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Karl_Rahner_by_Letizia_Mancino_Cremer

 

Al culmine della crisi postconciliare, nel 1977, PaoloVI in una famosa intervista, concessa al filosofo francese Jean Guitton (1901-1999), incentrata sulla crisi nella Chiesa, disse: “C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo della Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: “Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla Terra?”. Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. Questo, secondo me, è strano. Rileggo talvolta il Vangelo della fine dei tempi e constato che in questo momento emergono alcuni segni di questa fine. Siamo prossimi alla fine? Questo non lo sapremo mai. Occorre tenersi sempre pronti, ma tutto può durare ancora molto a lungo. Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia”. Tra gli “artefici” principali di quella crisi -più che mai attuale- va annoverato certamente il teologo e gesuita tedesco Karl Rhaner (1904-1984). Sopravvalutare l’influenza che la sua’opera ha avuto sull’intera Chiesa, dagli anni 60 a oggi, è davvero difficile; su questo punto, amici e nemici, concordano tutti. Già all’indomani della chiusura ufficiale del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965), iniziò una sorta di “guerra santa” su come doveva essere interpretato: se in “continuità” o in “rottura” con tutta la Tradizione della Chiesa. Nacquero così le due ermeneutiche, che si fronteggiarono a tutto campo, con grave nocumento per la fede e per la vita della Chiesa. Per comprendere il disagio che attanagliò e scosse l’intera comunità ecclesiale, basti riportare un dato indicativo: gli iscritti all’Azione Cattolica, associazione considerata il fiore all’occhiello della Chiesa, solo in Italia, nell’arco di pochi anni, crollarono da tre milioni a poco più di mezzo milione! A trionfare, naturalmente, dopo oltre due secoli di lavorio continuo della filosofia moderna-penetrata appieno nella Chiesa, a tutti i livelli- fu la cosiddetta ermeneutica della “rottura”, che considerava il Concilio come l’atto di nascita di una nuova epoca, quasi, oserei dire, di una nuova Chiesa, in totale frattura con i venti secoli precedenti! Dopo diversi interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II (1978-2005), tesi a riequilibrare la situazione, ci fu quello netto, perentorio, di papa Benedetto XVI (2005-2013), che in uno splendido discorso tenuto alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi, nel 2005, a proposito delle due ermeneutiche, così le descrisse: ” L’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass—media e anche di una parte della teologia moderna, da lui giudicata fuorviante e “l’ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto—Chiesa, che il Signore ci ha donato”, considerata quella corretta. Uno dei padri nobili, non certo il solo, ma forse il più influente, dell’ermeneutica della “rottura”, fu proprio Karl Rahner. La sua teologia, infarcita, per sua stessa ammissione, di filosofia heideggeriana, originò la distinzione tra “fede ufficiale”—proclamata dalla Chiesa— e “fede effettiva” o “reale”, ossia la fede di “molti uomini” che in varie epoche ha influenzato la Chiesa: questa sarebbe la fede normativa, non l’altra. Naturalmente, Rahner non precisa l'identità di questi uomini. L’influenza hegeliana prima e heideggeriana poi, è lampante. George Whilelm Friedrich

