza moneta” non resta che recuperare la somma richiesta dai conti correnti dei cittadini. Ma questi, per i tecnocrati dell’Ue, sono evidentemente dei dettagli secondari.

Quanto intende mettere in campo il Giappone – e che per certi versi ha già fatto Trump negli Stati Uniti con buoni risultati – potrebbe fungere da interessante spunto anche per l’Europa, Italia compresa. Il nostro Paese avrebbe proprio bisogno della medicina adottata da Tokyo: uno stimolo alla crescita in grado, allo stesso tempo, di abbattere le tasse e far ripartire l’economia. Investimenti pubblici, ad esempio sarebbero richiesti con una certa impellenza nel campo dell’innovazione così come delle infrastrutture.

Uno stimolo enorme all’economia affiancato da uno stimolo alla domanda interna, sottolinea inside over così da assicurare da eventuali crisi estere: sono queste le due armi che dovrebbe imbracciare l’Italia seguendo l’esempio giapponese. Tra l’altro, imitare i samurai nipponici ci costerebbe circa 40 miliardi di euro, ovvero una cifra più che dignitosa per far ripartire un’economia congelata da una ventina di anni abbondanti. Certo, bisogna fare i conti con una differenza non da poco: è vero che il Giappone ha un debito pubblico che si aggira intorno al 240% del Pil – a fronte del 130% italiano – ma è altrettanto vero che, a differenza di Roma, Tokyo può contare su una sovranità monetaria.

 

Intanto in caso di elezioni, Meloni ricorda che il centrodestra avrebbe già un suo programma scritto nel 2018, che andrebbe comunque aggiornato. Secondo l’ex ministro, Lega, Fi e Fdi hanno una visione comune che è sicuramente più solida di quella dell’attuale maggioranza. L’ex vicepresidente della Camera ribadisce però che non ci sarebbe un’uscita dell’Italia dall’euro, se il suo partito andasse al governo. “Ma non penso che per stare in Europa si possa accettare tutto quello che fa male all’Italia - precisa Meloni scrive il Giornale -. Vanno valutati vantaggi e svantaggi. Alcuni Paesi, come la Germania, si sono avvantaggiati, altri, come l’Italia, si sono impoveriti”.  

il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha accusato l’opposizione di fare terrorismo sul Mes a scopi elettorali e in questo Meloni è convinta delle sue idee. Tanto è vero che oggi sarà a Bruxelles con tutti i parlamentari di Fdi per sottolineare con forza che il partito non è disposto a farsi prendere in giro su una questione così importante. In un'intervista alla Stampa, l’ex ministro auspica che qualcuno risponda alle sue osservazioni, riassumibili in alcune domande. “È vero o non è vero che con la riforma il Mes diventa sempre più un fondo salva-banche? - chiede la deputata -. È vero o no che chi accede a fondo potrebbe essere costretto a ristrutturare il suo debito? È vero o no che questa ipotesi potrebbe rendere meno appetibili i titoli di Stato italiani?”. Meloni va poi all’attacco di Luigi Di Maio che in passato aveva espresso i suoi dubbi sul Mes. E ricorda che i pentastellati sostenevano nel loro programma il superamento del Meccanismo, mentre oggi stanno per votare la sua riforma.

Il Direttore SVIMEZ Luca Bianchi  presentato nella sala Bliblioteca della Stampa Estera il Rapporto SVIMEZ 2019 sull'Economia e la Società del Mezzogiorno. Presenti numerosi giornalisti e foto cine operatori della stampa straniera. Molte le domande sui recenti studi della SVIMEZ sull’impatto della crisi dell'ex Ilva sull'economia nazionale Ha moderato Gianfranco Nitti.

E questa sarebbe in sintesi quello che lui ha parlato con i colleghi della stampa estera

“Nel Sud gli emigrati sono il doppio degli immigrati. Se si va avanti così la Basilicata rischia di scomparire. Ma il problema riguarda tutto il Mezzogiorno. Il rischio è che la soluzione del Mezzogiorno avverrà per assenza dei meridionali”. Ad andare via sono soprattutto i giovani. “Serve un grande piano di investimenti in infrastrutture sociali”. Lo dice il direttore SVIMEZ, Luca Bianchi, alla stampa estera .

