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C._P._Snow

 

In un saggio molto famoso del secolo scorso, Le due culture e la rivoluzione scientifica, Charles Percy Snow (1905-1980) lamentava il gran divario creatosi fra le due figure chiave del nostro tempo: lo scienziato da una parte e il letterato o umanista dall’altra. Il primo conosce tutto sui numeri, sui processi fisici e sui geni, ma poco o nulla di letteratura e filosofia; il secondo padroneggia latino e greco, ma ostenta, addirittura vantandosene, -vedasi per es. il filosofo Benedetto Croce (1866-1952)- la propria non conoscenza del secondo principio della termodinamica. Snow auspicava il sorgere di una “Terza Cultura”, per opera di letterati, che facesse da ponte tra la cultura scientifica e la cultura umanistica. Le cose sono andate poi diversamente; la “Terza Cultura” è nata effettivamente, ma i costruttori del ponte, diversamente da quanto auspicato da Snow, sono sorti nel campo scientifico con tutti i limiti del caso. Si è materializzato, infatti, il rischio paventato, negli anni 30, dal filosofo Ortega Y Gasset (1883-1955), secondo il quale sarebbero arrivati anni in cui lo scienziato, dalla sua conoscenza minuta di un dettaglio, ancorché importante-, ci avrebbe tempestato di epistemologie povere e sostanzialmente scorrette. Scorrette perché, pur partendo da un sapere “esatto”, ma particolare, specifico, si pretende di dare giudizi generali. Gasset è stato un vero “profeta”e quegli anni sono arrivati: i nostri! Qualche anno fa uscì un libro-Profeti senza Dio-, che faceva stato di questa situazione. In esso Karl Giberson e Mariano Artigas, (1936-2006) il primo fisico e il secondo filosofo, tratteggiano con impareggiabile chiarezza la figura e l’opera di sei grandi scienziati del nostro tempo; scienziati che hanno contribuito a far divenire la scienza come l'unica ” fede”possibile per l’uomo postmoderno: Richard Dawkins, Carl Sagan (1934-1996), S. Hawking, S Gould (1941-2002), Steven Weinberg e Edward Osborne Wilson. Costoro a una grande preparazione scientifica hanno unito una grossa capacità letteraria e un insolito dono per la comunicazione; cosa questa, che li ha portati a saper parlare oltre al ristretto ambito degli specialisti e dei ricercatori. Il loro “verbo”si è così diffuso a milioni e milioni di persone, due dati su tutti: si calcola che la serie Cosmos, di Carl Sagan, sia stata vista da almeno 600 (!) milioni di persone e che il libro più famoso di S. Hawking -Dal Big Bang ai Buchi neri-ha venduto in media una copia ogni 750 abitanti del nostro pianeta! Non è difficile pensare, che “l’ateismo anonimo”, del quale ha parlato il card. Angelo Scola nella lettera pastorale- Il campo è il mondo. Vie da percorrere incontro all’umano-, sia stato favorito, a livello planetario, dalla matrice nichilista della nostra cultura. Cultura poi diffusa, a livello delle masse, da una scorretta informazione scientifica, che in nome della scienza, surrettiziamente, vuole negare la fede. Così negli ultimi decenni per il tramite di scienziati, veri o presunti, questa cultura, diffusa in maniera ossessiva da tutti i media, è tracimata fino a raggiungere il nostro vicino di casa. Papa Francesco, nell’enciclica Lumen Fidei, ha tratteggiato con impareggiabile chiarezza la situazione contemporanea: "La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo." Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti» Ancora ai tempi del Vaticano II l’ateismo di massa era collegato quasi esclusivamente a particolari situazioni geopolitiche, riferibili, per la maggior parte, alle zone dell’ex Impero sovietico. Di là dalle sfumature diverse e dagli accenti variamente polemici, questi autentici “sacerdoti”della scienza- in Italia si potrebbero ricordare l’astronoma Margherita Hack (1922-2013), il matematico Pier Giorgio Odifreddi, l’oncologo UmbertoVeronesi, ect- pretendono di dare risposte, dal loro limitato campo d’azione, alle domande più profonde dell’uomo: chi siamo? da dove veniamo?dove andiamo? Risposte, peraltro, negative, presentate al grande pubblico -ignaro- come oggettive e derivanti necessariamente dalla scienza, ma in realtà non giustificate dal metodo scientifico. Un esempio su tutti; Edward Osborne Wilson, partendo dalle sue enormi conoscenze mirmecologiche, cioè sulle formiche, pretende di negare l’esistenza di Dio e dell’anima!Domanda da Bertoldo, che ogni uomo della strada può farsi: perché sapere tutto su formiche e formicai, dovrebbe, ipso facto, far considerare autorevole Wilson anche quando discetta di filosofia e religione? Purtroppo è quello che accade nella nostra epoca tecnocratica, nella quale gli scienziati sono interpellati- pendendo dalle loro labbra- su tutto, anche in campi molto diversi da quelli per i quali sono giustamente famosi. Quanto detto per Wilson vale, naturalmente, anche per gli altri cinque. Particolarmente divertente e istruttivo mi sembra riportare quanto scritto dallo studioso ateo Riccardo Chiaberge nel settembre 2010: ” «Confesso che quando sento parlare Odifreddi o Margherita Hack, con quella loro sicumera che esclude categoricamente qualsiasi dimensione trascendente quasi fosse sempre e comunque una favola per gonzi, mi viene immediatamente una crisi mistica e corro alla più vicina parrocchia». Che fare, dunque? “Semplice”; impariamo a usare correttamente la ragione mediante la filosofia, così come auspicato da papa Benedetto XVI: anche i mirmecologi capitoleranno…