Hegel (1770—1831) aveva parlato di Wirklichheit—effettività— la quale non si basa su un dato esterno, oggettivo, — a ES i testi del Concilio in particolare, e quelli del Magistero in generale, per il caso di specie che qui c’interessa— cui l’intelletto deve conformarsi— adaequatio tomista—, ma su un “dato fatto”—soggettivamente stabilito, privo di dati oggettivi—, considerato “vero”soltanto perché esiste “effettivamente”e ottiene consensi. Questo “dato fatto”, soggettivo e ottenente consensi, nel linguaggio heideggeriano si trasformerà nell’”evento”, parola, ormai, quasi taumaturgica nella teologia contemporanea e non solo. Occorre rilevare un ultimo passaggio, decisivo, per comprendere il perché dell’ermeneutica della rottura e, più in generale, la disaffezione generalizzata, venata da tratti di insofferenza, verso il Magistero. In Hegel, come poi in Heidegger, così come l’essere coincide con l’essere pensato, il diritto coincide con il fatto è non è la sua regola; in altre parole, la ragione non è appannaggio di chi ragiona sillogisticamente o di chi porta argomentazioni plausibilmente verosimili, ma è di chiunque riesca a imporre —il modo non importa— la sua visione delle cose: in quest’ottica, non è irrilevante notare, che Benedetto XVI— come visto prima—rilevi la maggior diffusione mediatica dell’ermeneutica della rottura. L’applicazione della Wirklichheit hegeliana, comporta un’inversione pratica del rapporto Magistero —fedeli con i secondi, che mediante la “fede effettiva”—derivata, secondo Rahner, dalla fede trascendentale, “atematica”, tipica di ogni uomo—impongono al primo i contenuti—sempre mutevoli —della fede; il Magistero deve limitarsi a prendere atto di questa “fede effettiva”, interpretarla correttamente e custodirla gelosamente fino a che lo Spirito non indicherà nuovi contenuti di fede, rispondenti alle mutate condizioni storiche. Siamo, dunque, in pieno storicismo di matrice hegeliana. Rahner mostrerà questa sorta di diritto alla creatività dottrinale, cui anche il Magistero deve adeguarsi, da parte dei “molti uomini”, in un passaggio scritto in una delle sue opere più note, Nuovi Saggi: “La coscienza del singolo cristiano non è e non può essere la semplice eco, lo specchio e l’immagine riflessa e la riproduzione della dottrina ecclesiale ufficiale”. Qui è lampante il “trionfo”, la piena “maturità”raggiunta dall’amaro frutto dell’idealismo, che partito dall’autocoscienza, dall’Io cartesiano come fonte unica di verità su Dio e sul mondo, è giunto ad avere la certezza, non dai dati sensibili, ma da una certezza spirituale immediata, originale e riflessa del proprio atto di pensare che in realtà non è propria dell’uomo ma di Dio (padre Giovanni Cavalcoli) Il risultato? In tanti, oggi, a “destra” come a “sinistra”- per quel che possono valere queste distinzioni in campo ecclesiale- dopo decenni di sedimentazione di queste false dottrine, si sentono autorizzati- consapevolmente o no dalla Wirklichheit hegeliana e dal cogito cartesiano, ad autonominarsi “maestri del papa”. In fondo, se si possiede il pensiero divino, non è poi così difficile, o no?

Concilio Vaticano II_2

 

