Don Álvaro Granados (1964-2025), il realismo umano della santità
Quello del sacerdote e teologo spagnolo don Álvaro Granados (1964-2025) è stato un esempio di santità molto "normale", di quella «classe media della santità» di cui Papa Francesco ci ha parlato nell’Esortazione Apostolica “Gaudete et exultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018, n. 7). Non certo “normale” è stato il sacrificio che, negli ultimi sette anni della sua vita, il Signore gli ha chiesto portando sul suo corpo la “croce” della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), una malattia degenerativa che gli ha interdetto progressivamente tutte le funzioni vitali. «È una malattia pesante, dura - ha detto della SLA -, ma mi ha permesso di maturare e soprattutto di capire quali sono le cose che veramente contano nella vita. Oltre al valore della fede cristiana, in questi anni di infermità, ho scoperto e riscoperto il grande valore delle relazioni umane, ciò per cui vale veramente la pena lottare in questo mondo. Chi ha molte relazioni con le persone è ricco, chi non ne ha è povero» (Giuseppe Muolo, “Ho la Sla, ma resto sacerdote fino in fondo”, Avvenire, 30 maggio 2024).
La forza per resistere ed offrire la malattia gli è sempre venuta dal Vangelo. Ma quali sono i passi che gli sono stati più di forza e di conforto nel momento della sofferenza? «C’è l’imbarazzo della scelta - ha risposto nel corso di un’intervista al quotidiano dei Vescovi italiani -. Ma mi ricordo spesso il passo della vedova al tempio, che con due spiccioli riesce a entusiasmare Cristo, cioè Dio. Io penso che offrendo a Lui le piccole cose della mia malattia, gli acciacchi, un dolore improvviso, un momento di disagio, è come se mi avvicinassi al comportamento della vedova. Non sto dando niente concretamente, ma per Dio è tanto, è tutto. Lo riempie di amore. Offrendo i piccoli e grandi disagi che attraverso, posso colmare di gioia il cuore di Dio. Questo mi entusiasma e mi aiuta a dare un senso alla mia malattia».
Anche la parte finale della sua esistenza don Álvaro l’ha vissuta ad imitazione «di coloro che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Gaudete et exultate, n. 7). Pochi giorni prima di morire nella sua piccola stanza della parrocchia di san Josemaría Escrivá, nel quartiere Ardeatino di Roma, dove ha vissuto per due periodi - per un totale di quindici anni - intervallati dal servizio accademico e pastorale prestato sempre nella Capitale ma abitando altrove, il sacerdote ha detto a una delle sue sorelle: «Chiedo al Signore la grazia di conservare la vita, così da potergli dare gloria con la mia malattia finché Lui lo vorrà».
Per tutti quelli che venivano a trovarlo, ha testimoniato il suo collega di università e “vicino di stanza” nella parrocchia di san Josemaría Escrivá Daniel Arasa Villar, don Álvaro «aveva una parola di conforto e, quando era più difficile per lui parlare, un orecchio attento con uno sguardo compassionevole. È evidente che, con il passare del tempo, l'affetto (la carità) stava plasmando la sua personalità e allargando il suo cuore. Non mancava mai di essere grato per un servizio, anche quando la maschera del ventilatore gli impediva quasi di parlare».
Nato a Madrid nel 1964, Álvaro Granados si era laureato in legge all'Università di La Laguna (Tenerife) nel 1988. Si è poi trasferito a Roma per studiare teologia nella Pontificia Università della Santa Croce (PUSC), dove ha conseguito anche un dottorato in filosofia nel 1996. È stato ordinato sacerdote della Prelatura personale dell’Opus Dei nel 1994 e, dal 1995 al 2006, ha lavorato come formatore presso il Seminario internazionale Sedes Sapientiae. È stato anche Rettore del Collegio Sacerdotale Tiberino e, nel 2009, ha conseguito il dottorato in Teologia Pastorale presso l'Università Lateranense. A tale disciplina don Granados ha dedicato il suo ultimo volume, La casa costruita sulla sabbia. Manuale di teologia pastorale (Edizioni Santa Croce, Roma 2022, pp. 392), che esprime nel modo più efficace la situazione dei cristiani che vivono nella post-modernità, ovvero individui immersi in un contesto nel quale la fede è diventata culturalmente impossibile.