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Abbiamo visto, prima, come la concezione teologica abbia consentito la nascita della scienza; scienza, che poi, sempre più minuziosamente, ha rivelato diversi dettagli quantitativi di quel cosmo uscito dalle mani del Suo Creatore- secondo le Scritture giudaico-cristiane-, disposto con misura, calcolo e peso (Sap. 11,21.) Naturalmente, un universo siffatto, lungi dall’essere caotico o assimilabile a un soggetto vivente pieno di appetiti volitivi, poteva costituirsi come oggetto di studio da parte dell’uomo. Con fatica, in modo sistematico e matematico, da Galileo (1564-1642) e fino agli ultimi dati raccolti dalla sonda Planck, ci siamo fatti un’idea abbastanza precisa dell’Universo fisico nel quale viviamo.

Potrà sembrare strano, ma fino al 1917 le nostre idee sull’universo erano ancora abbastanza vaghe e sulle sue dimensioni non c’era accordo: per molti, l’universo coincideva appena con la Via Lattea, al di fuori della quale si estendeva uno spazio infinito vuoto. Nell’anno su ricordato, invece, Albert Einstein (1879-1955) pubblicò il quinto saggio sulle conseguenze cosmologiche della relatività generale: per la prima volta nella storia era possibile un trattamento scientifico privo di contraddizioni della totalità delle cose interagenti gravitazionalmente (…), contenente, anche, le formule della massa totale e del raggio dell’Universo. (S. Jaki) Tutto questo era stato possibile perché Einstein, con la sola forza della teoria, aveva dimostrato l’equivalenza tra massa ed energia, l’invalicabilità della velocità della luce e la non assolutezza di spazio e tempo. Modificò anche l'interpretazione della gravità: vista come un effetto puramente geometrico, dovuto alla curvatura dello spazio, a sua volta indotta dalle masse. Questa modellizzazione della gravità aveva reso possibile spiegare l’avanzamento di Mercurio al perielio, la deflessione di un raggio di luce stellare passante in prossimità di un forte campo gravitazionale, come quello del Sole e, addirittura, lo spostamento verso il rosso di un raggio di luce emesso all’interno di un campo gravitazionale: c’erano tutte le basi per comprendere l’universo. Allo scopo sarà utile raccontare un divertente episodio accaduto durante la visita che Einstein fece a Hubble, per visitare il grande telescopio da 100 pollici (2,54 Mt), allora il più grande del mondo, a Monte Wilson, in California. Durante questa visita Einstein era accompagnato dalla seconda moglie, sua cugina Elsa Einstein (1876-1936); si narra, che a un certo punto, mentre erano alla base della grande cupola contenente il telescopio, qualcuno fece notare alla signora che quel telescopio era indispensabile per conoscere la struttura dell’universo, lei facendo spallucce, rispose: ” Bene, bene…è quello che fa mio marito sul retro di una vecchia busta”! Tuttavia, neanche la pubblicazione di Einstein aveva risolto la diatriba se l’universo coincideva o no con la Via Lattea: erano, quelli, gli anni del cosiddetto Grande dibattito. Gli schieramenti in campo furono due; da una parte gli astronomi dell’osservatorio di Monte Wilson, capitanati da Harlow Shapley (1885-1972), sostenevano che la Via Lattea contenesse l’intero universo, nebulose comprese. In oppositionem gli astronomi dell’osservatorio Lick, capitanati da Heber Curtis (1872-1972), ritenevano le nebulose altre galassie simili alla nostra. Per risolvere la questione, l’Accademia Nazionale Delle Scienze di Washington, nell’aprile 1920, convocò un’assemblea generale di grandi scienziati. La discussione, spesso accesa, non portò ad alcun risultato definitivo: per capire la sua posizione nel Cosmo, l’uomo doveva ancora indagare.Questo onore toccò nel 1923 all’astronomo americano E. Hubble il quale sfruttò una mirabile scoperta effettuata nel 1912. Quell’anno, la studiosa Henrietta Leavitt (1868-1921) scoprendo nelle stelle variabili cefeidi una relazione tra periodo e luminosità effettiva, offrì agli astronomi un parametro decisivo per misurare l’universo. Non restava che trovare delle Cefeidi nelle nebulose, e il Grande dibattito sarebbe stato risolto: fu proprio quello che fece Edwin Hubble (1889-1953), scoprendone una nella nebulosa di Andromeda o M31. L’emozione fu