Iniziamo con questo articolo un piccolo – cioè, senza pretese – viaggio “esplorativo dello stato attuale della ricerca scientifica sul nostro Universo; tuttavia, cercheremo di fare un viaggio “completo”, partendo, cioè, dal contesto culturale che ha permesso alla scienza galileiana di nascere e descrivere, con una buona approssimazione, le proprietà fisiche, ossia quantitative, dell’universo che ci circonda. Chiaramente, un viaggio siffatto, richiederà un approccio multidisciplinare coinvolgendo nello studio anche la storia e, soprattutto, la filosofia. Da sempre l’uomo ha contemplato gli spazi siderei, chiedendosi il senso e il significato di quanto gli girava sulla testa. Il fascino del cielo stellato si è mantenuto pressoché inalterato nel corso dei secoli, tanto da indurre un grandissimo fisico italiano, – Enrico Fermi (1901-1954), premio Nobel per la fisica nel 1938 –, a raccontare una sua singolare esperienza, quasi “mistica”, vissuta d’estate, nel silenzio dei campi, sotto la volta celeste. Ascoltiamolo: «Ero giovanissimo, avevo l’illusione che l’intelligenza umana potesse arrivare a tutto. E perciò m’ero ingolfato negli studi oltre misura. Non bastandomi la lettura di molti libri, passavo metà della notte a meditare sulle questioni più astruse. Una fortissima nevrastenia mi obbligò a smettere; anzi a lasciare la città, piena di tentazioni per il mio cervello esaurito, e a rifugiarmi in una remota campagna umbra. (…) Una sera, anzi una notte, mentre aspettavo il sonno, tardo a venire, seduto sull’erba di un prato, ascoltavo le placide conversazioni di alcuni contadini lì presso.(…) Infine si tacquero, come se la maestà serena e solenne di quella notte italica, priva di luna ma folta di stelle, avesse versato su quei semplici spiriti un misterioso incanto». «Poi, prosegue il racconto di Fermi, uno di loro, apparentemente rozzo, mentre volgeva gli occhi al cielo, disse: “Com’è bello! E pure c’è chi dice che Dio non esiste”. Lo ripeto, quella frase del vecchio contadino in quel luogo, in quell’ora: dopo mesi di studi aridissimi, toccò tanto al vivo l’animo mio che ricordo la semplice scena come fosse ieri.(…) Quel contadino umbro non sapeva nemmeno leggere. Ma c’era nell’animo suo, custoditovi da una vita onesta e laboriosa, un breve angolo in cui scendeva la luce di Dio, con una potenza non troppo inferiore a quella dei profeti e forse superiore a quella dei filosofi». È vero, dunque, che tutti i popoli, bene o male, fin dall’inizio, guardarono i cieli tentando e di leggervi il proprio destino e, più in concreto, di ricavarne utili indicazioni per misurare il tempo e, soprattutto, per esigenze agricole. Fra tutti i popoli, a un certo punto, si distinsero gli ebrei, nella cui letteratura sacra – ciò che per i cristiani, oggi, è l’Antico Testamento –, i cieli, stabili e maestosi, erano una prova della grandezza e della bontà del Dio Creatore: Yahweh. Bellissimo, a questo scopo, è l’intero capitolo 38 del Libro di Giobbe. La dottrina della creazione, tipica della cultura giudaico cristiana, fece sì che il popolo ebraico si distinguesse subito dalle tribù coeve circostanti: immerse nel panteismo e nell’idolatria. Già nel Libro dei Maccabei fece capolino la dottrina, unica, della creazione dal nulla, poi fatta propria in maniera caratteristica dal cristianesimo. Questa dottrina fu importantissima anche per lo studio scientifico, quantitativo, dell’Universo: fu uno dei motivi per il quale la scienza è nata in casa cattolica. Vediamo brevemente la questione, ricorrendo all’aiuto del padre domenicano Giovanni Cavalcoli, per quel che concerne la parte filosofica: «Secondo la Bibbia innanzitutto la potenza creatrice