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Dopo aver letto i libri peraltro ben documentati di Lorenzo Del Boca, Aldo Cazzullo, “Plotone di esecuzione” di Forcella e Monticone o i 3 volumi sui Vescovi veneti curati da don Antonio Scottà, la voglia di commemorare o di celebrare, il 4 novembre, la vittoria più o meno “mutilata”della 1 Guerra mondiale viene decisamente meno. Certo ancora assistiamo a celebrazioni istituzionali (sindaci, assessori e varie autorità pubbliche) che si prestano ogni anno a questa vuota ritualità, lo fanno per inerzia, senza conoscere la vera storia della guerra. Tuttavia, festeggiare una mattanza come quella della 1 Guerra mondiale, è un po' troppo. Anzi bisogna chiedersi se è stata“un'impresa gloriosa o una carneficina insensata, voluta da cinici politicanti e condotta da ufficiali codardi e incapaci?” E se poi si vuole ricordare qualcosa, piuttosto dovremmo festeggiare quando la guerra finisce: il 3 novembre, come scrive Del Boca nel suo ultimo libro.

Del resto anche Cazzullo nel suo “La guerra dei nostri nonni”, edito da Mondadori (2014), dopo aver apprezzato che la guerra ha unito maggiormente l'Italia, facendogli fare il salto di qualità: non più un nome geografico, ma una nazione vera e propria. Ma nonostante la retorica, racconta le gravissime  responsabilità dei politici, dei nostri generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da D'Annunzio che trascinarono il Paese in un grande massacro.“Per i futuristi, i vitalisti, i nazionalisti, - scrive Cazzullo - l'ingresso dell'Italia in guerra è una vittoria culturale. La loro linea violenta, sciovinista, superomista ha prevalso sulla prudenza di gran parte della nazione[...]”

La grande guerra del 15-18 fu una terribile carneficina, in cui persero la vita più di un milione di persone, tra militari e civili. Mentre in tutto il mondo, i morti furono 37 milioni: un’ecatombe che ha spazzato via quasi un’intera generazione.

Cazzullo consultando diversi testi racconta la Prima guerra mondiale vista attraverso gli occhi della gente comune che vi ha partecipato, senza addentrarsi eccessivamente nelle complesse vicende politiche in cui il nostro Paese venne coinvolto e senza le proiezioni tipiche dello storico, diventa in queste pagine un’incredibile e straziante avventura alla quale furono chiamati a partecipare migliaia di uomini, per lo più contadini, ignari del loro destino e delle sorti del mondo.

Fu una guerra di posizione, combattuta palmo a palmo nelle trincee del Carso, sui monti dell’Isonzo, a Caporetto. Un fronte caldissimo in cui il nemico austriaco era talmente vicino che nella notte se ne potevano ascoltare le voci e in cui, per l’avanzata di pochi metri, venivano sacrificati interi reggimenti. La testimonianza del tenente Salsa è agghiacciante: “il terreno conquistato era coperto di morti[...] non si poteva andare più oltre […] era un'ubriacatura. Coloro che confezionavano gli ordini li spedivano da lontano; e lo spettacolo della fanteria che avanzava, visto dal binocolo, doveva essere esaltante. Non erano con noi, i generali; il reticolato non l'avevano mai veduto. I nostri soldati si fecero ammazzare così a migliaia, eroicamente, in questi attacchi assurdi che si ripetevano ogni giorno, ogni ora, contro le stesse posizioni”.

I soldati al fronte hanno dovuto affrontare il freddo, il cattivo equipaggiamento, la fame, le scarse condizioni igieniche, le malattie letali come il tifo, il colera e influenza spagnola che non risparmiò certo quelli che erano rimasti a casa. Tutte queste malattie, sconvolsero le nostre truppe più della mitraglia e del gas usato dal nemico.

Il testo di Cazzullo mette in risalto il coraggio dei nostri soldati ma nello stesso tempo l'inettitudine, l'impreparazione, talvolta il sadismo dei nostri comandanti.

Nei racconti allucinati dei superstiti lo spavento e la disperazione è tale che molti dei soldati andavano incontro alla morte quasi fosse una liberazione. L’esercito italiano era fatto di contadini legati alla terra, che seppero difendere la loro terra e le loro montagne con grandissimo valore.

Cazzullo fa i nomi di quei comandanti sadici che impartivano ordini e magari non videro mai le linee nemiche e che decimarono i loro stessi uomini, come il generale Graziani da Bardolino, Verona. Tra il 23 e il 26 maggio 1917, va in giro con il moschetto a caccia di soldati che tornano indietro dall'assalto. Naturalmente Cadorna apprezza. “Si fucila a caso, con una spietatezza che indigna un testimone americano: Ernest Hemingway[...]”. Un reduce, Cesare De Simone racconta: “tutte le volte che c'era un attacco arrivavano i carabinieri[...] i loro ufficiali li facevano mettere dietro in fila dietro di noi e noi sapevamo che, quando sarebbe stata l'ora, avrebbero sparato addosso a chiunque si fosse attardato nei camminamenti invece di andare all'assalto”. Tutti i libri raccontano il crudele ruolo assunto dagli uomini della“Virgo Fidelis” nella 1 guerra mondiale.

Finché rimase al comando il generale Luigi Cadorna le licenze concesse ai soldati furono rare, mentre le punizioni esemplari per i disertori o i dissidenti furono frequentissime.  Numerose le testimonianze di fucilazioni di quanti si rifiutarono di obbedire ad ordini assurdi Solo con il passaggio al comando del generale Armando Diaz, dopo Caporetto, le condizioni dei soldati migliorarono leggermente.

Nelle pagine del testo, Cazzullo offre moltissimi, e tutti interessanti, punti di vista. Troviamo le testimonianze rinvenute nei diari dei soldati semplici, ma anche gli articoli apparsi sui giornali del tempo. Non mancano i racconti dei grandi poeti e scrittori italiani, tra cui Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Ungaretti, che raccontarono con un linguaggio nuovo e impressionante la loro guerra. Senza l’enfasi dei Futuristi o del Vate D’Annunzio.

Tra le pagine più belle, quelle in apertura del libro. Si racconta la repressione violenta della rivolta di un reggimento di fanteria, decimato dal colonnello, che ordina di fucilare dieci soldati estratti a sorte e tra di loro addirittura due “complementi”, soldati giunti dopo la rivolta. E quando il povero disgraziato soldato bendato gli ricordava che lui non c'era quel giorno della rivolta e chiedeva di essere graziato, il colonnello paternamente risponde: “Figliolo, io non posso cercare tutti quelli che c'erano e che non c'erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto. Confida in Dio”.

Il testo dà conto degli italiani d'Austria, dei Trentini e dei Giuliani, considerati traditori  traditori dagli Austriaci prima e dagli Italiani poi. Terribili le pagine in cui Cazzullo racconta gli stupri etnici … le nostre nonne subirono azioni atroci. Si è persa memoria dello “stupro del Friuli” e della “tragedia” cioè dei ”figli nati dalle violenze” così tanti “che si dovette aprire un orfanotrofio” per “gli orfani dei vivi”. Nessuno infatti voleva saperne di quei “piccoli tedeschi” bastardi.

Da buon giornalista, Cazzullo riesce a raccontare diversi particolari come quello dell'artigliere ventunenne di Viterbo, condannato a 22 mesi di carcere per aver detto a suo padre di riferire alla gente che la guerra è ingiusta, perché voluta da una minoranza di uomini.
Cazzullo ci fa sentire la voce di soldati, contadini, ufficiali nobili. E, forse per la prima volta, anche quella delle donne: crocerossine, prostitute, portatrici, persino spie alla Mata Hari.

Siamo cresciuti coi racconti di guerra dei nostri nonni, dei nostri zii, che ci raccontavano la Storia della gente comune, dei contadini, dei ragazzi del Sud, come ha ben scritto Lorenzo Del Boca, ne “Il sangue dei terroni”. E' la microstoria che viene raccontata dal libro di Cazzullo. La Grande Guerra non ha eroi. I protagonisti non sono re, imperatori, generali. Sono fanti contadini: i nostri nonni. Furono in molti a dover abbandonare le famiglie sotto le tende per recarsi al fronte. Magari scamparono alla Natura Matrigna, ma non al folle Cadorna.