"Nel progressivo rallentamento dell'economia italiana, si è riaperta la frattura territoriale che arriverà a segnare un andamento opposto tra le aree, facendo ripiombare il Sud nella recessione da cui troppo lentamente era uscito". Così si legge nelle anticipazioni del rapporto Svimez secondo il quale nel 2019 "l'Italia farà registrare una sostanziale stagnazione, con incremento lievissimo del Pil del +0,1%. Al Centro-Nord dovrebbe crescere poco, di appena lo +0,3%. Nel Mezzogiorno, invece, l'andamento previsto è del -0,3%.

"Si riallarga il gap occupazionale tra Sud e Centro-Nord, nell'ultimo decennio è aumentato dal 19,6% al 21,6%: ciò comporta che i posti di lavoro da creare per raggiungere i livelli del Centro-Nord sono circa 3 milioni". E' quanto emerge dal Rapporto Svimez. "La crescita dell'occupazione nel primo semestre del 2019 riguarda solo il Centro-Nord (+137.000), cui si contrappone il calo nel Mezzogiorno (-27.000)", viene sottolineato.


La SVIMEZ riguardo l ilva ha valutato tale impatto, distinto per le diverse aree geografiche utilizzando il suo modello di previsione econometrico. L’esercizio di valutazione considera gli effetti diretti, indiretti, e indotti.


1)  Il primo riguarda la produzione realizzata e l’occupazione che si perderebbe direttamente nei tre impianti oggetto di valutazione.

2)  Il secondo effetto (indiretto) valuta conseguenza,in termini di minori input e servizi acquistati, che dai tre impianti si diffondono nei restanti comparti, e da questi ad altri ancora. Nell’effetto indiretto, ad esempio, è computato il valore (e l’occupazione) dell’energia elettrica prodotta in regione e/o altrove necessaria ad alimentare le acciaierie.

3)  Il terzo, l’indotto, riguarda la riduzione di consumo che deriva dai minori livelli di occupazione, diretta e indiretta.

L’impatto annuo sul PIL nazionale è stimato, considerando gli effetti diretti, indiretti e indotti, in 3,5 miliardi di euro, di cui 2,6 miliardi concentrata al Sud (in Puglia) e i restanti 0,9 miliardi nel Centro-Nord, pari allo 0,2% del PIL italiano. Se consideriamo l’impatto sul Pil del Mezzogiorno si sale allo 0,7%.

Un impatto negativo si avrebbe soprattutto sulle esportazioni (-2,2 mld) ma anche sui consumi delle famiglie (-1,4 mld), considerando il significativo impatto del venir meno degli stipendi degli addetti dello stabilimento, dell’indotto diretto e degli effetti occupazionali del rallentamento dell’economia. Si ricorda infatti che l’occupazione impegnata da ILVA è di quasi 10 mila addetti (di cui oltre l’80% a Taranto), di circa 3 mila dipendenti nell’indotto e di altri 3 mila addetti legati all’economia attivata dall’azienda. Parliamo di un bacino complessivo di oltre 15 mila persone che rischierebbe di perdere il salario.

Un ulteriore esercizio, più completo, è stato svolto inoltro al fine di valutare non soltanto l’effetto immediato della chiusura rispetto all’attuale situazione che, come detto, è già molto al disotto del potenziale produttivo, ma valutando quanto l’Italia perde dal non portare a termine il piano industriale che l’azienda si era impegnata a realizzare.