enorme; M31 risultò trovarsi a novecento mila anni luce dalla Via Lattea. Benché, questa misura risultasse, poi, errata per difetto, era ormai chiara la natura extra-galattica della maggior parte delle nebulose. Anche questa vicenda è accompagnata da un contorno grottesco: vediamolo in sintesi. Shapley aveva calcolato correttamente le distanze degli ammassi globulari, la posizione esatta, non centrale, del Sole nella Via Lattea, della quale aveva trovato le giuste dimensioni, aveva dedotto la giusta formula per calcolare le distanze con le Cefeidi e …dulcis in fundo, probabilmente, aveva fotografato per primo le Cefeidi in M31! C’e n’era abbastanza da vincere il Nobel e, invece, si fece del male da solo; vittima di un carattere testardo, polemico fino all’ultimo, finì col litigare con tutti, a partire da Hubble. Così lasciò il posto a M. Wilson per Harvard, finendo un po’ ai margini Quel che accadde, dopo è veramente pazzesco, inaspettato; prima di partire lasciò le sue lastre a Milton Humason (1891-1972), l’assistente di Hubble, il quale scrutandole e confrontandole con altre, scoprì delle Cefeidi. Humason, correttamente, avvisò Shapley, ma questi, anziché prenderne atto, puntare un telescopio su Andromeda e fare nuove lastre di confronto, appena poté, prese un fazzoletto e cancellò i segni rossi con i quali Humason aveva cerchiato le possibili Cefeidi: non contento, partì lasciando le lastre a Hubble. Per l’astronomo americano, a quel punto, fu un gioco da ragazzi ri-fotografare tutto, confrontare e calcolare mediante la formula, la distanza di M31; ironia della sorte, aveva utilizzato le lastre di Shapley, aveva usato la sua formula matematica adatta a calcolare le distanze delle Cefeidi, per…distruggerne la carriera di scienziato! Si narra, che Hubble, il quale ricambiava, -con gli interessi- l’antipatia verso Shapley, subito mandò a questi un telegramma per informarlo; Cecilia Payne, che era presente al momento dell’arrivo del telegramma, raccontò la reazione di Shapley: ”Ecco la lettera che ha distrutto il mio universo”. Storia significativa e monito verso coloro che, nella scienza come nella storia, non si “piegano ai fatti”, ma sono schiavi delle ideologie, di un pensiero pre-costituito che rifiuta di confrontarsi con il reale. Morale: oggi Shapley è pressoché sconosciuto al grande pubblico, mentre Hubble -che in realtà era un avvocato-, ha dato addirittura il suo nome all’omonima legge, e al grande telescopio spaziale! Eppure, all’epoca, Shapley era anni - luce, è proprio il caso di dirlo- avanti a lui! L’uomo, dunque, aveva “dilatato”, in ogni senso, la sua comprensione dell’universo. Dai tempi di Galileo con il cannocchiale, si era giunti, grazie al grande telescopio di M. Wilson, a registrare la posizione remota delle altre “nebulose”, ora galassie, in più, con l’aiuto dell’analisi spettroscopica Hubble e Humason scoprirono che la luce delle galassie aveva una frequenza spostata verso il rosso. Circostanza, questa, che fece dedurre- ad Alexander Friedmann (1888-1925) e Georges Lemaitre (1894-1966), che le galassie, in accordo con le equazioni della relatività generale, ma contro gli stessi Einstein e Hubble, in un primo momento-, si stanno allontanando velocemente. Si arguì che le galassie si spostano come se fossero state tutte originate, anni prima, da un’unica, gigantesca esplosione. In sintesi, oggi sappiamo che l’universo sotto i nostri occhi è il risultato “invecchiato”, di uno scoppiettante inizio, che ha lasciato in giro tante ceneri, scintille e radiazioni che noi possiamo misurare. Le galassie, tuttavia, non si espandono in uno spazio pre-esistente e infinito, ma è lo spazio stesso a espandersi. Il vecchio esempio del palloncino per bambini che gonfiamo, è sempre valido per rendere l’idea. Tutta una serie di osservazioni, ci conduce, infine, a credere che all’inizio tutta la materia fosse concentrata in un punto piccolissimo: è la singolarità iniziale, ma come disse una volta la prof. essa Margherita Hack (1922-2013), qui finisce la fisica, e inizia la metafisica. Questo perché, all’istante t uguale a zero, cessano tutte le leggi fisiche. L’uomo può iniziare a studiare il cosmo dal cosiddetto tempo di Planck, 10-43s, ma questo lo vedremo la prossima volta.