Aldo Cazzullo racconta il conflitto ’15-18 sul fronte italiano, alternando storie di uomini e di donne: le storie delle nostre famiglie. Perché la guerra è l’inizio della libertà per le donne, che dimostrano di poter fare le stesse cose degli uomini: lavorare in fabbrica, guidare i tram, laurearsi, insegnare. Le vicende di crocerossine, prostitute, portatrici, spie, inviate di guerra, persino soldatesse in incognito, incrociano quelle di alpini, arditi, prigionieri, poeti in armi, grandi personaggi e altri sconosciuti.

Attraverso lettere, diari di guerra, testimonianze anche inedite, “La guerra dei nostri nonni” conduce nell’abisso del dolore: i mutilati al volto, di cui si è persa la memoria; le decimazioni di innocenti; l’«esercito dei folli», come il soldato che in manicomio proseguiva all’infinito il suo compito di contare i morti in trincea. Sono testimonianze di una sofferenza che oggi non riusciamo neppure a immaginare, sia le tante storie a lieto fine come quelle raccolte dall’autore su Facebook.

Per avere piena consapevolezza dell'inutile crudeltà di questa guerra e quindi per non festeggiarla, basterebbe leggere i 2 capitoli del libro di Cazzullo, che mi hanno maggiormente colpito, che riguardano gli effetti della guerra: i troppi mutilati (“i soldati senza più volto”) e i troppi malati mentali (“l'esercito dei matti”). L'Italia nella Grande Guerra ebbe un milione di feriti, (mutilati, storpi, senza occhi, senza mani, muti, sordi). All'inizio della guerra, tra i soldati schierati in prima linea, la percentuale dei feriti arrivò al 90%, “praticamente - secondo Cazzullo - tutti passarono attraverso il momento di terrore in cui si perde o si rischia di perdere una parte di sé”. Sostanzialmente bastarono i primi giorni per riempire gli ospedali militari di mutilati., naturalmente da nascondere con cura. Alcuni addirittura, perfino nel 1919, a guerra finita, per la loro mostruosa mutilazione, si impediva ai familiari di vederli o si faceva credere che fossero morti o dispersi.“Sui mutilati al viso è calato un lungo oblio, infranto dal documentario girato nel 2004 da Yervant Gianikian e Georg Trakl[...] i due cineasti hanno mostrato, grazie a immagini censurate per quasi novant'anni, le conseguenze umane e sociali della Grande Guerra”. Basterebbero queste sole immagini per rappresentare in maniera definitiva l'orrore indicibile della guerra.

Infine c'è il racconto dei cosiddetti “scemi di guerra”, Cazzullo riporta gli studi di una ricercatrice, Annacarla Valeriano, dell'università di Teramo. Questa donna, ha ritrovato le cartelle cliniche e le lettere dei fanti ricoverati nel manicomio della sua città e poi estendendolo a tutto il territorio nazionale. “Ne esce un martirologio straziante, che la Valeriano ha pubblicato dalla casa editrice Donzelli con un titolo tratto dalle annotazioni cliniche dell'epoca: 'Ammalò di testa'. Lo studio della Valeriano, rappresenta uno“una discesa agli inferi di una sofferenza immensa e dimenticata”. Cazzullo nel capitolo, riporta un'ampia antologia di casi di malessere significativo, soldati rimasti per sempre segnati dalla guerra. Peraltro vengono colpiti anche i familiari a casa, soprattutto, le donne, le mamme che aspettano il figlio o il marito.

“Le ferite o le mutilazioni mettono in dubbio la propria identità, il proprio ruolo sociale. Il fante tornato a casa non sa più chi è. La guerra è qualcosa più grande di lui. La tecnologia della morte lo sovrasta. Il nemico che uccide senza mai mostrarsi diventa un'ossessione. A volte i peggiori nemici sono gli ufficiali italiani: è lo Stato, tradizionalmente assente, che si manifesta in modo improvviso, con tutto il suo potere coercitivo e la sua ottusità al limite della crudeltà.

Pertanto concludo ancora con la domanda: tanta inutile crudeltà, tanta carneficina insensata, come è stata la guerra voluta da una minoranza degli italiani, merita essere festeggiata?

Il mese di Ottobre è ricco di ricorrenze storiche. Si ricorda, la rivoluzione bolscevica, ma anche quella ungherese del 1956, e poi soprattutto, per noi italiani, la disfatta di Caporetto. La ricorrenza del centenario della “disfatta” di Caporetto del 24 ottobre 1917 nella 1 guerra mondiale, ha suscitato diverse manifestazioni e celebrazioni, ma anche molte riflessioni sui media. La letteratura sulla 1 guerra mondiale è abbastanza vasta, ma su un argomento si trova poco, mi riferisco alla posizione della Chiesa, della Santa Sede, nei confronti del conflitto mondiale.

Essere cattolici più o meno militanti, ma soprattutto religiosi, in quel tempo non era facile. Da un lato c'era la difesa della Patria, dell'Italia, dall'altro, c'erano gli Imperi centrali, l'Austria. Infine, c'era il volto crudele della guerra da combattere, l”inutile strage”, come l'ha ben definita il Santo padre Benedetto XV. Fu difficile la posizione dei vertici della Chiesa, del Papa, dei vescovi. Benedetto XV, è stato abbastanza chiaro, aveva emanato chiare direttive, occorreva mantenere una posizione neutrale, al di sopra delle parti.

In questi giorni ho preso visione dei 3 volumi: “I Vescovi Veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918”, a cura del sacerdote Antonio Scottà, Edizioni di Storia e Letteratura, (Roma 1991). Si potrebbe obiettare che si tratti di un tema specifico, sostanzialmente dovrebbe interessare gli specialisti. Non è così, i vescovi veneti, proprio perché presenti sul territorio, furono diretti testimoni,“per 41 mesi di una delle più terribili guerre della storia”. Scrive nell'introduzione don Antonio Scottà. “La possibilità, quindi, di rivedere quella tragedia, sulla base di una documentazione immediata, viva, ha una notevole rilevanza storica, perché da nessun'altra fonte sinora conosciuta come quella che qui viene riprodotta si ha modo di comprendere che cosa abbia significato quella guerra per le popolazioni del Veneto”.

Don Scottà ha fatto un gran lavoro di ricerca, beneficiando dell'apertura nel 1985, degli Archivi Vaticani, ha pubblicato le numerose lettere tra i vescovi veneti e la Santa Sede, proprio nel periodo della guerra. L'antologia, copre un vuoto storiografico. L'opera di don Antonio Scottà,“è di grande spessore storico e culturale”, scrive nella presentazione Gabriele De Rosa. Infatti per lo storico,“Queste lettere costituiscono, anzitutto,  una documentazione viva sulle vicende delle terre venete più esposte nella guerra: una documentazione di prima mano del ruolo primario, importantissimo svolto dal clero, dai parroci, dai cappellani, dai vescovi, in aiuto delle popolazioni[...]”.  All'inizio della guerra il Veneto italiano copre 11 diocesi e risale più o meno al tempo della Repubblica di Venezia. In questa raccolta di missive occupa un posto primario, il vescovo di Padova, monsignor Luigi Pellizzo. In questo numero rilevante di lettere, il vescovo rivela una straordinaria conoscenza degli avvenimenti bellici e politici, e per l'influenza da lui esercitata sul clero e sui fedeli durante il conflitto, in una delle diocesi più vaste e più devastanti della guerra. In particolare sono utili dopo la disfatta di Caporetto,“sembrano quasi un 'reportage' giornalistico per la loro immediatezza e concretezza”. Ecco perché il Papa “era perfettamente informato sull'accadere tumultuoso e catastrofico degli avvenimenti, meglio e più tempestivamente dello stesso comando supremo italiano”. E proprio “in quel momento l'espressione “inutile strage” - scrive Scottà - era quanto di più realistico si poteva dire della guerra, perchè il continuarla comportava, per tutte le parti, un rischio maggiore che quello di finirla in qualsiasi modo”.

