Emanuele Samek Lodovici a 38 anni aveva vinto la cattedra di Filosofia morale ma è morto prematuramente il 5 maggio del 1981. È stato un filosofo che ha pienamente testimoniato la sua fede cattolica e che già intorno ai trent’anni aveva raggiunto una levatura molto considerevole, tanto da essere stimato moltissimo per esempio da Augusto del Noce. Era nato il 28 dicembre 1942 a Messina, ma poi è vissuto a Milano. Nel quarantesimo anniversario della morte ne parliamo con uno dei suoi figli, Giacomo Samek Lodovici, che è Docente di Storia delle dottrine morali e di Filosofia della storia all’Università Cattolica di Milano. Gli scritti di Emanuele, sia scientifici, sia divulgativi, sono scaricabili sul sito www.emanuelesameklodovici.it
Degli scritti di suo padre colpiscono alcune riflessioni sulla sofferenza e sulla perdita di alcune virtù tradizionali: la fortezza, la pazienza, il coraggio, la perseveranza, utili quando ci troviamo ad affrontare un disagio, una sofferenza fisica. Oggi il ricorso all’analgesico, all’anestesia è sempre più frequente. E quando le sofferenze sono interiori la persona più debole e indifesa ricorre alla droga, alla ricerca dell’oblio e di un paradiso effimero.
In effetti mio padre diceva che molti concetti e aspetti della tradizione filosofica dell’Occidente sono stati banditi o ridotti soltanto al loro livello più basso, quello quantitativo. Per esempio, la parola virtù, dal suo senso originario che è quello di habitus, ovvero un particolare modo con cui si possiede (habere) se stessi senza diventare posseduti dai propri desideri e impulsi, è stata spesso ridotta a significare l’efficacia, e la virtù della fortezza, una delle parole pilastro della tradizione greco-cristiana, che sta ad indicare la capacità di sopportare la fatica, il dolore, le avversità, la tristezza, la malattia e in ultima analisi anche la morte (propria o delle persone care), è stata ridotta alla forza. E si è sempre più persa la capacità di affrontare la sofferenza, trasformando se stessi in consumatori seriali di anestesie, non solo quelle farmacologiche, bensì anche quelle che menziona lei.
Un altro tema di grande attualità è quello legato alla malattia. Oggi che la medicina è sempre più tecnica e sempre meno ascolto, il malato, l’uomo sofferente rischia di perdere la sua centralità.
Svolgendo l’implicito del discorso di mio padre, il fatto è che i vari dualismi antropologici, che contrappongono nell’uomo lo spirito e il corpo, finendo per identificare l’uomo o solo con il corpo o solo con lo spirito, conducono ad un approccio medico nefasto, quello di non pochi medici che si rapportano ai loro pazienti non considerandoli come persone, bensì focalizzandosi solamente sui loro organi, parti di corpo, arti, ecc. («il femore della stanza 5», «il trapiantato della stanza 21», ecc.). Ma l’essere umano è una totalità e la sua condizione interiore può non di rado riverberarsi positivamente/negativamente sulle condizioni del corpo, come è già chiaro dall’effetto placebo. Bisogna dunque recuperare sia un approccio medico olistico, un approccio al paziente come essere umano da ascoltare come persona, sia in generale l’unità del sapere, su cui mio padre insisteva.
In cosa consiste l’unità del sapere?
Senza essere un laudator temporis acti, mio padre valorizzava del Medioevo la capacità di realizzare appunto l’unificazione dei saperi intorno ad un fine-scopo comune, cioè la pienezza-perfezione dell’uomo. Esse dovevano insegnare, o almeno non intralciare, l’arte di vivere moralmente bene (l’ars bene vivendi et moriendi), favorire o perlomeno non ostacolare la ricerca del bene, l’amore a Dio e al prossimo.
L’unificazione comportava, per esempio, l’impossibilità che una scienza diventasse anarchica e assumesse come fine il solo proprio sviluppo. Non era cioè in linea di principio possibile che la scienza potesse progettare la clonazione, o gli attuali aberranti interventi di manipolazione genetica, ecc., perché ogni disciplina si conformava ad alcuni fondamentali criteri, ricevuti dalla teologia, dall’antropologia e dall’etica.