Qualche giorno fa, papa Francesco, durante la consueta omelia a Santa Marta ha richiamato noi cristiani a non cadere in un errore cruciale, che poi è quello che caratterizza maggiormente la modernità: il divenire schiavi di un’ideologia, qualunque essa sia, ossia di una lettura precostituita del reale, al quale applichiamo forzatamente i nostri schemi, piuttosto che lasciarci guidare docilmente dallo Spirito, attraverso la Chiesa di Roma. Ascoltiamolo: «Se un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede: non è più discepolo di Gesù, è discepolo di questo atteggiamento di pensiero». Parole che devono farci riflettere; molti, infatti, nell’ora presente, pensano, illuministicamente, di avere in mano, anzi in testa (!), la soluzione dei problemi del mondo e della Chiesa. Pertanto, “pretendono”che il Santo Padre li ascolti, altrimenti tanto peggio per lui! A nessun attento osservatore sfugge che si sta creando, ormai almeno dai tempi del Concilio, un clima da stadio, un clima fazioso che ricorda molto da vicino quello vissuto e stigmatizzato da San Paolo e da lui descritto nella prima lettera ai Corinzi, (1 Cor, 1,11-12, 19,20): «Mi è stato segnalato, infatti, a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. [12]Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «E io di Cefa», «E io di Cristo!». (…) Poco più in là,addirittura, rincara la dose: «Sta scritto infatti:Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» Parafrasando san Paolo, potremmo dire che dalla fine del Vaticano II a oggi, vi sono stati e vi sono tuttora, tanti “sottili ragionatori di questo mondo” che si sono auto incaricati di “insegnare” ai vari papi che si sono succeduti, come dovevano fare i papi! Sua Santità Francesco, ha ricordato loro che chi si comporta così “ha perso la fede”; in fondo ciò è in perfetta continuità con quanto, aveva affermato il suo predecessore al momento in cui comunicava al mondo la sua intenzione di dimettersi: «Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura».Evidentemente, molti hanno perso questa “certezza”. L’attuale momento di confusione è stato ben tratteggiato, a mio avviso, da Riccardo Cascioli in uno splendido editoriale sulla Nuova Bussola: «Come cattolici seguiamo il Papa, non questo o quel Papa, per poi rimanere in stand-by o mugugnare se a essere eletto è quello dell’altra fazione. Siamo noi, insieme al Papa, a doverci convertire a Cristo e non il Papa a doversi convertire al nostro sentire.». Come dicevo all’inizio, questa non è una storia dei nostri giorni, ma risale ai tempi del concilio. Negli anni immediatamente seguenti il Concilio ci si divise in tre fazioni. Da una parte c’era chi considerava il Vaticano II come l’atto di nascita della nuova Chiesa, in totale rottura col passato, in Italia, a es, la cosiddetta officina bolognese, guidata dallo storico Giuseppe Alberigo (1926—2007). Poi c’era chi, - più correttamente, secondo le indicazioni di Benedetto XVI- lo considerava il ventunesimo concilio della Chiesa Cattolica, dunque, come una naturale tappa evolutiva per la comprensione della fede da parte della Chiesa, e infine chi lo considerava un Concilio di “rottura” con la bi millenaria Tradizione della Chiesa. La diatriba tra le ali estreme è stata dura, aspra, con reciproche accuse, tanto da indurre papa Benedetto XVI, a intervenire con la sua eloquente parola, per dirimere la questione. Lo fece durante lo splendido discorso tenuto alla curia romana il 22 dicembre 2005; in esso, ha ricordato l’esistenza di due ermeneutiche nella lettura del Vaticano II: «L’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass—media e anche di una parte della teologia moderna, da lui giudicata fuorviante e “l’ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto—Chiesa, che il Signore ci ha donato», considerata quella corretta. Questo modo di affrontare il tema, secondo Don Pietro Cantoni, -docente di filosofia e teologia presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Camaiore costituisce una novità, ascoltiamolo: «Il discorso del Papa sostituisce alla consueta lettura in ottica “ternaria”-progressisti, conservatori e moderati, di sapore sociologico- una lettura”binaria”di carattere squisitamente teologico e quindi ben più radicale e profonda: discontinuità o continuità, rottura o riforma. I teologi si sono sentiti direttamente chiamati in causa e come costretti a scoprire le carte». Il dibattito, infatti, non si è fermato e continua ancora oggi. Il nodo cruciale— lo rileva lo stesso Benedetto XVI nel medesimo discorso, — è l’idea—di matrice hegeliana e heideggeriana—, che i testi del Concilio, —la lettera— non rispetterebbero appieno lo spirito del Concilio: l’accusa è che si rispetterebbero troppo i documenti scritti, trascurando lo “spirito”, l’”evento”; quest’ultima, in realtà, è una parola “chiave”, in Martin Heidegger (1889—1976). Tuttavia, rileva giustamente il Papa, “poiché rimane un vasto margine per la domanda su come, allora si definisca questo spirito”, si concede, come conseguenza, “spazio a ogni estrosità”. La cosiddetta “officina bolognese”, oggi guidata dal prof. Alberto Melloni dopo la scomparsa del prof. Alberigo, si concepisce come tale, proprio perché si è data la “mission”—non “chiamata”a ciò da nessun’autorità ecclesiastica— di “lavorare”a una profonda riforma della Chiesa —basata sul non meglio definito “spirito”conciliare, giacché i testi non danno alcun appiglio—, mirante a indebolire la centralità del potere petrino a tutto vantaggio di una gestione collegiale, coinvolgente l’episcopato. Naturalmente, per asserire questa tesi occorre andare “oltre” i testi conciliari, così come si presentano nella loro