Le lettere di monsignor Pellizzo, occupano gran parte del 1° volume, nel 2° e 3°,  in ordine di pubblicazione, riguardano quelle di monsignor Pietro La Fontaine, vescovo di Venezia. Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza, Sante Bartolomeo Bacilieri, vescovo di Verona, Andrea Giacinto Longhi, vescovo di Treviso, monsignor Francesco Isola, vescovo di Concordia, Giosuè Cattarossi, vescovo di Feltre e Belluno. Poi monsignor Rodolfo Caroli, Eugenio Beccegato, Anastasio Rossi, vescovo di Udine. Infine Celestino Endrici, arcivescovo di Trento, dove era particolarmente difficile mantenere imparzialità e neutralità, e monsignor Francesco Borgia Sedej. Arcivescovo di Gorizia. Occorre subito precisare che la maggior parte di loro essendo vescovi di confine, operanti nel territorio dove si svolgeva il conflitto armato, apparivano patriottici e decisamente prudenti. Tranne monsignor Isola che subì l'accusa di austricantismo, per questo nel 1918, subì la violenta aggressione da parte dei soldati italiani, che spogliarono la curia di ogni cosa.

Praticamente “dalle lettere dei vescovi si ricava che la chiesa in Veneto abbia costituito una specie di struttura parallela a quella dello Stato, robusta ed efficiente tanto da assumere funzioni di supplenza sul piano amministrativo e in certa misura anche politico, nei momenti cruciali della guerra”. Non è una esagerazione, basta leggere le lettere, per constatare come il clero, ma anche i cattolici stessi, non possono essere tacciati di non avere il senso dello Stato.

Praticamente la guerra ha messo a nudo “la fragilità del sistema amministrativo italiano ed in particolare l'inadeguatezza dei pubblici funzionari, sia sotto il profilo tecnico e professionale che, sopratutto, sotto quello delle responsabilità civili e morali”. Sono notorie le gravi carenze di coordinamento fra gli enti locali ed il governo centrale; le divergenze fra il decisionismo dei militari e la lentezza del parlamento. A tutto questo Scottà aggiunge anche l'acuirsi delle differenze sociali a causa della guerra. Pare che nei momenti più gravi, “sia in occasione degli sgomberi delle popolazioni, che nell'imminenza del pericolo dell'invasione, la maggioranza ed in certi casi la totalità dei cittadini di condizione agiata e degli impiegati dello stato, come anche sindaci e consiglieri comunali, o non si curò affatto della popolazione o fuggì verso posti più sicuri, con la pretesa di dare a quella fuga un'attestazione di patriottismo”. Attenzione, la Chiesa cattolica, “con la sua capillare organizzazione locale e con la dedizione incondizionata del clero”,  è stata l'unica ad essere sempre presente sul territorio. “Il referente locale, rispetto all'autorità civile e militare, divenne il parroco od il vescovo”. Pertanto, è proprio a lui che “ci si rivolge per quelle esigenze organizzative attinenti alla protezione, alla sicurezza, all'assistenza, all'informazione e così via”. Non sono rari i casi in cui i parroci, nominati o costretti a fungere da commissari prefettizi, sia dai comandi militari italiani, sia da quelli austro-tedeschi durante l'anno di occupazione.

Sono i vescovi che fanno conoscere alle autorità militari le preoccupazioni delle popolazioni, sono essi che protestano per le insensate requisizioni e per gli atti di saccheggio e devastazione perpetrati dalle truppe sbandate dopo Caporetto, dimostrando, ancora una volta, di essere l'unica autorità pubblica affidabile. Sono sempre i vescovi che si sono impegnati nella salvaguardia delle opere e dei monumenti artistici e culturali, mettendo in salvo diverse opere e beni. Inoltre dalle lettere dei vescovi emerge un grande impegno della Chiesa nei confronti del dramma del profugato. Sia nello sgombero che nell'accoglienza, ci sono sempre gli uomini di Chiesa in prima fila. Forti sono le critiche dei vescovi nei confronti delle autorità sia militari che civili, per l'approssimazione e la disorganizzazione con cui attuano tali operazioni. A quanto sembra non è cambiato nulla ai nostri giorni.

Nonostante tutto questo impegno della Chiesa, ci sono sempre le accuse di disfattismo, di spionaggio, di collaborazione con il nemico o, vagamente, di austriacantismo. Certo la Chiesa, la Santa Sede, all'inizio del conflitto, assunse una posizione decisamente neutrale, ha raccomandato sia ai vescovi che ai parroci“la massima cautela e prudenza nel parlare in pubblico ed in privato delle questioni attinenti la vita politica e la guerra”.

Sono numerosi i casi di singoli preti, religiosi incriminati, mandati in esilio perché ritenuti anti patriottici. In materia di pubblica sicurezza ci sono provvedimenti straordinari con divieti di pubbliche riunioni, processioni civili e religiose. Il divieto anche di accompagnamento del viatico ed il trasporto funebre. La stampa censurata completamente. La diffusione di notizie durante la guerra, era attinenza soltanto del comando supremo militare.

Secondo Scottà,“vi sono documentazioni che attestano l'intenzione di colpire sistematicamente il clero”, sin dall'inizio della guerra,“pervengono alla Segreteria di Stato informazioni su una premeditata offensiva promossa dalla massoneria contro il clero ed in particolare contro i cappellani militari”. Esistono circolari ministeriali inviati ai comandi militari “sulla sorveglianza nei confronti del clero e dei religiosi per l'azione pacifista che,  a giudizio del governo e dei comandi, tendeva ad rallentare lo spirito di resistenza dei soldati e della popolazione; ma dietro a detta azione si intravedeva una strumentalizzazione politica del governo asburgico per le sue supposte aderenze presso la chiesa cattolica”.

Con il decreto Sacchi dell'inizio Ottobre 1917, vari sacerdoti vennero incriminati. Nei mesi susseguenti Caporetto,“si avverte chiaramente nelle lettere dei vescovi il montare di quella 'insidiosa e raffinata campagna di calunnie e di odio' orchestrata contro Benedetto XV ed in pari tempo l'inasprirsi della 'persecuzione' contro il clero ed i vescovi, allo scopo di 'coglierli in fallo, di diffamarli, di trascinarli in giudizio'”.

Ritornando a prima dell'inizio della sanguinosa guerra, il Papa si è sempre prodigato per non farla scoppiare. A meno di un mese dell'entrata in guerra dell'Italia, nell'intervista rilasciata da Benedetto XV al giornalista francese Louis Latapie, pubblicata sul giornale“Liberté”, ed il giorno dopo, 22 giugno, in Italia sul “Corriere della Sera”, il papa illustra le ragioni della neutralità della Santa Sede e di quella, vanamente auspicata, della stessa Italia. L'intervista secondo Scottà, per il papa rappresenta la“necessità di prendere le distanze dallo stato italiano e dissipare eventuali sospetti di collusione morale o politica; l'esigenza di trovare nell'attenzione dell'opinione pubblica europea un fattore di maggiore sicurezza; la possibilità di muoversi con una propria libertà d'iniziativa che l'imparzialità o neutralità legittimava”.

Anche se l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti dell'Impero Austro-Ungarico,  non era ostile, soprattutto sotto il pontificato di San Pio X, anzi non era un segreto che Papa Sarto nutriva simpatie nei confronti dell'Austria, che praticamente era rimasta l'unico grande Stato cattolico in Europa. Tuttavia,“Giacomo Della Chiesa – ovvero Benedetto XV – eredita dal suo predecessore una Santa Sede indiscutibilmente inclinata verso la pace e la più assoluta e doverosa imparzialità. Lo stesso non si poteva dire riguardo alla condotta di molti suoi membri, che palesemente si schieravano, con esasperato patriottismo e senso nazionalistico, a favore di un intervento italiano nel conflitto mondiale, per non parlare di veri e propri interventi di «guerriglia» da parte del clero di alcune nazioni in guerra”. (Caterina Ciriello, “Benedetto XV, la guerra e le posizioni dei vescovi italiani”, Anuario de Historia de la Iglesia, Vol.23 enero-diciembre 2014, Universidad de Navarra, Pamplona, Espana)