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Iniziamo con questo articolo un piccolo – cioè, senza pretese – viaggio “esplorativo dello stato attuale della ricerca scientifica sul nostro Universo; tuttavia, cercheremo di fare un viaggio “completo”, partendo, cioè, dal contesto culturale che ha permesso alla scienza galileiana di nascere e descrivere, con una buona approssimazione, le proprietà fisiche, ossia quantitative, dell’universo che ci circonda. Chiaramente, un viaggio siffatto, richiederà un approccio multidisciplinare coinvolgendo nello studio anche la storia e, soprattutto, la filosofia. Da sempre l’uomo ha contemplato gli spazi siderei, chiedendosi il senso e il significato di quanto gli girava sulla testa. Il fascino del cielo stellato si è mantenuto pressoché inalterato nel corso dei secoli, tanto da indurre un grandissimo fisico italiano, – Enrico Fermi (1901-1954), premio Nobel per la fisica nel 1938 –, a raccontare una sua singolare esperienza, quasi “mistica”, vissuta d’estate, nel silenzio dei campi, sotto la volta celeste. Ascoltiamolo: «Ero giovanissimo, avevo l’illusione che l’intelligenza umana potesse arrivare a tutto. E perciò m’ero ingolfato negli studi oltre misura. Non bastandomi la lettura di molti libri, passavo metà della notte a meditare sulle questioni più astruse. Una fortissima nevrastenia mi obbligò a smettere; anzi a lasciare la città, piena di tentazioni per il mio cervello esaurito, e a rifugiarmi in una remota campagna umbra. (…) Una sera, anzi una notte, mentre aspettavo il sonno, tardo a venire, seduto sull’erba di un prato, ascoltavo le placide conversazioni di alcuni contadini lì presso.(…) Infine si tacquero, come se la maestà serena e solenne di quella notte italica, priva di luna ma folta di stelle, avesse versato su quei semplici spiriti un misterioso incanto». «Poi, prosegue il racconto di Fermi, uno di loro, apparentemente rozzo, mentre volgeva gli occhi al cielo, disse: Com’è bello! E pure c’è chi dice che Dio non esiste”. Lo ripeto, quella frase del vecchio contadino in quel luogo, in quell’ora: dopo mesi di studi aridissimi, toccò tanto al vivo l’animo mio che ricordo la semplice scena come fosse ieri.(…) Quel contadino umbro non sapeva nemmeno leggere. Ma c’era nell’animo suo, custoditovi da una vita onesta e laboriosa, un breve angolo in cui scendeva la luce di Dio, con una potenza non troppo inferiore a quella dei profeti e forse superiore a quella dei filosofi». È vero, dunque, che tutti i popoli, bene o male, fin dall’inizio, guardarono i cieli tentando e di leggervi il proprio destino e, più in concreto, di ricavarne utili indicazioni per misurare il tempo e, soprattutto, per esigenze agricole. Fra tutti i popoli, a un certo punto, si distinsero gli ebrei, nella cui letteratura sacra – ciò che per i cristiani, oggi, è l’Antico Testamento –, i cieli, stabili e maestosi, erano una prova della grandezza e della bontà del Dio Creatore: Yahweh. Bellissimo, a questo scopo, è l’intero capitolo 38 del Libro di Giobbe. La dottrina della creazione, tipica della cultura giudaico cristiana, fece sì che il popolo ebraico si distinguesse subito dalle tribù coeve circostanti: immerse nel panteismo e nell’idolatria. Già nel Libro dei Maccabei fece capolino la dottrina, unica, della creazione dal nulla, poi fatta propria in maniera caratteristica dal cristianesimo. Questa dottrina fu importantissima anche per lo studio scientifico, quantitativo, dell’Universo: fu uno dei motivi per il quale la scienza è nata in casa cattolica. Vediamo brevemente la questione, ricorrendo all’aiuto del padre domenicano Giovanni Cavalcoli, per quel che concerne la parte filosofica: «Secondo la Bibbia innanzitutto la potenza creatrice divina appare come un attributo divino una volta che, partendo dalla considerazione dell’esistenza dell’universo, giungiamo, in base al principio di causalità, a scoprire che Dio esiste, inteso come Essere sussistente, come insegna S.Tommaso d’Aquino sulla scorta di Es 3,14, quindi come Essere assoluto, che fa ricordare quello di Parmenide, e tuttavia è diverso, in quanto, mentre il Dio di Parmenide è l’unico Essere che esiste, per cui il mondo non è distinto da Dio ma appartiene all’essenza divina, il vero Dio biblico è un Assoluto che appare al vertice e al di sopra della scala degli esseri, come sommo Ente, come l’“Altissimo” su tutti gli altri enti del mondo e su “tutti gli dèi”: un Ente imparagonabile con tutti gli altri, eppure dal Quale tutti gli altri provengono ed al Quale tutti gli altri conducono.(…) Il Dio biblico è invece una persona infinitamente sapiente, potente e provvidente, dalla quale il mondo trae origine non in modo deterministico come dalla scintilla nasce il fuoco(…) ma, in modo simile al quale una nostra opera trae origine da una nostra idea e da una libera decisione della nostra volontà. Concludendo.” Dio esclude dentro di Sé il nulla, in quanto Egli è Tutto: è quanto anche Parmenide aveva capito; egli tuttavia non comprese che l’esistenza dell’Essere assoluto non esclude però la possibilità del nulla al di fuori di Lui, quel nulla dal quale Dio trae la creatura (ex nihilo). Se Dio non avesse creato, questo nulla non esisterebbe”. Gli antichi, diversamente, privi della Rivelazione non sanno immaginare un mondo che viene dal nulla o che presuppone il nulla del mondo stesso (ex nihilo sui et subiecti), ma ammettono sempre una materia originaria dalla quale o nella quale si attuano la trasformazione o la generazione. Essi già sapevano che l’Assoluto non può provenire dal nulla e che neppure il finito può da sé provenire dal nulla (ex nihilo nihil fit)». Ricapitolando: nella concezione cristiana, l’universo non è dipendente da Dio solo per quel che riguarda la creazione, ma anche per la sua continua sussistenza. La fede nell’inizio del tempo, poi sancita nel Concilio Lateranense IV (1215), costituiva un unicum nell’antichità: in pratica tutti i popoli, greci compresi, credevano in un mondo eterno e circolare, nel quale tutto si ripeteva ciclicamente. Come hanno notato vari studiosi- Jaki in primis, Dawson, Hodgson, ect, perché dovremmo migliorare la nostra conoscenza, studiando scientificamente, se tutto, alla fine, si ripeterà sempre uguale? Il grande Aristotele, cui l’umanità sarà debitrice per sempre, non poté nulla per far avanzare la scienza quantitativa, perché mancando del concetto giudaico-cristiano di creatio ex nihilo, rimase imprigionato nel panteismo: credendo in un mondo eterno e con la materia divisa in celeste e, dunque, incorruttibile e terrestre, quindi corruttibile, aveva azzoppato la scienza quantitativa sul nascere. Ci volle il concetto giudeo-cristiano di creazione, con Dio distinto e trascendente le sue creature, per permettere alla scienza di nascere. Lo studioso Peter Hodgson ha, così, sintetizzato la questione: «La teologia cristiana forniva quella convinzione nell’esistenza di un ordine naturale che è il presupposto fondante di qualsiasi scienza (…) Se Dio aveva creato l’universo dal nulla, la concezione del tempo passava da circolare a lineare; questo implicava poi che tanto la materia celeste quanto quella terrestre dovessero obbedire alle stesse leggi, essendo entrambe create da Dio». Per quanto possa sembrare paradossale, lo studio quantitativo dell’universo è partito, necessariamente, da una corretta inquadratura teologica. Continueremo l’approfondimento.