materialità, interpretando il Concilio più come “evento epocale” che per i suoi documenti, più nello spirito che nella lettera, più come nuovo inizio che in continuità con la Chiesa precedente (Sandro Magister). Secondo l’officina bolognese, dunque, non contano né la Lumen Gentium, né gli altri documenti conciliari –nei quali è possibile rintracciare frammenti di ecclesiologia—, per definire la “nuova dottrina della Chiesa, ma conta unicamente la celebrazione del Concilio, in quanto tale, che ha così trasmesso se stesso, come “evento”: l’”evento”heideggeriano è un dato-fatto, slegato da ciò che è realmente avvenuto. La prova cruciale in favore di questa tesi è offerta da un testimone insospettabile, —il priore della Comunità di Bose, fratel Enzo Bianchi, molto vicino allo spirito dell’”officina bolognese”. Egli a proposito della posizione del presbitero —versus populum – durante la celebrazione eucaristica— definita come il simbolo di tutte le novità introdotte dalla riforma liturgica del Vaticano II—, ha scritto: «Benché di esso non si trovi traccia nella Costituzione liturgica Sacrosanctum concilium, e benché, in effetti, non vi sia mai stata alcuna norma che lo rendesse esplicitamente obbligatorio, esso si è imposto universalmente nella Chiesa cattolica con la forza propria dei simboli, prevalendo ampiamente sulle sfumature e le sottigliezze della normativa liturgica.». Quello di trascurare la materialità dei testi è ormai un vizio comune all’interno della Chiesa; tanto i “detrattori” del Concilio —indicativamente riuniti attorno alla figura e al pensiero di mons. Marcel Lefebvre (1905-1991)—, quanto gli “innovatori”—indicativamente riuniti attorno al pensiero dell’”officina bolognese”—, caricano di un’importanza eccessiva il modo in cui si è arrivati ai testi conciliari: la loro attenzione è così concentrata al particolare minuto, da perdere di vista il disegno generale del Concilio. Entrambe queste interpretazioni estreme, tendono a ricercare—quasi spasmodicamente— una sorta di letteratura “parallela”inerente al Concilio: diari personali di vescovi, cronache giornalistiche, resoconti delle sedute conciliari etc. di vari personaggi, che a diverso titolo hanno partecipato all’assise conciliare, con il chiaro intento ideologico di sminuire l’importanza dei testi finali con i quali i Documenti sono stati promulgati. Loro fine ultimo è quello di aggirare la materialità dei testi, che non offrono— come già ricordato— alcun appiglio per nessuna delle due ali estreme. Divisi su tutto, paradossalmente, si trovano uniti, strano scherzo dell’eterogenesi dei fini, nel rendere insignificante il Magistero Ordinario, privandolo del suo carattere normativo nei confronti della coscienza dei fedeli. In pratica, da una parte si è cercato di de-potenziare e silenziare e il magistero del Beato Giovanni Paolo II (1978-2005) e quello di Benedetto XVI (2005-2013), dall’altra, si sta tentando di sminuire quello di papa Francesco: del tutto illegittimamente, ovviamente, in una prospettiva cattolica. La cosa non è sfuggita a un osservatore attento come Don Pietro Cantoni, il quale a proposito della “battaglia nella notte” dei due schieramenti in campo ha scritto: «Gli uni per accreditare un concilio-evento in cui i documenti non debbono e non possono avere un valore dottrinale autorevole, determinato e quindi stabile. Gli altri per giustificare il loro rifiuto di evento e documenti rimanendo “ubbidientissimi”». Costoro dimenticano una regola ermeneutica fondamentale, così ricordata dall’arcivescovo e storico mons. Agostino Marchetto: «E poi soltanto i testi definitivi “fanno testo”, altrimenti qualcuno li riceverà alla sua maniera, a pretesto per il proprio cammino personale o per la sua preferenza teologica o di “scuola”». In maniera autorevole e definitiva, d’altro canto, subito dopo la chiusura del Concilio si era espresso in un’Udienza Generale lo stesso pontefice Paolo VI; forse presago di quanto sarebbe avvenuto, scrisse: «L’eredità del Concilio è costituita dai documenti che sono stati promulgati nei vari momenti conclusivi delle sue discussioni e delle sue deliberazioni (…) Conoscere, studiare, applicare questi documenti è il dovere ed è la fortuna del periodo postconciliare. Esso è un grande atto del magistero ecclesiastico; e chi aderisce al Concilio riconosce e onora con ciò il magistero della Chiesa (…) Non sarebbe perciò nel vero chi pensasse che il concilio rappresenti un distacco, una rottura, ovvero, come qualcuno pensa, una liberazione dall’insegnamento tradizionale della Chiesa (…) Il Concilio non priva il pensiero cristiano del suo rigore speculativo, e non consente che nella scuola filosofica, teologica e scritturale della Chiesa entri l’arbitrio, l’incertezza, la servilità, la desolazione, che caratterizzano tante forme del pensiero religioso moderno, quando è privo dell’assistenza del magistero ecclesiastico». La chiusura verso le interpretazioni estreme è netta e decisa: il Vaticano II è un atto del magistero e non rappresenta una rottura con il passato. L’influsso della filosofia moderna su questo modo di interpretare il Concilio è enorme e, generalmente, sottovalutato dai teologi e dagli storici cattolici. Il problema era già vivo negli anni settanta del secolo scorso, tanto da essere ricordato, in un’intervista, da padre Cornelio Fabro; rammentando una sua visita dal pontefice Paolo VI, raccontò: «I vescovi non conoscono le dinamiche interne delle ideologie moderne. Lo dissi a Paolo VI quando mi confidò: “Quello che mi preoccupa non sono le correnti teologiche e filosofiche. Certo sono importanti. Ma mi preoccupa l'episcopato: non fa il suo dovere, cosa mi consiglia?».