La Ciriello tra i religiosi che inneggiano al patriottismo ricorda padre Agostino Gemelli, allora medico e cappellano militare,“il quale manifestava in suoi diversi scritti la sua profonda indole patriottica e la sua inclinazione all’intervento italiano in guerra. Essa era tale da contraddire il suo sincero spirito francescano e da attirarsi le ire del p. Generale dell’Ordine, Serafino Cimino, il quale in una lettera molto confidenziale, lo rimproverò per un articolo da lui pubblicato il 25 agosto 1915, cioè pochissimi mesi dopo l’entrata in guerra italiana, facendogli presente non solo «la penosissima impressione fatta a molte persone di altissima autorità e rettissimo sentire», ma pure il suo personale sconcerto pregandolo in futuro di «essere molto più cauto nello scrivere ed anche nel parlare” (Ibidem)

Inoltre da ricordare,“Giovanni Semeria, barnabita, le cui prediche, più che di sapore evangelico, rigurgitavano di acceso nazionalismo con grande piacere dei politici italiani, ma con grave disappunto di Benedetto XV convinto del danno causato da Semeria alla politica neutralista della Santa Sede”.(Ibidem)

Il 4 agosto poi il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, indirizza ai nunzi apostolici, una lettera dove si tutela la Santa Sede la propria identità spirituale e politica. In pratica,“l'imparzialità della Santa Sede, - scrive Scottà - è un'esigenza che scaturisce dall'essenza stessa del messaggio cristiano, incarnato nella figura di Gesù, principe della pace, salvatore degli uomini. A ciò si aggiunga la convinzione che la guerra non costituisse uno strumento valido per la risoluzione dei problemi degli stati e della comunità internazionale: non sul piano degli ordinamenti interni dei singoli paesi, non per la salvaguardia dei principi del diritto, non per le aspirazioni nazionali e neppure per le istanze sociali rivendicate dal nuovo protagonismo politico e civile delle masse operaie. Infine perché la guerra avrebbe prodotto solo danni incalcolabili, e fra questi anche l'illusione dell'eliminazione dell'avversario”.

Pertanto il Papa poteva dichiarare senza tema di smentita, essendo lui Padre comune a tutti, “una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti”, “uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da noi si potesse,[...] senza distinzione di nazionalità o di religione[...]”. Infine fare di tutto per affrettare la “fine di questa calamità”, per arrivare a “una pace giusta e duratura”.

La vigilanza della Santa Sede sui vescovi e sul clero e costante, già prima della guerra, e specialmente durante.“Mostra una certa tolleranza nei confronti di attestazioni patriottiche, ma insofferenza per espressioni o discorsi dai toni nazionalistici”.

Il 26 maggio 1915 la Segreteria di Stato inviava a tutti i vescovi delle direttive precise:“Allo scopo che tutti i Rev.mi Vescovi italiani seguano una stessa linea di condotta nella situazione creata dall’intervento dell’Italia nell’attuale conflitto, si indicano qui appresso alcune norme, alle quali i vescovi medesimi, nelle presenti difficili circostanze, avranno cura di uniformarsi: 1. Non devono pronunciarsi discorsi in occasione della partenza o dell’arrivo di truppe, dei funerali per i caduti in guerra o di simili avvenimenti e cerimonie pubbliche. 2. I Vescovi eviteranno in ogni eventualità di farsi iniziatori di pubbliche manifestazioni.

Per ciò, poi, che concerne l’esporre la bandiera nazionale, l’illuminare gli edifici

episcopali ecc... (nel caso che simili manifestazioni divenissero generali in tutta la città) non è loro vietato di farlo, ma si regoleranno secondo le circostanze, tenuto conto specialmente delle ubicazioni degli edifici stessi, i quali in alcune città trovansi molto in vista, in altre non lo sono. 3. Parimenti i Vescovi, ed in genere gli ecclesiastici non si faranno promotori di funerali per i caduti, di funzioni per rendimento di grazie ecc; ma se ne vengano richiesti, non si oppongano. Abbiano, tuttavia, presente che i Te Deum solenni debbono riservarsi per le vittorie decisive; come pure che a queste e simili funzioni non è opportuno che intervenga il vescovo, se può astenersene senza serio pericolo di gravi inconvenienti. 4. Quanto alla scelta della colletta pro=pace, che sinora è stata recitata, è l’altra Tempore belli, da alcuni ora proposta, è lasciato ai vescovi il determinarla per la rispettiva Diocesi”. Comunque sia, secondo lo storico Giampaolo Romanato,“è stato molto difficile per i vescovi e per la struttura ecclesiastica di base sottrarsi alle sirene nazionalistiche senza venir meno all'obbligo della solidarietà verso i combattenti, davanti alle continue richieste di benedizione delle truppe in partenza, di funerali solenni, che portavano a un coinvolgimento sempre maggiore della chiesa nel clima della guerra”.

Mentre per quanto riguarda l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti delle organizzazioni cattoliche, in particolare nei confronti dell'”Unione Popolare fra i cattolici italiani”, che si era fatta contagiare dall'interventismo e dalla “frenesia del maggio radioso”. A questo proposito, il Papa interviene personalmente, è categoricamente sconfessa la posizione dell'associazione. Non ci può essere nessuna approvazione della “guerra che il popolo non vuole ad ogni costo”.

Concludiamo utilizzando le conclusioni della studiosa Caterina Ciriello, della Pontificia Università Urbaniana di Roma.

“La crudezza dell’evento bellico cambiò molte vite, insinuò sospetti, spaccò in due le comunità, la società intera. L’intento del papa fu quello di limitare il più possibile i danni della guerra ed assicurare ai fedeli la maggiore assistenza possibile. Molti vescovi furono solo pastori impegnati a curare il proprio gregge mettendo da parte i sentimenti patriottici; altri furono malvisti per la loro ostinazione ed inflessibilità nella celebrazione delle esequie ai soldati morti in guerra, causando non pochi problemi alla Santa Sede. Benedetto xv ebbe a che fare con pastori spesso ingenui e con altri fin troppo scaltri; a tutti però, da autentico padre – come si può vedere annotato nelle numerose lettere inviate ai prelati – consigliava prudenza e saggezza, rinuncia e sacrificio per il bene del popolo, dell’Italia e della Chiesa specialmente[...]”.

Dopo “Maledetta guerra”, Lorenzo Del Boca insiste nel raccontare la vera storia della“Grande guerra”, (1a guerra mondiale) definita da Papa Benedetto XV una inutile strage. L'anno scorso per la casa editrice Piemme, viene pubblicato, “Il Sangue dei Terroni”, in questo agile testo di 203 pagine e 6 pagine di note, l'autore cerca di sostenere poche tesi: l'assoluta maggioranza delle vittime era gente del Sud. Un'intera generazione spazzata via. Questi caduti, dei veri e propri “militi ignari”, erano contadini poveri, braccianti, piccoli artigiani, quasi per metà analfabeti, giovani di vent'anni che furono strappati alle loro famiglie e alla loro terra e mandati a morire in lande remote, tra montagne da incubo e pianure riarse. Inoltre sono morti e si sono sacrificati per interessi loschi ed oscuri di certe élite economiche che badavano solo al proprio tornaconto di una nuova classe politica che li trattava con ferocia e disprezzo.

E facendo riferimento alle alture del Carso, dove“non c'è sasso senza storia”, scrive Del Boca:“Quei ragazzi, dalle loro campagne, si trovarono catapultati in una distesa di sassi che sembrava impossibile fosse un obiettivo di conquista. Ma chi poteva volerla quella terra, dove non era nemmeno possibile seminare?”. Sul Carso furono divorati interi reggimenti, l'esercito italiano subì un'autentica carneficina che si portò via 150.000 ragazzi.

Erano giovani che ben presto“diventarono carne da cannone, numeri da inserire nelle statistiche dello Stato Maggiore, bandierine che i generali spostavano sulle mappe con noncuranza”. A migliaia finirono nelle trincee, a passare anche mesi nel fango e nel gelo, sotto la pioggia e le bombe. Furono costretti da ufficiali balordi e spesso criminali a combattere “contro un nemico che non conoscevano e che non avevano motivo di odiare”.