divina appare come un attributo divino una volta che, partendo dalla considerazione dell’esistenza dell’universo, giungiamo, in base al principio di causalità, a scoprire che Dio esiste, inteso come Essere sussistente, come insegna S.Tommaso d’Aquino sulla scorta di Es 3,14, quindi come Essere assoluto, che fa ricordare quello di Parmenide, e tuttavia è diverso, in quanto, mentre il Dio di Parmenide è l’unico Essere che esiste, per cui il mondo non è distinto da Dio ma appartiene all’essenza divina, il vero Dio biblico è un Assoluto che appare al vertice e al di sopra della scala degli esseri, come sommo Ente, come l’“Altissimo” su tutti gli altri enti del mondo e su “tutti gli dèi”: un Ente imparagonabile con tutti gli altri, eppure dal Quale tutti gli altri provengono ed al Quale tutti gli altri conducono.(…) Il Dio biblico è invece una persona infinitamente sapiente, potente e provvidente, dalla quale il mondo trae origine non in modo deterministico come dalla scintilla nasce il fuoco(…) ma, in modo simile al quale una nostra opera trae origine da una nostra idea e da una libera decisione della nostra volontà. Concludendo.” Dio esclude dentro di Sé il nulla, in quanto Egli è Tutto: è quanto anche Parmenide aveva capito; egli tuttavia non comprese che l’esistenza dell’Essere assoluto non esclude però la possibilità del nulla al di fuori di Lui, quel nulla dal quale Dio trae la creatura (ex nihilo). Se Dio non avesse creato, questo nulla non esisterebbe”. Gli antichi, diversamente, privi della Rivelazione non sanno immaginare un mondo che viene dal nulla o che presuppone il nulla del mondo stesso (ex nihilo sui et subiecti), ma ammettono sempre una materia originaria dalla quale o nella quale si attuano la trasformazione o la generazione. Essi già sapevano che l’Assoluto non può provenire dal nulla e che neppure il finito può da sé provenire dal nulla (ex nihilo nihil fit)». Ricapitolando: nella concezione cristiana, l’universo non è dipendente da Dio solo per quel che riguarda la creazione, ma anche per la sua continua sussistenza. La fede nell’inizio del tempo, poi sancita nel Concilio Lateranense IV (1215), costituiva un unicum nell’antichità: in pratica tutti i popoli, greci compresi, credevano in un mondo eterno e circolare, nel quale tutto si ripeteva ciclicamente. Come hanno notato vari studiosi- Jaki in primis, Dawson, Hodgson, ect, perché dovremmo migliorare la nostra conoscenza, studiando scientificamente, se tutto, alla fine, si ripeterà sempre uguale? Il grande Aristotele, cui l’umanità sarà debitrice per sempre, non poté nulla per far avanzare la scienza quantitativa, perché mancando del concetto giudaico-cristiano di creatio ex nihilo, rimase imprigionato nel panteismo: credendo in un mondo eterno e con la materia divisa in celeste e, dunque, incorruttibile e terrestre, quindi corruttibile, aveva azzoppato la scienza quantitativa sul nascere. Ci volle il concetto giudeo-cristiano di creazione, con Dio distinto e trascendente le sue creature, per permettere alla scienza di nascere. Lo studioso Peter Hodgson ha, così, sintetizzato la questione: «La teologia cristiana forniva quella convinzione nell’esistenza di un ordine naturale che è il presupposto fondante di qualsiasi scienza (…) Se Dio aveva creato l’universo dal nulla, la concezione del tempo passava da circolare a lineare; questo implicava poi che tanto la materia celeste quanto quella terrestre dovessero obbedire alle stesse leggi, essendo entrambe create da Dio». Per quanto possa sembrare paradossale, lo studio quantitativo dell’universo è partito, necessariamente, da una corretta inquadratura teologica. Continueremo l’approfondimento.