Io gli dissi che il Concilio ha proclamato la missionarietà della Chiesa. Questa missionarietà vuol dire andare incontro al mondo. “ma i vescovi lo sanno cos'è il mondo? Essi non conoscono le idee moderne, non sono capaci di affrontarle.

Gli chiesi che i candidati all'episcopato piuttosto che di diritto canonico fossero sapienti della filosofia moderna.”. Da allora, a quanto consta, non è cambiato molto. Il teologo gesuita Karl Rahner, (1904-1984) da una fetta sempre maggiore di studiosi, è considerato come il vero padre putativo dell’ermeneutica della rottura, diciamo, così, “a sinistra”: la sua è una teologia di cesura con le radici che hanno alimentato il cristianesimo per duemila anni. Il gesuita ha letto il progresso in necessaria opposizione col passato, con la Tradizione, della quale non ha colto, nella sua teologia, gli elementi perenni. Parimenti, dal versante opposto, mons. Marcel Francois Lefebvre, -insieme ai suoi seguaci, passati e presenti-, non ha colto che la Tradizione, se non è reinterpretata alla luce della categoria evangelica del “segno dei tempi”, in continuità, dal Magistero vivente e ordinario della Chiesa, altro non è che la somma dei cinque milioni di documenti scritti, che nessuno, anche volendo, potrebbe mai leggere! Nient’altro, che un ammasso quasi infinito di carta: è lo Spirito, che guida e guiderà sempre la Chiesa a rendere viva la Sacra Tradizione! Ma questa è tutta un’altra storia…

9788843067640

 

In un’epoca in cui, piaccia o non piaccia, il mondo vive uno scontro di civiltà fra culture diverse, è utile interrogarsi sulla nascita dell’Occidente, inteso come l’unione dell’Europa e del mondo umano nato dall’espansione degli europei. Lo fa, con grande accuratezza e con attenzione ai numerosi studi recenti sull’argomento, Federica Morelli, ricercatrice di Storia moderna all’Università di Torino, con il suo Il mondo atlantico. Una storia senza confini (secoli XV-XIX) (Carocci, Roma 2013, pp. 280, € 22,00). L’intenzione è di ripercorrere la nascita, lo sviluppo e la disintegrazione del «mondo atlantico», inteso come lo «spazio di interconnessioni e interdipendenze che si è formato, a partire dall’espansione europea e dalla scoperta del Nuovo Mondo, tra i continenti, europeo, africano e americano, dando vita a nuove società, economie e culture» (p. 9).