Del Boca biasima le celebrazioni, le ricorrenze della Prima Guerra Mondiale che ogni anno“si celebrano con enfasi insensata”. Una guerra che nessuno voleva, o meglio, soltanto una piccola minoranza aveva interesse di farla. Erano i soliti intellettuali che “schiamazzavano per le piazze d'Italia chiedendo a gran voce una prova di forza. Volevano il 'bagno' nel sangue - scrive Del Boca - per garantire alle prossime generazioni un futuro eroico”. Mentre la povera gente protestava come le donne di Collesano, di Alcamo, di Sciacca, Paternò, Bagheria, Piana degli Albanesi e tanti altri centri della Sicilia.In prima fila, madri, mogli e sorelle, che non accettavano di vedere i loro uomini partire per il fronte, con una buona probabilità di non vederli più fare ritorno”. Fu un vero e proprio movimento organizzato, che non si può liquidare come un fenomeno sporadico e isolato. A volte queste donne nelle loro manifestazioni ricorrevano anche alle statue del santo patrono, marciando con le camicie bianche. Accadde a Caltagirone, a Montalbano Elicona, a Catania.“Eppure – scrive del Boca – la storia ha concesso loro ben poca attenzione, al punto che, esclusi gli 'addetti ai lavori', la maggior parte del pubblico non ne è a conoscenza”.

Le autorità fermarono la protesta anche con le maniere dure, utilizzarono processi e denunce, alcune donne finirono in prigione come Maria Segreto a Ribera o Maria Ponticello a Campobello di Licata. Ma soprattutto, le autorità,“si assicurarono che delle manifestazioni non rimanesse traccia sui giornali, per evitare un contagio per emulazione”.

Il testo evidenzia come la censura messa in atto dalle autorità“si sforzò in tutti i modi di minimizzare i danni che i combattimenti stavano provocando”. Ci pensarono i quotidiani, in particolare, la“Domenica del Corriere”, con le illustrazioni oleografiche degli atti di eroismo di Achille Beltrami.

Nel 2° capitolo Del Boca, racconta il momento dell'addio, dei tanti giovani contadini, che quasi certamente andavano incontro alla morte, ecco perché le donne protestavano. E' naturale che la partenza per il fronte assumeva i lineamenti di una disgrazia irrimediabile. Anche se l'iconografia ufficiale, ha voluto rappresentare “le tradotte dei treni che lasciavano le stazioni inseguite dallo sventolare delle bandiere, dalle musiche di marce militari, dai sorrisi inorgogliti dei parenti e dai fiori lanciati sulle carrozze”. Peraltro secondo Del Boca tutte scene organizzata ad arte. Certamente chi andava in prima linea non era per niente allegro, spesso si abbandonava al pessimismo e alla tristezza. Non solo gli italiani, ma anche chi stava dall'altra parte. Sicuramente,“Per la gente del popolo, la guerra rappresentava uno spreco di risorse, di tempo e di energia”. Del Boca incalza, sul tema: “il semplicismo degli ignoranti non ammetteva disquisizioni e teorie. La patria era una concezione estranea. Trento e Trieste creazioni mitiche che non riuscivano a commuoverli”, e l'Austria, non era la terra dei tiranni, ma dove si parlava l'austriaco.

Una cosa è certa:“La macchina della guerra avrebbe ingoiato centinaia di soldati, ammonticchiandoli uno sull'altro senza distinzioni di schieramenti, età, gerarchie e convinzioni. Italiani sopra austriaci e poi sopra ancora ungheresi, dalmati, altri italiani, croati, ancora italiani”. Poi c'erano le trincee, che secondo il giornalista britannico, Robert Kee, “furono i campi di concentramento della Prima guerra mondiale”. Anche se per qualcuno poteva essere una tesi “antistorica”, il giornalista non ritrattò mai la sua tesi. “Quelle lunghe file di giovani infagottati, in divise sempre più sgualcite, gravati da fardelli che pesavano sulle spalle, con un numero al collo e avviati verso lo sterminio che li attendeva oltre i reticolati cosa rappresentavano se non un'anticipazione di Auschwitz o di Buchenwald?” Emanuele Di Stefano, un ufficiale di Ragusa, descrive il luogo:“un caos di tavole, pali e lamiere sosteneva la copertura che era di terra. Si respirava un'aria metifica. Da una feritoia filtrava una luce fioca”,. “Non immaginerai mai in che cosa consista la guardia in trincea, - scrive in una lettera a un amico Costanzo Premuti - la vigilanza allo scoperto, l'agguato teso per lunghe ore, con i piedi nel fango e i gomiti appoggiati a una sporgenza di neve”. Del Boca prova a dare alcuni riferimenti statistici sui morti che l'Italia ha dovuto subire, ufficialmente 677 mila,“ma mancano i morti in prigionia, che furono almeno 100.000, quelli ricoverati negli ospedali psichiatrici, frettolosamente indicati come 'scemi di guerra'”. Ma poi quanto poteva campare un ferito di guerra, un mutilato? Secondo Del Boca,“la maggior parte dei feriti non sopravvisse oltre il terzo anno di convalescenza”. Pertanto secondo il giornalista, è“meglio dire che la guerra mondiale costò all'Italia un milione e mezzo di vittime.

Nel 4° capitolo l'autore rileva la somiglianza tra la conquista del Sud di cinquant'anni prima e la conquista delle cosiddette terre “irredenti” delle regioni dell'Italia orientale:“Gli 'irredenti': terra di conquista come i 'terroni' cinquant'anni prima”. E' stata la propaganda che ha esaltato la prima guerra mondiale come un “sacro conflitto”, destinato a “liberare” le regioni dell'Italia orientale che erano rimaste sotto “il tallone dello straniero” e “anelavano” la riunificazione alla madrepatria. In realtà, “i soldati che il 24 maggio 1915 attraversarono il confine incontrarono una popolazione indifferente, se non proprio ostile”. Il generale Giovanni Comisso si lamentava con la popolazione:“Così ci trattate che siamo venuti a liberarvi? Ci voltavano le spalle...”. Certo c'erano i filo-italiani, in particolare nella borghesia, ma il resto della popolazione, la maggioranza era indifferente, spesso ostile. “Non c'era niente o nessuno da 'liberare'. Quella era una guerra di conquista, destinata a sottomettere le popolazioni friulane e sud-tirolesi che sarebbero state benissimo dov'erano e autonomamente non avrebbero chiesto di cambiare regime”. E se a parole si predicava “il diritto delle genti”, nei fatti ci si prodigava con la forza e la brutalità a sottometterli. Del resto come hanno fatto con “i genitori e i nonni dei 'terroni', giusto una cinquantina d'anni prima, avevano subito la medesima sorte: erano stati invasi. I figli e i nipoti – per obbedienza agli ordini – si trovarono in prima linea per occupare province che, di per sé, non ne avrebbero voluto sapere di un nuovo governo”. Il Sud è stato conquistato con la violenza e la crudeltà, la stessa cosa per Del Boca avvenne nel Nord-Est, anche se “l'invasione risultò meno appariscente”. Il libro riporta episodi gravissimi di fucilazioni di massa come quello sui cittadini di Villese, ad opera dei soldati in grigio-verde e poi i bottini di guerra come quelli nei villaggi sloveni della Bainsizza.

Naturalmente Del Boca ha letto diversi libri-testimonianza, diverse memorie, dove si raccolgono le “voci” della grande guerra. Interessante la bella testimonianza di Giuseppe Filippetta, che riporta le parole di Maria, una donna italiana che preferisce rimanere sotto gli austriaci da italiana, perché sa che l'Austria li tratta bene economicamente. A proposito delle testimonianze, possiedo 3 grossi volumi, su “I Vescovi Veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918”, edizioni di Storia e Letteratura (Roma, 1991). Ne ho letto alcune pagine, si tratta di lettere scritte dai vescovi veneti, che hanno visto in prima persona, per 41 mesi una delle più terribili guerre della storia. Naturalmente le lettere hanno una notevole rilevanza storica, perché da nessuna altra fonte sinora conosciuta come quella che qui viene riprodotta si ha modo di comprendere che cosa abbia significato quella guerra per le popolazioni del Veneto. Proverò a presentarli quanto prima, naturalmente quando avrò una maggiore conoscenza dell'intera opera curata da Antonio Scottà.