Il piano industriale proposto da AM Investimenti prevedeva di portare la produzione di Taranto e dei due siti del Nord a otto milioni di tonnellate, pari a circa il 35% della produzione nazionale di acciaio. Dopo il 2023, con la messa nuovamente in funzione dell’altoforno numero cinque, l’output realizzato a Taranto sarebbe dovuto salire a otto milioni di tonnellate annue (cui si aggiungerebbero i due milioni realizzati nel Nord) e la quota sul totale nazionale sarebbe destinata a salire a oltre il 40%. Nell’arco temporale di implementazione del piano industriale la nuova società avrebbe inoltre realizzato 2,4 mld. di euro di nuovi investimenti, cui si aggiungevano i circa 1,1 mld. di spese destinate alla bonifica del sito oggetto di transazione con la precedente proprietà.

Nel periodo di attuazione del piano industriale (2019-2023), il Pil complessivamente attivato dalla produzione realizzata nel sito di Taranto e negli altri due del Nord sarebbe stato pari a 19 mld. di euro nell’intero arco temporale coperto dal piano industriale.  per avere un termine di paragone, si tratta nel complesso di 1,1% del Pil italiano; nel Sud l’impatto sale al 3,7% del Pil dell’area.

Sotto il profilo occupazionale, nell’intero periodo di attuazione del piano industriale si valuta che la produzione complessivamente realizzata avrebbe creato circa 51,000 posizioni lavorative, di cui 41,000 in puglia e le restanti altrove (anche in questo caso: la gran parte nel Centro-Nord).......

 

Intanto la SVIMEZ esprime apprezzamento, ma anche qualche perplessità, sulla legge quadro recante «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata» presentata dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Nel corso di un’audizione presso la Commissione (VI) Finanze della Camera dei Deputati, il Presidente e il Direttore SVIMEZ, Adriano Giannola e Luca Bianchi, hanno spiegato che si tratta di «un’importante iniziativa da parte del Governo perché opportunamente orientata a colmare un rilevante vuoto normativo con una leggequadro di attuazione del dettato costituzionale». 

 

E giudicano un notevole passo in avanti i riferimenti ai LEP, agli obiettivi di servizio e ai fabbisogni standard rispetto alle bozze di intesa di Emilia Romagna, Veneto e Lombardia che evitavano ogni riferimento alla legge 42 del 2009 e al D. Lgs. 68/2011. Oltre al fatto di riconoscere un maggior, anche se ancora insufficiente, protagonismo del Parlamento. Tra le note positive, SVIMEZ ha anche evidenziato che quanto previsto dalla legge quadro in tema di contributo delle Regioni richiedenti al risanamento delle finanze pubbliche consente di scongiurare i rischi di equità territoriale e di tenuta unitaria del sistema unitario dei conti pubblici sottesi alle richieste fin qui avanzate. 

 Così come viene valutato favorevolmente il richiamo che viene fatto, tra gli obiettivi e le previsioni alle quali lo Stato dovrà conformarsi nella sottoscrizione delle Intese, all’esigenza del rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza delle funzioni decentrate sanciti dall’art. 118 della Costituzione. Accanto ai pregi della bozza di legge, l’Associazione ha esposto alla Commissione Parlamentare alcune perplessità ribadendo la necessità di inquadrare la discussione in tema di autonomia differenziata nel contesto «allargato» di un’attuazione organica, completa ed equilibrata del Titolo V riformato nel 2001 e in conformità della legge 42 di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Il primo punto che rischia di indebolire fortemente l’impostazione (corretta) della legge-quadro come tassello della riforma complessiva del Titolo V della Costituzione, è quello in cui è previsto che, qualora entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa che attribuisce per la prima volta la funzione, non siano stati definiti i LEP e i fabbisogni standard, le funzioni siano attribuite e le relative risorse siano assegnate «sulla base delle risorse a carattere permanente iscritte nel bilancio dello Stato a legislazione vigente». 