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Il grande filosofo e fisico benedettino dom Stanley L. Jaki (1924-2009), nel rimarcare l’importanza decisiva del contesto teologico e, conseguentemente, filosofico entro il quale era potuta nascere e svilupparsi la scienza galileiana, scrisse: “Le religioni rientrano in due categorie: nella prima c’è la fede giudeo-cristiana, che crede in una storia cosmica lineare dall’” in principio”---verso “cieli e terra nuovi”. Nell’altra stanno tutte le religioni pagane, primitive o sofisticate, vecchie e moderne. Esse postulano, invariabilmente, una ricorrenza ciclica ed eterna delle cose, imprigionandoci tutti in una ruota di tortura senza fine che è il sistema più efficace per creare infelicità e smarrimento”. Abbiamo già visto l’importanza della nozione di creatio ex nihilo, per livellare la materia sub e sopralunare, donandole coerenza scientifica: cosa che non poté fare nessun’altra cultura antica. Ora vedremo, brevemente, come la concezione del mondo materiale proveniente dalla teologia e filosofia cristiana, ha reso possibile la nascita e lo sviluppo della scienza galileiana. La concezione cristiana esclude un mondo dipendente direttamente dalla Volontà di Dio, negando, così, l’intervento delle cause seconde; questa è una concezione tipica dell’Islam. Il partito musulmano ortodosso, il Mutakallimum, operò in ogni modo per combattere l’idea di un universo funzionante secondo leggi coerenti e stabili. In pratica, Dio (Allah), non può essere imprigionato in un’equazione. Maimonide, (1138-1204), che era medico del Califfo del Cairo, così sintetizzò la posizione islamica, nella sua famosa Guida per i Perplessi : ”I musulmani considerano le varie leggi dell’universo come simili alle abitudini del califfo che può cambiare il suo comportamento a ogni momento”. Purtroppo, Maimonide non si accorse delle conseguenze negative di questa concezione per la nascita della scienza: questa visione privilegia la libertà di Dio sulla sua razionalità. Naturalmente, è esclusa anche la versione opposta, cioè quella che mostra la razionalità di Dio a scapito della sua Libertà. Tipica del settecento deista-era questa la concezione di Voltaire (1694-1788)-, presuppone che Dio abbia creato il mondo, dato un colpetto per metterlo in moto e poi si sia ritirato in buon ordine, lasciando che il mondo vada avanti da solo: seguendo le sue leggi, quelle inscritte in esso. Già Blaise Pascal (1623-1662) riteneva che questa fosse la convinzione, più intima, di Cartesio (1596-1650); una convinzione, che mascherava un cripto- ateismo. Una delle concezioni più antiscientifiche dell’universo è quella che lo vorrebbe necessario e non contingente. In questo modo ogni asserzione di natura cosmologica sarebbe vera su una base a priori della sola forma in cui l’universo, necessariamente, può esistere. Einstein (1879-1955) era affascinato dalla questione se il Creatore fosse stato libero o meno nell’atto creativo; in altre parole, voleva scoprire se il mondo doveva essere specificatamente quello che è. In realtà, la stessa storia della scienza sperimentale- orgoglio smisurato della Ragione moderna-, attesta, come vuole la teologia, che Dio era libero nel creare, altrimenti come rileva P. Hodgson negando che il mondo sia contingente si distrugge la scienza perché viene rimosso il bisogno di una sperimentazione. Se il mondo fosse necessario, potremmo sperare di comprenderlo attraverso il puro pensiero. In questo modo, dovremmo abolire tutti i dipartimenti di fisica del mondo; basterebbero quelli di matematica per dedurre, a tavolino, il come e il perché il mondo è fatto, così come si presenta ai nostri occhi. Ovviamente, le cose non stanno in questo modo, come sperimentano tutti i fisici, da Galileo (1564-1642) in poi: senza la verifica sperimentale, le teorie fisiche restano aria fritta, ergo il mondo è contingente. Il colmo dell’ironia è che Einstein ha avuto la risposta sottomano per decenni, senza tuttavia accorgersene! Egli, infatti, era amico intimo di Kurt Godel (1906-1978) – assieme hanno fatto, per anni, lunghe passeggiate quotidiane-, il più grande logico-matematico dai tempi di Aristotele (384 /3 a. C.