Anche ne “Il Sangue dei Terroni”, Del Boca fa riferimento alla vergognosa faccenda delle fucilazioni facili, ai cosiddetti “plotoni d'esecuzione” per i nostri soldati che non volevano combattere o che cercavano di sfuggire a morte sicura. Cadorna aveva raccomandato che nel suo esercito doveva regnare sovrana una ferrea disciplina”. Pertanto pretendeva “ordine perfetto e obbedienza assoluta”. Tutto questo bisogna ottenerlo anche a bastonate. “Il generalissimo esigeva giustizia sommaria, implacabile e sfrenata. Torto, ragione, ricerca di verità e, soprattutto, certezza nel diritto furono considerati elementi irrilevanti”. Del Boca cita ancora l'unico libro-documento scritto dal titolo: “Plotone d'esecuzione”, edito da Laterza (2014) firmato dal docente universitario di Storia Moderna Alberto Monticone e dal giornalista Enzo Forcella. Nonostante la bibliografia sulla Prima guerra mondiale abbia prodotto oltre 40.000 titoli, questo tema è stato completamente ignorato dai vari storici.“I tribunali militari furono travolti da una fiumana di pratiche. Durante la Prima guerra mondiale, furono istruiti 40.000 processi per reati commessi da soldati. Alla fine del conflitto, 50.000 risultarono ancora pendenti […] Furono pronunciate 4.000 condanne a morte, 15.345 ergastoli[...]”. Praticamente secondo del Boca, l'esercito italiano ha il record assoluto della repressione, accanto alla procedura “ordinaria”, fece largamente ricorso alle esecuzioni “sommarie”.

“Con ottusa ferocia, i vertici militari e politici addossarono ai soldati la responsabilità dei rovesci e delle mancate vittorie sul campo di battaglia. I poveri fantaccini che tornavano alla trincea perdendo sangue, con la testa rotta e le braccia stroncate, dovevano per giunta essere puniti per non aver sconfitto gli avversari”. Ancora peggio erano considerati quelli che cadevano nelle mani dei nemici. Infatti il ministro degli esteri Sidney Sonnino si rifiutò di ratificare uno scambio di prigionieri fra Italia e Austria. Eppure si trattava di soccorrere 250.000 uomini, molti malati. I nostri governanti si giustificarono che accettando lo scambio favoriva la diserzione generale dei nostri soldati, che non avevano voglia di combattere.

Molti soldati morirono nei campi di concentramento, almeno 100.000 e probabilmente potevano essere salvati. Peraltro questi prigionieri dai vertici militari erano malvisti, considerati dei traditori. “Sembrava persino che quei disgraziati dovessero pagare una pena aggiuntiva per essere rimasti vivi, in quel macello di dolore”.

Ormai esiste una discreta letteratura sulla conquista del Sud, nel 1860 da parte degli eserciti del Regno di Sardegna. Si potrebbe elencare diverse opere più o meno complete sull'argomento. Per quanto mi riguarda il primo testo che ho letto è quello di Carlo Alianello, “La Conquista del Sud”. Recentemente è stato ripubblicato in versione Pickwick, della Piemme, il libro di Pino Aprile, “Carnefici”. Qui il giornalista e scrittore pugliese, porta a compimento l'inchiesta iniziata con il suo precedente libro “Terroni”. Ha lavorato cinque anni Aprile per arrivare alla tesi che al Sud, gli eserciti piemontesi dei Savoia hanno compiuto un vero e proprio “genocidio”. Centinaia e migliaia di persone scomparse o costrette a subire la deportazione. Rastrellamenti, marce forzate, torture e fucilazioni dei cosiddetti “briganti”, uomini armati, che si sono ribellati al nuovo ordine imposto da Torino.

Aprile ha ricostruito pazientemente con un'incalzante e drammatica ricerca, una mappa di un immenso “Arcipelago gulag”, fatto di una serie di numeri, di dati, di confronti e incroci sulla popolazione meridionale. Praticamente ha pubblicato fonti e documenti, ritrovati nei vari libri consultati, ma anche in archivi, che per troppo tempo sono stati occultati dalla storiografia ufficiale. Il giornalista pugliese oltre a fare riferimento ai tanti storici locali, si appoggia ai vari De Sivo, Molfese, Pedio, Alianello, Zitara, Di Fiore.“Sono ormai decine gli specialisti e i volontari che sventrano archivi ignorati in Italia e all'estero, per trarne e divulgare decine di migliaia (avete letto bene: decine di migliaia) di schede, verbali, rapporti, documenti, promemoria che quasi nessuno ha cercato in un secolo e mezzo. E' la somma di quelle carte che conduce alla parola genocidio.

Chiaramente Aprile, è stato contestato dai vari pasdaram risorgimentisti, mettendo in discussione i suoi dati numerici, hanno cercato di ridicolizzarlo, bollandolo come superficiale e dilettante. Lui stesso è consapevole di non aver raggiunto la scientificità delle sue tesi e lo scrive più volte nel suo testo. E infatti, rinvia ad altri possibili studi demografici al fine di comprendere meglio la portata del massacro di quel periodo, delle popolazioni meridionali. Tuttavia credo che Aprile, nonostante non sia stato in grado di produrre dati numerici esatti sui morti, sia riuscito a far passare la tesi che al Sud i cosiddetti “liberatori” piemontesi hanno compiuto un genocidio. Peraltro Aprile non teme di esagerare utilizzando nel suo libro termini abbastanza forti per descrivere l'aggressione piemontese, come deportazione, spopolamento, occupazione militare, invasione, colonizzazione, pulizia etnica, domicilio coatto. Termini a cui ci aveva abituato il secolo scorso, il terribile Novecento, il secolo delle “idee assassine”.

Tuttavia i meriti di Aprile, potrebbero essere anche altri, come ad esempio quello di rendere più giornalistico il tema della cosiddetta conquista e unificazione del nuovo Regno d'Italia. Carnefici, rappresenta una buona summa dei dieci anni di guerra che si sono svolti nelle province meridionali, oltre che essere un buon manuale per il meridionalismo più o meno nostalgico del borbonismo, anche se non monarchico. Però non è condivisibile quell'astio, quel furore sotteso di Aprile nei confronti della Lega. E' strano che uno come lui abituato ad andare controcorrente, non riesca a comprendere che la Lega, soprattutto quella recente di Salvini (nonostante le sue confusioni) potrebbe essere una alleata del Sud, contro il centralismo statalista romano che danneggia tutti gli italiani. I nemici del Meridione bisogna andarli a cercare altrove caro Aprile.

Il testo di Aprile consiste di quattordici capitoli in 464 pagine molto dense di nomi, di fatti e avvenimenti coinvolgenti.“E' duro il viaggio che vi propongo di rifare in queste pagine; - scrive Aprile - ho cercato di renderlo agevole, perchè ci muoveremo in un'Italia molto diversa da quella che ci è stata raccontata”. L'autore ci avverte che volutamente ricorre alle ripetizioni in forme diverse, proprio per cercare di farsi capire da tutti, per non escludere nessuno. Tutti devono sapere e rendersi conto di quello che hanno fatto al Sud. Infatti il testo è facile, comprensibile, sostanzialmente una specie di bignami divulgativo sui crimini commessi nella guerra del Sud.

Cominciamo dal costo umano sofferto dai meridionali a causa della guerra di aggressione scatenata dai savoiardi. Lo storico Christopher Duggan, in “La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi”, pur mancando di dati recenti, ritiene che i morti sono oltre 150.000. Mentre per la Civiltà Cattolica, la rivista dei Gesuiti di allora, sono addirittura oltre un milione. Mentre Aprile si ferma al numero forse più ragionevole di 110.000,120 mila.

“Erano essere umani; stavano a casa loro. E questo divenne il loro delitto”. Oltre ai cosiddetti “briganti” che presero le armi, furono condannate le mogli, “come manutengole con complicità di primo grado. Fanciulle di 12 anni, figlie di briganti, avevano subito condanne di 10 o 15 anni”, scrive Franco Molfese, che ritrovò nella biblioteca della camera dei deputati, resti della relazione Massari sull'opposizione armata al Sud, spacciata per criminalità.