 L’utilizzo sia pur transitorio della spesa storica, lascia aperto il rischio di una cristallizzazione dei divari di spesa, cui è imputabile una parte non trascurabile della crescita dei divari dell’ultimo decennio denunciata da questa Associazione. Del resto, lo stesso Ministro Boccia, in sede di audizione a questa Commissione, il 23 ottobre 2019 ha confermato che, in carenza di LEP, costi e fabbisogni standard, il criterio di assegnazione della spesa storica ha determinato la sistematica penalizzazione delle aree meno sviluppate e, in particolare, delle regioni meridionali. Nonostante sia comunque da valutare positivamente il tentativo di fornire un ancoraggio «cooperativo» all’autonomia differenziata, il disegno di legge è poi migliorabile con riferimento ad ulteriori due aspetti «sostanziali» tra loro connessi. 

 Il primo riguarda l’assenza della individuazione puntuale di criteri di accesso al regionalismo differenziato «da verificare sulla base di analisi e valutazione accurate e adeguatamente documentate» secondo quanto suggerisce anche l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Il secondo riguarda il fatto che il d.l. non esplicita tra i principi ai quali deve conformarsi l’Intesa Stato-Regione che le concessioni di autonomia rafforzata su singole funzioni vadano motivate dall’interesse nazionale, non da quello particolare delle singole Regioni richiedenti. Non intervenendo su questi due aspetti, il disegno di legge lascia sostanzialmente inevasi due quesiti: le richieste di autonomia rafforzata che verranno accolte, saranno motivate adeguatamente da giustificazioni economiche nell’interesse pubblico nazionale? E, parimenti rilevante, come e quanto verrà valutato il fatto ampiamente certificato di aver fruito dal 2009 di un improprio privilegio nel riparto di risorse pubbliche erariali di conto corrente ed in conto capitale sottratte ad altri territori? La legge Boccia, infine, interviene sul vulnus della perequazione infrastrutturale, in particolare sull’indifferibile esigenza di colmare i divari, soprattutto ma non solo tra Sud e Nord, nelle dotazioni e nella qualità dei servizi erogati.

E a tal fine prevede l’istituzione di un Fondo perequativo con una dotazione iniziale di 100 milioni per il 2022, 200 per il 2023 e 300 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2034, al fine di assicurare il recupero del deficit infrastrutturale delle diverse aree geografiche del territorio nazionale, anche infra-regionali. Quanto previsto dall’art. 3 del d.l. può contribuire all’accelerazione del processo di ricognizione dei divari di dotazioni esistenti, ma emergono rilevanti criticità in ordine alla costituzione di un apposito Fondo, che peraltro si aggiungerebbe alle diverse programmazioni già esistenti della spesa ordinaria e aggiuntiva, i cui obiettivi sono chiaramente sproporzionati rispetto alla modesta dimensione finanziaria. Il maggiore rischio è soprattutto quello di costituire un ulteriore fondo di riserva per le aree a ritardo infrastrutturale, rinunciando all’obiettivo di riuscire ad orientare l’intera politica infrastrutturale del Paese all’obiettivo di rimozione di tali deficit, in coerenza con i vincoli di finanza pubblica.

Kyriakos Mitsotakis .. Nel suo albero genealogico è il quarto primo ministro greco: suo padre Konstantinos fu terzo, sua sorella Dora Bakoyannis è stata ministra degli Esteri. Essere venuto al mondo in una famiglia così non è stato solo un privilegio per quest’uomo di 51 anni, con diplomi a Harvard e Stanford e una carriera a McKinsey nel curriculum. Quand’era neonato, i suoi vivevano relegati agli arresti domiciliari dalla giunta dei colonnelli; quand’era studente, suo cognato fu trucidato da un gruppo armato comunista. Dev’essere anche per questo che Mitsotakis nel Maximou, la residenza dei premier, non mostra affatto la noncuranza di uno che sente di esercitare un diritto naturale; è motivatissimo, carico di energia quando dice: «Darò alla Grecia una direzione nuova dopo l’era della crisi».  