L’autrice prende in esame innanzitutto la formazione, molto graduale, di questo spazio a partire dalla fine del Medioevo, mediante esplorazioni, incontri e scambi, gli sviluppi della cartografia e della navigazione, la conquista e la colonizzazione delle Azzorre e delle Canarie, che furono imprese a carattere internazionale, come il resto dell’espansione europea in quell’oceano. Sono quindi illustrate le interazioni fra gli europei e gli africani, mostrando che «il coinvolgimento atlantico delle regioni dell’Africa occidentale non fu dovuto solo alla volontà europea e al commercio degli schiavi» (p. 12), perché gli africani parteciparono attivamente agli scambi commerciali e ne trassero vari benefici. Uguale attenzione è prestata all’incontro-scontro fra europei e amerindi dopo i primi viaggi di Cristoforo Colombo, la cui azione era ispirata «da una specie di missione provvidenziale che aveva come fine ultimo il finanziamento della riconquista cristiana di Gerusalemme» (p. 30).

In secondo luogo delinea la formazione dei differenti spazi atlantici — spagnolo, portoghese, inglese e francese — e descrive come essi furono progressivamente integrati in un’unica area interdipendente grazie alle migrazioni, agli scambi economici e alle reti commerciali, politiche e religiose. Le migrazioni, oltre a trasformare radicalmente il mondo atlantico, innescarono processi di adattamento e ibridazione fra europei, amerindi e africani.

Fra queste interazioni vi fu certamente anche la tratta dei neri, in cui però gli africani furono coinvolti volontariamente: essi «non erano dunque semplicemente sfruttati dagli europei ma partecipavano attivamente al commercio con questi ultimi, compreso quello degli schiavi» (p. 133). Gli europei, infatti, non possedevano i mezzi economici e militari per costringere i signori locali a vender loro schiavi; la tratta, inoltre, documenta Morelli, non è stata la causa del sottosviluppo del continente africano, come si è affermato a lungo. Viene anche mostrato che «l’immagine di un’America iberica cattolica e oscurantista, che impone con la forza il suo credo religioso al resto delle popolazioni non europee, contrapposta a un’America protestante più aperta e tollerante, è fuorviante» (p. 154).

Infine, spiega perché la crisi di uno spazio — provocato dall’emergere degli Stati nazionali e dalla nascita di un nuovo tipo di colonialismo, non da «movimenti nazionali che miravano principalmente all’indipendenza» (p. 16) — abbia causato il collasso di altre aree vicine. La Guerra dei Sette Anni (1756-1763), il primo vero conflitto mondiale, aveva alterato gli equilibri imperiali europei nel mondo e dato avvio ad ampi progetti di riforma degli imperi medesimi, coincidenti con i tentativi di rafforzare gli Stati e di razionalizzare le amministrazioni, secondo i princìpi dell’illuminismo. In particolare, la nuova dinastia borbonica — che aveva sostituito l’asburgica all’inizio del secolo XVIII — concepiva l’impero spagnolo solo come una realtà commerciale, prescindendo dai suoi fondamenti missionari, cosicché i territori d’Oltremare furono degradati a «colonie». Quasi contemporaneamente i coloni americani contestavano l’autoritarismo e la centralizzazione messi in atto dalla madrepatria britannica. «Le rivoluzioni ispaniche, come quella nordamericana, nacquero quindi come una legittima resistenza all’illegalità degli atti di governo: entrambi i movimenti si qualificano al principio come una sorta di restaurazione del diritto, di fronte all’illegittimità degli atti del Parlamento britannico, in un caso, e dei Borboni, nell’altro» (p. 217). L’analisi termina negli anni 1820, quando l’arrivo di forza lavoro asiatica e la diminuzione progressiva dell’importazione di schiavi africani, minarono l’integrità dello spazio atlantico.

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