Intanto con il procedere delle ricerche,“si è scoperto che il numero dei deportati civili al Nord fu incredibilmente maggiore di quanto si sapeva, e ancora si trovano insospettati archivi da cui emergono, a migliaia, le tracce di vite distrutte”. Peraltro da questi conti è esclusa la Sicilia, perchè era scandaloso ammettere che l'isola, la culla della rivoluzione, si ribellasse al regno sabaudo. Ancora oggi si ripete che in Sicilia è esistita solo una banda di briganti, invece non è così. Basta solo la rivolta del “Sette e mezzo” a Palermo nel 1866, ma non solo, tutte le altre città della Sicilia si sono ribellate al dispotismo piemontese.

E' incredibile,“non c'è mai stata nelle nostre università, una vera ricerca per sapere quanti furono i meridionali uccisi o fatti morire nella guerra condotta dall'esercito sabaudo contro la popolazione civile (quella con l'esercito borbonico, manco dichiarata, nonostante l'invasione di un Paese ufficialmente amico, finì in pochi mesi; l'altra, contro i cittadini disarmati, e formazioni sparse di ribelli, durò almeno dieci anni)”.

Da più di un secolo e mezzo, scrive Aprile, “gira un balletto di cifre più o meno attendibili sui 'fucilati' (bastava poco: un sospetto, una calunnia, le mire di un vicino sui tuoi beni, persino su tua moglie o tua figlia); o sui 'briganti', abbattuti come tali anche se militari che, con la divisa e le proprie armi, affrontavano da guerriglieri un invasore; o perchè contadini derubati delle terre demaniali[...]”.

Poco si è scritto sulle deportazioni subite dai meridionali. Un garibaldino, un certo Ferrario, passato nell'esercito sabaudo come bersagliere, tornò in Calabria e scrisse un diario sui fatti che risalgono al 1868-69. Lo ha trovato a Novara nel 2015, il professore De Simone, autore di “Atterrite queste popolazioni”. Il diario si riferisce a Rossano, alle carceri grandissime, dove richiudevano i manutengoli ed i conniventi dei briganti. Queste persone, vecchi e lattanti costrette a spostarsi  per 40-50 chilometri, bastonati, senza fermarsi neanche per i bisogni, “venivano sferzati dai carabinieri e dai soldati di scorta”. Qui il diario dell'ex garibaldino è molto preciso, e ci fornisce molti dettagli sulle torture subite da questi poveri cristi. Infatti i carcerieri piemontesi per estorcere informazioni sui briganti, torturavano a più non posso, comportandosi come dei veri e propri carnefici. Queste deportazioni assomigliavano molto a quelle patite all'inizio del novecento dagli Armeni.

Alla fine del primo capitolo brevemente Aprile racconta i vari passaggi della disgregazione dell'antico Regno di Francesco II.

Il complotto anglo-piemontese.“Che non ci fosse 'un piano coordinato' per distruggere il Regno delle Due Sicilie ormai solo i disonesti possono sostenerlo”. E' notorio che la Gran Bretagna, come hanno scritto in tanti, ha complottato per abbattere il Regno Duosiciliano. Sul quale poi si è innestato il piano dei Savoia, “con la lunga opera di corruzione di ministri e alti ufficiali dell'esercito e della Marina napoletani; le trame di Cavour con la Francia; gli accordi con la malavita siciliana, la rete massoniche e liberale allertata per l'insurrezione e l'appoggio ai garibaldini e all'esercito piemontese; le collette dei massoni stranieri per amare la spedizione di don Peppino, rimpolpata da migliaia di 'disertori' sabaudi e mercenari di mezzo mondo, e assistiti dalla flotta britannica [...]”.

L'economia napoletana venne demolita. Chiuse le grandi fabbriche, rubate e spostate al Nord i vari macchinari, stessa cosa per l'oro delle banche, requisiti i beni ecclesiastici che erano parte rilevante del sistema economico. A questo proposito, Aprile, purtroppo, non cita gli interessanti studi di Angela Pellicciari sulla guerra del Risorgimento alla Chiesa Cattolica.

Epurazione nelle scuole. Per quanto riguarda la cultura Aprile ricorda l'epurazione del ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, nelle scuole e nelle università, “per immettervi docenti il cui unico o maggior  pregio era la fedeltà ai Savoia (che molti scoprirono all'istante. E più di sessant'anni dopo, quando Mussolini obbligò i docenti universitari a giurare fedeltà al Fascismo, solo una quindicina su 1.200 rifiutarono)”. Inoltre i piemontesi chiusero tutti gli istituti superiori di Napoli, un migliaio di scuole in tutto il Regno, soprattutto quelle private. Vennero chiuse una trentina di giornali, ecco perché non si è potuto raccontare la vera storia dell'aggressione e conquista militare del Regno da parte dei piemontesi. Chi lo ha fatto doveva usare pseudonimi o pubblicare all'estero.

“Dichiararsi cittadino del proprio Paese invaso divenne reato punibile con la morte, la deportazione, il carcere, la perdita dei beni[...]”. Furono rimossi quasi tutti i vescovi, alcuni esiliati, svuotati e chiusi i conventi, soppressi gli ordini religiosi (meno quelli dei mendicanti che non avevano nulla da farsi rubare), sorvegliate le prediche in chiesa e messi sotto vigilanza i fedeli che frequentavano parrocchie di sacerdoti non filo-piemontesi; avanzata perfino la pretesa di controllare le confessioni.

Praticamente per chi non accettò il nuovo corso o divenne sospetto di non accettarlo o persino di tiepida adesione, la sua vita smise di essere un diritto.

Inoltre il Piemonte come Stato violò ogni accordo, legge, trattato e persino ogni limite di decenza e umanità, in nome di un progetto politico-economico. Torino aveva fortemente bisogno di denaro, il Regno di Sardegna stava fallendo, non avevano più soldi per pagare i dipendenti pubblici e i soldati. Così ne approfittò di inglobare il Regno del povero francischiello.

Sostanzialmente scrive Aprile:“il Piemonte impose se stesso, le sue armi, la sua libertà chiudendo giornali, riempendo le carceri, deportando e fucilando, impose le sue tasse, le sue leggi e persino i suoi impiegati e le sue balie negli orfanotrofi di Napoli, poi disse che gliel'avevano chiesto gli italiani. E quelli che cercarono di smentire o opporsi fecero una brutta fine”.

Pertanto, insiste Aprile:“la dimensione del massacro nascosto sotto il mito del Risorgimento è stata sempre contestata (su come si scrive la storia del nostro Paese, basti dire che l'Istituto cui fu affidato tale incarico, nel Regno di Sardegna che poi divenne d'Italia, aveva il compito di impedire la consultazione dei documenti che potessero offuscare la dinastia sabauda; le carte scomode potevano essere distrutte, e l'elaborazione dei documenti avuti in consultazione era sottoposta a doppia censura durante e dopo la stesura dei testi in cui erano citati)”. Bisogna aspettare il 2014, per intravedere qualcosa sull'enormità del prezzo pagato dal Sud, in vite umane. Un rapporto dello Svimez condotto dal dottor Delio Miotti, svela che nel 1867, la popolazione meridionale diminuì, invece di crescere. Succederà solo altre due volte, in un secolo e mezzo.

 

Lo scrittore inglese Robert Conquest, ha definito il secolo scorso, peraltro dando il titolo ad un suo celebre libro: “Il Novecento, il secolo delle idee assassine”, riferendosi in particolare al comunismo e al nazifascismo. Non ci poteva essere un titolo più appropriato. Leggendo il libro del suo connazionale, Jasper Becker, “La Rivoluzione della fame. Cina 1958-1962: la carestia segreta”, è evidente che i comunisti cinesi, guidati da Mao tze Tung, mettendo in pratica le loro scellerate idee, sono stati degli assassini. Becker nei diciassette capitoli del libro descrive i quattro anni di carestia voluta dai dirigenti maoisti. Si tratta di un atto deliberato di barbarie, che va posto sullo stesso piano dei massacri perpetrati da Hitler e da Stalin. Peraltro è un aspetto della Storia cinese, che ancora non è stato spiegato soprattutto al popolo cinese.