Non c’è solo la vicinanza geografica, o la comune appartenenza all’Unione europea o all’Alleanza Atlantica. Tra Italia e Grecia l’interscambio commerciale, dopo aver registrato un calo a causa della crisi economica, si è attestato su valori pressoché costanti negli ultimi anni (intorno ai 6,5 miliardi di euro, secondo i dati Istat), con il saldo commerciale sempre a favore dell’Italia. E proprio il tema dei rapporti tra i due paesi e stato sul tavolo dell’incontro a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis. L’incontro e avvenuto a poche ore dal sisma che ha colpito l’Albania.

L’Italia è il secondo fornitore della Grecia dopo la Germania ma prima della Cina, mentre sul lato delle importazioni il paese è il primo mercato di destinazione dei beni ellenici seguito da Germania e Cipro. Le esportazioni greche verso l’Italia sono soprattutto di prodotti agricoli (olio di oliva, frumento, tabacco), alimentari, prodotti ittici e silvicoli, metallurgici (acciaio, laminati, alluminio) e prodotti chimici e petroliferi raffinati. Il grado di penetrazione dei prodotti italiani è considerevole. I comparti in cui maggiore è il flusso proveniente dall’Italia sono quelli delle attrezzature industriali, delle macchine utensili, dei prodotti chimici e farmaceutici, dei mezzi di trasporto, dell’agro-alimentare, dei prodotti in gomma, plastica e carta, dei mobili, a cui si aggiungono i settori dei materiali da costruzione, delle telecomunicazioni, del tessile (abbigliamento e accessori) e dei prodotti di largo consumo.

La Grecia mantiene la sua posizione dichiara al Corriere della sera il Primo Ministro Greco come partner commerciale importante dell’Italia. Siete la destinazione più importante del nostro export e il nostro secondo maggior fornitore. Abbiamo visto importanti investimenti di imprese italiane nell’energia, nei trasporti e nelle costruzioni e invito le aziende del vostro Paese a investire ancora di più da noi, per approfittare dell’ambiente favorevole alle imprese che stiamo creando. Oltre al programma Hercules Aps (per le banche, ndr), sono stati sbloccati grossi progetti d’investimento nelle costruzioni come l’Hellinikon e l’ampliamento del porto del Pireo. Sono ripartite le privatizzazioni, inclusa quella del aeroporto internazionale di Atene. Ed è stato messo in piedi un progetto credibile per rafforzare l’azienda più grande del Paese, la Public Power Corporation». 

Lo stato e la dinamica delle relazioni bilaterali tra Italia e Grecia, i progetti energetici come il gasdotto transadriatico (Tap) e l’East-Med, fino alla questione della gestione dei flussi migratori per i paesi di primo approdo. Secondo la stampa di Atene, uno spazio particolare sarà dedicato proprio alla crisi dei migranti e al coordinamento richiesto a livello europeo e quindi ad una politica comune per trovare una soluzione al problema.

«Abbiamo accelerato le procedure di asilo e stiamo mettendo su centri di detenzione pre-ritorno in Turchia dichiara il Primo Ministro al Corriere della sera ... Ora, poiché la situazione è chiaramente molto difficile, abbiamo preso una decisione politica anch’essa delicata: spostare 20 mila persone dalle isole alla terraferma. Ma l’Europa deve smettere di nascondere la testa nella sabbia e fingere che questo sia solo un problema greco, italiano o spagnolo. È una questione europea».

In virtù del nuovo aumento degli sbarchi, il governo greco guidato da Mitsotakis ha promesso un giro di vite per aumentare l’efficienza delle guardie di frontiera e prevenire nuovi ingressi. Da dicembre, il numero di militari addetti alla prevenzione di nuovi ingressi aumenterà di 1.200 unità, sia lungo le coste che lungo i confini terrestri. Qui il governo ellenico sta pensando a fortificare anche fisicamente le frontiere con la Turchia e con la Bulgaria. Più a nord, i Paesi balcanici hanno già stanziato ingenti risorse e mezzi per fronteggiare l’aumento del flusso migratorio. Militari ungheresi presidiano le barriere di filo spinato lungo il confine con la Serbia, soldati della Macedonia del Nord guardano con costante attenzione le frontiere sempre più fortificate con la Grecia. 