Il presupposto da cui parte nell’impostazione di questo libro è pienamente condivisibile: occorre rinsaldare le fondamenta sabbiose su cui poggia l’esistenza cristiana oggi, cui lo spirito del Concilio e la successiva rivoluzione del Sessantotto ha dato il “colpo di grazia”.
Come evangelizzare dunque l’uomo contemporaneo? Come rinsaldare la sua fede? Quali ostacoli culturali impediscono di raggiungere un’esistenza cristiana matura?
«L’idea di fondo - afferma - è che la Nuova evangelizzazione a cui è chiamata la Chiesa “in questa ora magnifica e drammatica della storia”, come ha definito l’epoca contemporanea san Giovanni Paolo II nella Christifideles laici, impone ancora una Prima evangelizzazione, non in senso cronologico, ma come impostazione di fondo presente in ogni segmento della pastorale. Una Prima evangelizzazione che tenga conto dell’humus culturale in cui vive l’uomo contemporaneo, della sua particolare sensibilità, dello stile di vita, dei motivi di una certa svogliatezza verso il discorso religioso e di uno sguardo distorto nei confronti dell’annuncio cristiano».
L’attuale crisi del “processo per diventare cristiani” può essere invertita quindi solo prendendo atto della reale situazione storica, rimodellando la teologia pastorale non solo a partire dalla pur doverosa precisione delle formulazioni (fides quae), ma anche sulla base delle caratteristiche dei destinatari e del loro contesto (fides qua). Infatti, come sostiene don Álvaro, «i tentativi di ripristinare questo processo sono falliti perché si sono concentrati quasi esclusivamente sul rinnovamento della catechesi, quando in realtà sono tutti gli elementi del processo che richiederebbero un ripensamento: la Prima evangelizzazione, la catechesi, la famiglia come luogo di trasmissione della fede, la questione educativa, la pastorale dei sacramenti, l’omelia e la pietà popolare».
Con la sua intensa attività pastorale e il suo modo esemplare di vivere la vocazione sacerdotale, nonostante i limiti imposti dalla malattia, Álvaro Granados ha lasciato un segno profondo in tutti noi che lo abbiamo conosciuto, come è stato anche dimostrato dai suoi affollati funerali, celebrati il 26 gennaio 2025 da mons. Fernando Ocáriz nella parrocchia intitolata al fondatore dell’Opus Dei alla presenza di oltre 600 persone. Nell’omelia della cerimonia funebre, fra l’altro, il Prelato dell’Opera che ha avuto modo di conoscere bene don Álvaro ha testimoniato di lui: «da più di sette anni affetto da una malattia molto grave, non si ribellò. Prese su di sé il giogo che il Signore gli aveva offerto. E se agli occhi di tutti il suo fardello sembrava ogni giorno più pesante, egli lo portava come se ogni giorno fosse più leggero, mentre il suo cuore diventava più dolce e umile, più identificato con il cuore di Gesù».
Sono da tempo continue le visite alla tomba di don Álvaro, collocata in un cimitero civile, anzi nel cimitero più grande d’Italia, il Flaminio-Prima Porta di Roma, nel quale è sepolto anche il suo connazionale Joaquín Navarro-Valls (1936-2017), altra esistenza come la sua donata alla Chiesa tramite l’Opus Dei. L’indimenticabile portavoce di Papa Giovanni Paolo II e, fino al 2006, di Benedetto XVI, ha scritto parole sulla santità che si attagliano perfettamente ad Álvaro Granados: «l'immagine plastica della santità, come spesso è stata presentata per tanti secoli, ci può far pensare che solo alcune circostanze eccezionali siano adatte a fare da cornice alla vita di un santo. Eppure, quando veramente abbiamo conosciuto un santo, quando la nostra stessa vita si è incrociata con la sua, non possiamo che modificare quell'idea della santità. Del resto, che essere santo sia una meta per tutti i cristiani non è stato un concetto comune negli scritti degli autori spirituali, almeno negli ultimi dieci o dodici secoli. Ancor meno comune è in questi autori l'idea che le realtà che oggi chiamiamo "civili" e che negli scritti spirituali sono catalogate come mondo - in altre parole, tutto ciò che costituisce la professione, la famiglia, le relazioni sociali, ecc. - non solo possono fare da scenario della santità, ma sono, di fatto, il mezzo, lo strumento e la materia della santità» (Il realismo umano della santità, L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002).