Questa unificazione del sapere, che dipendeva dal fine comune delle discipline, è stata soppiantata nel Rinascimento da una separazione: l’organismo unitario dei saperi si decompone e le discipline si rendono autonome l’una dall’altra (basti pensare, per es., alla scissione tra morale e politica enunciata da Machiavelli e, più ancora, in seguito, da Montaigne), rinunciando alla precedente solidarietà reciproca che le caratterizzava; ad un’unificazione del sapere secondo un criterio gerarchico, si è poi successivamente sostituito il surrogato di un’unificazione enciclopedica e antigerarchica, quella illuminista, che organizza le conoscenze secondo il solo criterio alfabetico (cosicché – diceva mio padre – la parola «pantofola» viene prima della parola «Platone») e in cui manca una gerarchia, cosicché tutto è sullo stesso piano: come diceva mio padre, al centro non c’è più l’uomo bensì l’accumulazione stessa del sapere, e la moltiplicazione delle informazioni atrofizza la capacità di riflettere. Oggi con internet, che pur è uno strumento benemerito, questa mancanza di gerarchia nelle infinite informazioni si è accresciuta a dismisura.
In uno degli ultimi interventi affrontò un altro tema che ritorna spesso perché affascina e non trova risposte esaustive: l’origine delle forme e l’agire creativo della natura. Attraverso il pensiero di Plotino: “l’ordine non può derivare dal disordine” nasceva una riflessione sulla natura, la vita e come questa sia nata sulla Terra in modo per niente casuale, come un’artista “crea senza sapere come”.
Non è possibile entrare qui nel merito di tale complesso discorso, ma quel che se ne può soprattutto ricavare è questo: se la teoria scientifica dell’evoluzione è vera, e stabilirlo è compito degli scienziati, non dei filosofi, sta di fatto che l’evoluzione non può essere governata dal caso, dunque non esclude l’esistenza di Dio, bensì è compatibile con una concezione in cui la storia della vita sulla terra e della comparsa delle varie forme, ecc., è governata da un’Intelligenza.
Per inciso, e questa è una mia aggiunta, Darwin si dichiarava agnostico, ma non ateo e (anche se quasi nessuno lo dice) nella pagina finale della IIa edizione dell’Origine delle specie (il suo celeberrimo testo), in cui riflette retrospettivamente sulle considerazioni che ha svolto nel corso del suo libro, scrive: «vi è qualcosa di grandioso in queste considerazioni sulla vita e sulle varie facoltà di essa, che furono impresse dal Creatore». Egli stesso dunque concepiva la possibile conciliazione tra creazione ed evoluzione.
Suo padre ha molto riflettuto sul pensiero gnostico. Pensiero gnostico che è da relegare nella storia della filosofia o la mentalità gnostica trova ancora spazio nel nostro tempo?
Mio padre ha distinto una precisa espressione della gnosi nel II-III secolo e appunto una mentalità gnostica, che invece pervade la storia delle espressioni culturali, anche nel mondo moderno e contemporaneo. C’è insomma una metamorfosi della gnosi – da cui il titolo di una delle monografie che lui ha scritto – con la ripresentazione di una, o due, o tre delle seguenti tesi.
La prima: il mondo e la natura umana sono errati e negativi, bisogna rifarli o stravolgerli.
La seconda: esiste una conoscenza-gnosi (dal greco) redentrice, un sapere che salva da tale condizione umana nefasta, un sapere per ri-fare molto meglio la natura umana.
La terza: grazie al sapere salvifico è possibile estinguere ogni limite, ogni imperfezione, è possibile creare un mondo perfetto, creare l’uomo nuovo e perfetto e instaurare il paradiso, o quasi, in terra.
Quali sono le sue rifrazioni moderne e contemporanee?
Mio padre, come Vögelin, Mathieu, Pellicani e Del Noce, ha visto nel marxismo una simile rifrazione della gnosi.
Inoltre ha interpretato il femminismo libertario in chiave neo-gnostica. Infine, tra i primi ha visto nello gnosticismo in generale e nello gnosticismo libertario antico in particolare un’anticipazione di quella che oggi viene chiamata teoria gender (che attinge anche dai gender studies, ma non è identica ad essi).
Come si collegano femminismo radicale e teoria gender allo gnosticismo?