Nel testo quello che colpisce maggiormente è la fame e il cannibalismo, conseguenze nefaste dell'ideologia rossa. Secondo Harry Wu, nei campi di detenzione, che dovevano rieducare attraverso il lavoro i cinesi di “destra”, c'erano tra i trenta e i quaranta milioni di cinesi. I prigionieri politici scontavano condanne più lunghe, erano picchiati più spesso e ricevevano razioni di cibo inferiori rispetto agli altri, soprattutto se non raggiungevano gli obiettivi di lavoro fissati. Il tasso di mortalità in questi campi era incredibilmente elevato. In certi campi sopravviveva uno su dieci. Harry Wu è stato uno dei pochi ad uscirne. Nella sua autobiografia, intitolata, “Venti amari”, ricorda che“quasi ogni giorno c'erano corpi che entravano, vivi, e corpi uscivano morti”, c'erano stanze pieni di cadaveri fino al soffitto.

Becker descrive lo stato di disumanizzazione presente in ogni momento, spesso tra i prigionieri si annidava il sospetto e l'invidia. Individui ad un passo della morte, con quelle poche energie rimaste, si trascinavano fino alla porta delle cucina e rimanevano acquattati in attesa del momento in cui arrivava il cibo. “Erano tutti pronti a rubare”, ricorda Han Weitan, e ogni giorno nei tafferugli morivano da tre a cinque persone. Non c'era bisogno fare violenza, per cadere l'avversario bastava uno spintone e farlo morire.

Nell'undicesimo capitolo Becker, fa una dettagliata anatomia della fame. Il corpo a causa della fame si gonfiava e non tornava più come prima. Addirittura la gente che si conoscevano si tastavano l'un l'altro le gambe per verificare quanto si erano gonfiate. “Dal momento che, ufficialmente, in Cina non esisteva la carestia [...] i medici avevano il divieto di spiegare ai pazienti che stavano morendo fame”. I medici dovevano parlare di malattie immaginarie, ed era proibito certificare un decesso per inedia, non si poteva fare neanche nei campi di prigionia. L'edema, venne semplicemente chiamata “malattia numero due”.

Nelle campagne la gente mangiava anche la paglia dei tetti delle capanne, il cotone dei cappotti o dei materassi, le foglie o i fiori degli alberi, o le piume dei polli e delle anatre. I prigionieri raccontavano di aver masticato scarpe e stivali, cinture, cappotti e qualsiasi oggetto in cuoio”. Il succedaneo più dannoso, era un misto di terra ed erbe, chiamato la “terra di Buddha”. Cibandosi di questo intruglio, si moriva per “occlusione intestinale, rendendo impossibile la digestione o l'evacuazione”. Molti nella disperata ricerca di cibo morivano per aver mangiato bacche, foglie o funghi velenosi. Comunque sia bisognava negare a tutti i costi che esisteva la carestia.

Un'altra caratteristica di questo funesto periodo è stato il cannibalismo, che peraltro secondo Becker era esistito da sempre in Cina. Ci sono prove ben documentate anche ufficiali del Pcc che in tutti i villaggi e contee ci sono stati episodi di cannibalismo. “Non solo i contadini mangiavano la carne dei cadaveri, ma la vendevano, e uccidevano e mangiavano i bambini, tanto i propri che quelli degli altri”.

Becker ricorda che anche in Occidente, il cannibalismo, era un atto tutt'altro che sconosciuto, ci sono casi nei campi di concentramento nazisti e in Ucraina durante l'Holodomor.

Per quanto riguarda la Cina, scrive Beker,“la letteratura cinese abbonda di racconti di cannibalismo praticato per puro piacere”. Era diffuso in tempo di guerra, anche come vendetta. Becker racconta che durante la rivoluzione culturale, nella Cina meridionale, nelle scuole, gli studenti, uccidevano il preside nel cortile della scuola e poi ne cucinavano e mangiavano il corpo per festeggiare il trionfo sui “controrivoluzionari”.

Il testo del giornalista inglese dà conto della profonda differenza della vita della città e della campagna in Cina. Paradossalmente il regime comunista introducendo il passaporto per spostarsi, aveva ridotto buona parte della popolazione cinese a livello di cittadini stranieri nella propria terra.

Nelle città le razioni non erano uguali per tutti. La società urbana era nettamente stratificata e alle persone di condizione elevata erano riservate le razioni abbondanti. Come ai tempi dell'imperatore, a un membro dell'amministrazione statale veniva attribuito un punteggio su una scala da uno a ventiquattro in base al grado di lealtà politica[...] le donne ricevevano in ogni caso razioni inferiori agli uomini”. Altro che uguaglianza, tutto era differenziato. Naturalmente il gruppo sociale più tutelato erano i membri del Pcc. Come in Unione Sovietica, potevano acquistare nei negozi clandestini merci e generi alimentari scarsamente disponibili. Spesso i funzionari più alti vivevano in zone speciali delle città, dotate di mense e negozi separati.

La ricerca del cibo per i poveri cittadini cinesi era fondamentale ci si derubava a vicenda anche nelle stesse famiglie, capitava che i mariti rubassero i buoni pasto delle mogli e viceversa. Per il cibo la gente vendeva di tutto, lo Stato acquistava questi beni che poi peraltro rispuntavano nei negozi di antiquariato di Hong Kong.

In quasi tutte le città la gente staccava la corteccia degli alberi e strappava le foglie, tanto che la polizia era costretta a proteggere gli alberi. Dalle strade delle città scomparvero cani e gatti, la gente ormai andava a caccia di topi, passerotti e scarafaggi. In quasi tutte le città la popolazione era affetta da edema. Naturalmente anche i trasporti subirono una battuta d'arresto. Pertanto al calar del sole le strade delle città erano vuote; dominava un'opprimente e spettrale silenzio.

Nell'ultima parte del libro: “La grande menzogna”, Becker descrive la lotta di potere tra Mao e alcuni esponenti del partito comunista, in particolare con Liu Shaoqi, con Zhou Enlai, Lin Biao, Hua Guofeng. Il loro problema era dire o non dire la verità a Mao, potevano fare la fine dell'eretico Peng Dehuai. Alla fine per risollevarsi si decise di far arrivare il frumento dal Canada e dall'Australia. Mao ha fallito, non ha costruito nulla di nuovo, il grande balzo in avanti si è rivelato un fallimento dalle conseguenze catastrofiche. Alla sua morte, i successori non hanno fatto altro che abbandonare il sistema maoista che era fallito, anche se il cambiamento è stato chiamato riforma. In pratica le riforme di Deng, consistettero “essenzialmente nel riportare i contadini alla condizione preesistente alla rivoluzione comunista, una condizione che perdurava da secoli”.

Quanti cinesi morirono in questi anni? E' la domanda che viene posta nell'ultimo capitolo. Si parte da 30 milioni, fino ad arrivare anche a 80 milioni.

Nel libro il giornalista inglese chiama in causa anche l'Occidente che non ha visto o non ha voluto vedere la barbarie che si stava attuando contro il popolo cinese ad opera del Partito comunista. Becker fa alcuni nomi di giornalisti, di politici occidentali che hanno visitato la Cina in quegli anni. Molti furono contagiati dal furore ideologico della Cina maoista, ricordiamo il mondo accademico, gli studenti universitari, ma anche i governanti africani che tentarono di copiare le teorie agricole di Mao e Stalin.

E' stato un “contagio psichico”, quando ogni comportamento razionale viene meno. “Il potere assoluto conquistato da Mao generò nell'intera collettività la fuga in un mondo illusorio. L'unica cosa che stesse a cuore ai milioni di membri del Pcc era assecondare le fantasie del Grande timoniere”. Secondo Becker, “molti sapevano di mentire e che in realtà il Paese era ridotto alla fame. Lo stesso Mao, al vertice di questa piramide di menzogne, era tutt'altro che inconsapevole. Come racconta al suo medico, Li Zhisui 'Mao sapeva che milioni di contadini stavano morendo. Non gliene importava nulla'”.

Quella di Mao e dei dirigenti comunisti cinesi fu“una crudeltà folle e deliberata che ha pochi eguali nella storia. Dopotutto questi contadini non erano schiavi dominati da una potenza straniera, ma i presunti beneficiari della rivoluzione”. Mao voleva modernizzare la Cina, ma invece la riportò indietro di duemila anni prima dal primo imperatore Qinshihuangdi, il più grande tiranno della storia cinese.

 

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