-322 a. C.); Godel aveva fatto, nel 1931, una scoperta incredibile: la matematica era incompleta! Ciò significa che una teoria matematica può essere vera, ma non su una base a priori. Il mondo, in pratica, non è obbligato a essere quel che è. Probabilmente, Einstein non ha mai approfondito con Godel le conseguenze filosofiche dei due teoremi di incompletezza. La portata metafisica di quei teoremi è enorme. Probabilmente, nessuno l’ha capito allo stesso modo del già ricordato padre Jaki; ragionando sulla possibilità di una verità legata alla derivazione a priori della sola forma in cui l’universo può esistere, concluse: ” In questo caso non sarebbe più possibile sostenere la contingenza dell’universo, cioè, la tesi che la specificità esistente nell’universo è il risultato di una scelta fra molte altre possibilità. Dal momento che una tale scelta implica l’esistenza di un Creatore, il sostegno che i teoremi di Godel forniscono alla metafisica e alla teologia dovrebbe essere ovvio”. Già, dovrebbe essere ovvio... ma di questi tempi anche l’ovvio è merce rara. La concezione cristiana, naturalmente, spazzava via anche il panteismo, peccato d’origine di quasi tutte le culture passate ed anche della gnosi cristiana, antica e moderna. Secondo questa dottrina il mondo emana da Dio o da una sua parte e, dunque, la sua essenza è divina, non quantitativa. Da Platone (428/27 a. C.348/7 a. C.), a Cicerone (106 a. C.- 43 a. C.), fino a Plotino (204-270) la crema del mondo greco-romano, quindi, l’universo costituiva il solo ente generato dal Principio Primo, o Motore Immobile o Bene Supremo che dir si voglia Chiaramente, un Dio immanente, il mondo, e non trascendente, divinizzava i cieli superiori, rendendo irrazionali e caotici i cieli inferiori. Il cristianesimo con il suo dogma trinitario e con quello dell’Incarnazione, fu un colpo mortale per la dottrina panteista. Infatti, per i cristiani l’unico generato dal Padre divino è il Logos, il Figlio, che è anche l’Unigenito. Pertanto, il cristianesimo “retrocesse” l’universo da generato a creato, al pari di ogni altro ente e, dunque, come ogni altra creatura dotata di proprietà quantitative, misurabili dalla scienza. Infine, un universo creato dal logos implica altre due proprietà fondamentali per la nascita e lo sviluppo della scienza: l’ordine, cioè l’insieme dei nessi causali fra le cose, nessi che spetta alla ragione trovare e, come corollario, che il mondo non può essere intrinsecamente disordinato. Il caso, cioè, non può essere invocato come agente causativo: la contraddizione è così elementare che anche un bambino di cinque anni può coglierla. Alcune considerazioni di Papa Benedetto XVI, in tal senso, sembrano particolarmente efficaci; sono tratte da un Discorso ai partecipanti alla plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, il 28 ottobre 2010: ” Da parte sua la Chiesa è convinta del fatto che l'attività scientifica benefici decisamente della consapevolezza della dimensione spirituale dell'uomo e della sua ricerca di risposte definitive, che permettano il riconoscimento di un mondo che esiste indipendentemente da noi, che non comprendiamo del tutto e che possiamo comprendere soltanto nella misura in cui riusciamo ad afferrare la sua logica intrinseca. Gli scienziati non creano il mondo. Essi apprendono delle cose su di esso e tentano di imitarlo, seguendo le leggi e l'intelligibilità che la natura ci manifesta. L'esperienza dello scienziato quale essere umano è quindi quella di percepire una costante, una legge, un logos che egli non ha creato, ma che ha invece osservato: infatti, esso ci porta ad ammettere l'esistenza di una Ragione onnipotente, che è altro da quella dell'uomo e che sostiene il mondo. Questo è il punto di incontro fra le scienze naturali e la religione. Di conseguenza, la scienza diventa un luogo di dialogo, un incontro fra l'uomo e la natura e, potenzialmente, anche fra l'uomo e il suo Creatore.”. La teologia cristiana, assieme alla sana filosofia, ha spazzato via il cosmo da spiriti, da atti volitivi irrazionali e da gigantesche ruote cicliche che ne hanno paralizzato per secoli lo studio scientifico galileiano, rendendo problematica anche la vita di tutti i giorni. Ora, è tempo di vedere alcune delle grandi conquiste scientifiche, che ci hanno permesso di rischiarare almeno un po’, il mistero del reale nel quale siamo immersi e che esiste da prima e indipendentemente da noi.