Lo gnosticismo rifiuta il limite e a sua volta il femminismo libertario nega l’esistenza di quel limite che è costituito da una specifica natura maschile/femminile che differenzia l’uomo e la donna, che pur hanno la stessa medesima incommensurabile dignità (anche per questo indifferentismo tale femminismo oggi è contestato da altre espressioni del femminismo). E anche la teoria gender rifiuta la natura umana data e vuole costruire l’essere umano, addita a ciascuno la creazione del proprio gender, prescindendo dal sesso biologico dato alla nascita.
Quanto allo gnosticismo libertario del II secolo, esso affermava che lo stadio originario del genere umano è una condizione di perfetta uguaglianza e indistinzione: gli esseri umani non differiscono l’uno dall’altro, né per caratteristiche estrinseche (come la proprietà di certi beni), né per aspetti biologico-fisici o intellettivi. Ora, la contemporanea teoria del gender, in una delle sue espressioni, afferma che la nostra identità psicologica maschile o femminile non è legata al sesso con cui nasciamo biologicamente, bensì è inculcata dall’educazione e dalla cultura in cui ci troviamo a vivere, perciò ognuno di noi dovrebbe essere moralmente libero di scegliere continuamente se vivere e agire secondo la propria percezione di essere maschile, femminile, omosessuale, bisessuale, transgender, ecc., prescindendo dai suoi organi genitali femminili/maschili.
Queste erano le interpretazioni di mio padre. Io aggiungo che oggi la terza tesi gnostica è sempre più riaffermata dal cosiddetto transumanesimo, un movimento scientifico e culturale, che riceve finanziamenti di milioni di dollari, che si propone la ri-creazione della natura umana e la cui ambizione più radicale è il superamento della morte.
Un altro tema che stava a cuore a suo padre era quello del linguaggio
Sì, sottolineava il potere manipolatorio di certi termini. Faccio degli esempi: la parola «aborto», che di per sé evoca, anche in molti abortisti, qualcosa di sgradevole (anche qualora lo si consideri un diritto), viene rimossa e sostituita dall’asettico acronimo «ivg» (interruzione volontaria di gravidanza) che fa pensare all’atto abortivo in modo molto più asettico; similmente, il bambino che potrebbe nascere diventa «prodotto del concepimento» oppure «pre-embrione»; la pillola abortiva diventa «contraccezione di emergenza»; ancora, l’espressione «stato vegetativo» già influenza il modo di pensare al soggetto che non è responsivo, inducendoci a pensare che egli sia un vegetale; e l’espressione «utero in affitto» viene sostituita dall’espressione «gestazione per altri» oppure «maternità solidale»; e padre e madre vengono sostituiti da «genitore A e genitore B». Ma si potrebbe continuare a lungo con gli esempi.
Diceva anche che «chi non ha le parole non ha le cose»
Il punto è che ci sono diverse situazioni in cui un parlante è privo di parole. Sia quando il suo lessico è povero, sia quando le ideologie hanno modificato il significato delle parole (come nel caso della parola «fortezza» ridotta a «forza», della parola «amore» ridotta alla sola «attrazione», della parola «bene» ridotta a «sentirsi bene», ecc.), sia quando le ideologie hanno reso correnti certe parole che sono manipolatorie (come nei casi già citati di «ivg», «pre-embrione», ecc.)
Ora, se noi vogliamo esprimere una convinzione su dei beni/mali etici, antropologici, sociali, ecc., non riusciamo a farlo quando non abbiamo le parole per formularla. E non abbiamo le parole per formularla sia quando il nostro lessico è povero, per esempio se ci esprimiamo in una lingua straniera che non padroneggiamo, o se non padroneggiamo bene nemmeno la nostra lingua, sia quando il lessico corrente è impoverito e distorto volutamente dalle ideologie. Se non riusciamo a esprimere quella convinzione non riusciamo a promuovere i beni che ci stanno a cuore ed a contrastare i mali e le ingiustizie che ci indignano, addolorano, ecc. L’effetto della distorsione ideologica del linguaggio è di renderci, nella nostra lingua, come dei parlanti che si esprimono in una lingua straniera faticosamente e con un lessico minimale, dunque incapaci di poter far capire agli altri i beni/mali – e le ragioni-argomentazioni per cui sono tali – su cui si focalizza il nostro impegno civile. Insomma, «chi non ha le parole non ha le cose».