Perché raccontare ancora una volta come è stato conquistato il Sud Italia? E’ una domanda che si poneva già cinquant’anni fa Carlo Alianello nel suo “La Conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale”. Uno dei tanti motivi potrebbe essere quello che gli italiani nonostante tutto si rifiutano di essere uniti o almeno di accettare quell’unità imposta con la forza delle armi.
Grazie a tante opere scritte da seri studiosi sappiamo ormai che ci hanno raccontato una vera leggenda, una favola in merito alla costruzione dell’Italia: “(…)col rosso, con l’azzurro Savoia, col nero, in un’ibrida mescolanza di martelli, squadre e compassi massonici, piumetti di bersaglieri, berretti frigi, fiaccole. E chi l’ha costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome dell’unità, del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po’ per volta, in armonica disarmonia”. Per Alianello, questa gente era“in buonafede, ma che ignorava i fatti, quelli veri; oppure gente che voleva nascondere qualcosa, per diversissime ragioni spesso contrastanti”. Sicuramente era gente che dietro all’alibi dell’unità d’Italia, voleva nascondere ogni sozzura. Tuttavia alla fine come risultato abbiamo ottenuto: “un’Italia divisa in due parti, una tutta bianca, l’altra tutta nera”.
La cultura ufficiale ha fatto di questa leggenda aurea dell’unità, un mito, un baluardo roccioso che non intende minimamente scalfire. Prendiamo il caso di Ferdinando II, dipinto dalla cultura ufficiale come un “tragico burattino, tirannico e farsesco”, ma la Storia vera ci dice che non fu un tiranno, né uomo da far ridere. Ma per quale motivo fu tanto odiato da parte della propaganda laica, massonica, e protestantica? Forse perché , “non portava baffoni e non andava a donne, possibilmente villane, per le fratte, col pretesto della caccia“, o forse perché, “era pio e devotamente difese la Chiesa”, anche se la Chiesa, forse “si vergogna di lui”.
Dal nono capitolo il libro affronta cosa è successo nel meridione d’Italia dopo la raggiunta unità. In pratica fu cancellato o rapinato tutto, ciò che di buono era stato fatto da Ferdinando II. “I colonnelli piemontesi pensarono a rizzar la schiena ai malinconici napoletani(…)”, furono cacciati “dal regno gesuiti, barnabiti, scolopi, monache e frati; furono incamerate le mense vescovili, le terre e i beni delle disciolte congregazioni religiose(…)”. Sarebbe interessante a questo proposito poter leggere la poderosa opera del mirabile studioso messinese Salvatore Cucinotta, “Sicilia e Siciliani. Dalle riforme borboniche al rivolgimento piemontese. Soppressioni” (Edizioni Siciliane, Messina, 1996). Il religioso elenca accuratamente tutta l’opera di spoliazione, delle opere ecclesiastiche in Sicilia, da parte del nuovo regno. Un volume di oltre settecento pagine ignorato dagli storici conformisti, che purtroppo risulta assai difficile reperire; io ne ho visto una copia nella biblioteca personale del mio amico padre Tatì, parroco di S. Alessio.
Per Alianello chi ha perso maggiormente dell’avvento del nuovo regno fu “il contadino, il quale non ebbe più un tozzo di pane da rodere e in più gli toccò pagare tasse e gabelle delle quali fino allora mai aveva sentito parlare. Per la prima volta nella sua storia travagliata, si vide sequestrare il campo, la capanna, il mulo, il maiale, gli attrezzi, e non da un feudatario spietato e violento, ma da quel grande benefattore tale si proclamava – che fu il Grande Riscatto”.
A questo punto comincia la“guerra vera, quella dei cafoni, perché Garibaldi era venuto a togliere il pane da bocca per arricchire i signori; peggio, i piemontesi”.Comincia, “quella guerra che i ‘liberatori’ non s’aspettavano, guerra civile, rivolta agraria, reazione, resistenza armata, brigantaggio, tutto uno squallido inferno, uno svettar di fiamme nei boschi, un franar di terre nei torrenti e nelle fiumane”. Una guerra che i cosiddetti briganti combatterono, “contro i ‘galantuomini’ di casa e gli stranieri di fuori, giacchè foresti apparivano i piemontesi al cafone, gente d’altra lingua, d’altre usanze, difforme”.
Alianello cita il noto storico inglese Denis Smith, per descrivere come il nuovo reale governo italiano, il quale, per mantenere “l’ordine” nel Sud Italia, ha dovuto impiegare un esercito di ben 120 mila uomini, per “dare la caccia allo zappaterra e a qualche astioso borboneggiante”. Scrive Smith: “Una guerra civile, è la più crudele delle disgrazie che possa abbattersi su di un paese, ed il Risorgimento non era stato che un succedersi di guerre civili, fra le quali questa era stata la più crudele, la più lunga e la più costosa(…)il numero di coloro che morirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme”.
Dieci anni di battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, anche per un solo sospetto, uomini e donne, persino bambini. Alianello snocciola numeri precisi di questa lunga guerra contro le popolazioni meridionali, fatti che ha documentato cinquant’anni fa, quando erano pochi a farlo e a conoscerli, oggi, per fortuna, sono ormai dei numeri conosciuti. Esiste una vasta rete di blog in internet, ma anche una diffusa bibliografia, dove ormai si racconta fin nei particolari, “questo martirio, questa insana persecuzione”, come la chiama Alianello. Il messaggio, purtroppo, non passa nelle scuole, dove ancora persiste “la drammatica favola risorgimentale, la ‘leggenda nera’ che i settari, i cantastorie prezzolati, i traditori, gli ingannati, i pigri e gli ignoranti vanno ripetendo sulle piazze e fanno ripetere nelle aule scolastiche, per la formazione dell’uomo e del cittadino”. (Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Controrivoluzione; saggio introduttivo a Rivoluzione e Controrivoluzione, P.C. De Oliveira, Cristianità, Piacenza 1977).
“Inorridisce davvero e rifugge l’animo per il dolore, - scrive Panirossi nel 1868- né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, e religiosi, e cittadini d’ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppure dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi uccisi…”.
In questo modo la cosiddetta “liberazione” si era trasformata in “conquista”, dittatura rabbiosa, violenta, grondante sangue. Pertanto ai poveri contadini, “cafoni” meridionali, una volta “ortopedizzati” dal nuovo Stato liberale, non gli restò altro che emigrare abbandonare la propria terra. E’ significativa la prosa letteraria di Alianello, per raccontare come la gente meridionale lascia la propria terra: “Il cafone indossò il vestito nero, quello della festa, che aveva ereditato dal padre o dal nonno, s’accollò la bisaccia di dura canapa e andò a morire di febbre gialla per poter arricchire con le poche stentate ‘rimesse’ non i suoi ma gli industriali del Nord”.
Di questa grande offesa nei confronti dei popoli meridionali, nessuno dei tanti ministri del nuovo Stato o grandi uomini del Meridione, a cominciare dal Crispi per terminare col Croce, ma anche lo stesso Giustino Fortunato, “ha mosso un dito per riscattar l’offesa ancora dolente e continuar l’opera di Ferdinando II; anzi nessuno s’è mai opposto a leggi inique che, per favorire le industrie del Nord, cancellavano ogni traccia di quelle del Sud e ne ferivano a morte l’agricoltura un tempo fiorente”