medio-ambiente

 

Ne “Le bugie degli ambientalisti”, il testo di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari, quello che forse, ha avuto più successo, gli studiosi della realtà ambientale sostengono diverse tesi interessanti, quella che mi ha colpito maggiormente è affrontata nella seconda parte, “sviluppo è ambiente”. Cascioli e Gaspari affrontano il tema dell’“impronta ecologica”, un concetto importante dell’ideologia ambientalista. Qui si svelano i veri obiettivi futuri dell’ecologismo.

Intanto che cos’è l’impronta ecologica, sarebbe“la superficie di terra e acqua che una popolazione richiede per produrre risorse che esse consuma e per smaltire i suoi rifiuti tenendo conto della tecnologia prevalente”, una unità di misura arbitraria che ha poco di scientificità, secondo i due studiosi. Il concetto è nato negli ambienti accademici della University of British Columbia a Vancouver (Canada), sono stati i professori Mathis Wackernagel e William Rees, che lo hanno sintetizzato in un volume, “Our Ecological Footprint”, (La versione italiana: “L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra”, Edizione Ambiente 1996) subito adottato dal WWF, diventando il fondamento teorico a sostegno delle tesi ecologiste.

Questi accademici hanno introdotto l’impronta ecologica, come una unità di misura, tipo il metro, per farla apparire come qualcosa di oggettivo, indiscutibile, sul quale calibrare la propria esistenza. “Ma non ha nulla a che vedere con il sistema metrico decimale e la sua oggettività è soltanto presunta”, scrivono Cascioli e Gaspari. Anche qui si tenta di applicare alla realtà una ideologia particolare.

In pratica gli ecologisti avvertono l’attuale impronta dell’umanità è maggiore del 23%, rispetto a ciò che il pianeta può rigenerare. Per capire la nostra personale impronta ecologica, bisogna rispondere a un semplice test, di 15 domande sul proprio stile di vita: tipo, com’è il nucleo familiare, le dimensioni della casa, l’uso più o meno dell’energia elettrica, dell’acqua, l’uso dei mezzi pubblici o dell’auto privata, etc.