Nei giorni scorsi in Croazia i militari hanno sparato verso un gruppo di persone entrate irregolarmente per cacciarle indietro, in Slovenia si invoca l’utilizzo di sensori lungo le frontiere. I colloqui si sono concentrati su progetti energetici condivisi dai due paesi. Il Tap, gasdotto in costruzione che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per trasportare il gas sino in Italia, e l’East-Med, altro progetto rilevante a livello regionale che dovrebbe essere completato e attivato entro il 2025 per trasportare gas naturale da Israele all'Italia attraverso Cipro e Grecia. Infine i due capi di governo hanno discusso sulla  prospettiva di adesione all’Unione europea per i paesi dei Balcani occidentali.    

Da Cenerentola d’Europa a paradiso dei ricchi investitori stranieri grazie a una politica di generosi incentivi fiscali. È questo il piano della Grecia pro-business del premier Kyriakos Mitsotakis, pronta a introdurre una flat tax da 100 mila euro sui redditi globali dei grandi investitori che trasferiscano la residenza fiscale in Grecia (il cosiddetto programma non-dom) e ad alleggerire le imposte societarie pagate nel Paese ellenico e quelle su dividendi ed esercizio delle opzioni su azioni.

L’obiettivo del governo, a un anno dall’uscita dall’ultimo piano di salvataggio internazionale, è chiaro: attrarre soprattutto investimenti che creino lavoro. per sostenere una ripresa che anche le ultime previsioni di autunno della Commissione europea confermano robusta: +1,8% la crescita del Pil quest’anno, 2,3% l’anno prossimo. Meno del 2,8% auspicato dall’esecutivo, ma pur sempre il doppio della media dell’Eurozona.  

Stiamo legiferando sui tagli alle tasse proprio ora dichiara al Corriere della sera il Primo Ministro Ellenico. Abbiamo appena presentato un nuovo pacchetto fiscale che taglia l’aliquota sulle imprese dal 28% al 24%, i dividendi dal 10% al 5% e taglia notevolmente il carico sul settore immobiliare. In più, creiamo un sistema di vantaggio per gli stranieri che fanno della Grecia la loro residenza fiscale e rendiamo fiscalmente conveniente la spesa in ricerca e sviluppo. È tutto concordato con l’Europa e riteniamo che non metta a rischio il surplus primario di bilancio al 3,5% nel 2020. Quest’anno e il prossimo lo rispettiamo, anche se abbiamo già ridotto la pressione fiscale». 


Le misure sono parte della legge fiscale che sarà sottoposta al Parlamento. Più in dettaglio, stando alla bozza resa pubblica per consultazione, è previsto un taglio della corporate tax dal 28 al 24% e un dimezzamento della tassa sui dividendi, dal 10 al 5 per cento.

Per quanto riguarda l’esercizio delle opzioni, anziché tassare il ricavato come reddito, si pensa ad una tassa una tantum del 15 per cento.

La misura più interesante appare però proprio il programma non-dom che - ispirandosi tra l’altro, almeno in parte, al regime introdotto anche in Italia con la Legge di bilancio 2017 - offre ai soggetti non residenti la possibilità di pagare una tassa annuale da 100mila euro sui redditi guadagnati fuori dalla Grecia, più 20mila euro per ogni membro della famiglia.

Per poterne beneficiare occorre però rispettare due requisiti fondamentali: prendere la residenza in Grecia e risiedervi effettivamente almeno 183 giorni all’anno, investire 500mila euro nell’economia nazionale (immobiliare, mercato azionario e obbligazionario gli ambiti interessati) nei primi tre anni da residenti. Il beneficio fiscale sarà ancora maggiore per chi è disposto a spendere di più: la tassa scende infatti a 50mila euro con investimenti pari a 1,5 milioni, a 25mila se gli investimenti sono pari a tre milioni.

Il programma ha una durata di 15 anni e garantisce chi decida di beneficiarne contro eventuali cambiamenti futuri nelle politiche governative.






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