Cascioli e Gaspari portano come esempio una persona che vive nell’hinterland di Milano, in una famiglia di 4 persone e in un appartamento di 85 mq. e che fa la vita normale, risulta consumare 5,4 ettari annui di terreno, secondo le stime del Global Footprint Network, diretto da Wackernagel, la persona che vive così avrebbe bisogno di tre pianeti. In pratica “ogni italiano in media, ecologicamente parlando, vive due volte e mezzo sopra la sua capacità, o meglio sopra la capacità del pianeta” (Cfr. Luca Sciortino, “Dimmi come vivi e ti dirò quanto inquini”, Panorama, 5.6.2006)

Interessante quale dovrebbe essere lo stile di vita ideale cui gli ecologisti vogliono portare l’umanità. “il cittadino di cui sopra dovrebbe abitare da solo in una casa al massimo di 30 mq., casa singola possibilmente senza acqua corrente e senza elettricità; dovrebbe diventare vegetariano e raccogliere il proprio cibo direttamente dalla terra (il cibo processato industrialmente fa impennare l’impronta ecologica); ovviamente dovrebbe rinunciare all’auto ma, possibilmente, anche ai mezzi pubblici (in pratica muoversi il meno possibile e, al massimo, a piedi e in bicicletta)”. Si dovrebbe scendere così a un’impronta ecologica di 1,3 ettari. Chiunque usi il buon senso può comprendere che l’obiettivo degli ecologisti è di portarci dritti alla miseria più assoluta e nel lungo termine all’autoestinzione del genere umano.

Cascioli e Gaspari sono convinti che i militanti ecologisti vogliono farci raggiungere il “mitico sviluppo” della Corea del Nord. Infatti, guardando le statistiche del Global Footprint Network, si scopre “che è la Corea del Nord a trovarsi nella condizione migliore, ovvero con un più basso deficit ecologico”. Infatti attualmente l’impronta ecologica del coreano del nord è di 1,5 ettari annui pro capite, mentre quello del sud è di 4,4 ettari.

Come tutti sanno il problema della Corea del Nord è l’ideologia folle dell’”autosufficienza” instaurato dal regime comunista, che ha ridotto alla fame un paese che era partito invece con delle buone basi economiche, che forse era partito con un pil superiore alla Corea del Sud, che invece per gli ecologisti, si è sviluppata notevolmente peggiorando il suo deficit ecologico. Quindi secondo i verdi“bisogna progredire verso una povertà generalizzata per poter rientrare all’interno delle risorse che il pianeta ci mette a disposizione. Traducendo: l’ideale che Wackernagel e soci hanno in mente è un mondo trasformato in una immensa Corea del Nord, povera e arretrata, solo gestita un po’ meglio per evitare almeno le crisi peggiori.

Il confronto parallelo tra le due Coree è unico e sconvolgente, Cascioli e Gaspari lo affrontano meglio nel testo “I Padroni del pianeta”. I due Paesi entrambi nel 1953 partirono da zero, anzi quello del Nord aveva più vantaggi, avendo ereditato il 65% delle industrie eppure dopo cinquant’anni ora si trova nel baratro della più totale miseria e arretratezza rispetto al Sud, non solo, ma anche più inquinato, in cui l’ambiente si sta gravemente deteriorando e con uno sfruttamento selvaggio delle risorse. Ricordo ai distratti che la Corea del Nord si trova in queste condizioni perché per cinquant’anni il regime comunista ha pensato solo ad armarsi e a prepararsi in vista di una guerra atomica contro la Corea del Sud, investendo somme enormi in spese militari, ingrossando uno dei più grandi eserciti del mondo.

Oltre alla Corea gli ecologisti considerano come ideale di vita le condizioni dell’Africa Sub-sahariana mentre sarebbero devastanti quelle dei paesi occidentali. Basterebbe un po’ di buon senso per capire che l’ideologia ecologista è completamente avulsa dalla realtà. “Infatti ogni persona di buon senso capisce che è meglio vivere in un paese dove ci sono scuole e insegnanti; dove ci sono medici e buone strutture ospedaliere e anche disponibilità di medicine; dove c’è possibilità di lavorare e anche a condizioni dignitose; dove c’è una rete di servizi sociali; dove c’è accesso all’acqua potabile e dove è possibile avere alimenti in abbondanza; rispetto a un paese dove tutto questo manca, dove la mortalità infantile e quella materna sono una tragica quotidianità; dove lo sfruttamento di donne e bambini è consuetudine, dove la vita media raggiunge appena i 40 anni e dove si muore ancora di morbillo e di dissenteria”.

Ironicamente Cascioli e Gaspari sottolineano che tutto questo è talmente vero che gli stessi guru dell’ecologismo mondiale come Wackernagel, Rees, Brown, Latouche e tutti loro discepoli, “preferiscono vivere negli Stati Uniti o in Francia piuttosto che trasferirsi in Congo o in Ruanda o in Corea del Nord”

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