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Quello del sacerdote e teologo spagnolo don Álvaro Granados (1964-2025) è stato un esempio di santità molto "normale", di quella «classe media della santità» di cui Papa Francesco ci ha parlato nell’Esortazione Apostolica “Gaudete et exultatesulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018, n. 7). Non certo “normale” è stato il sacrificio che, negli ultimi sette anni della sua vita, il Signore gli ha chiesto portando sul suo corpo la “croce” della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), una malattia degenerativa che gli ha interdetto progressivamente tutte le funzioni vitali. «È una malattia pesante, dura - ha detto della SLA -, ma mi ha permesso di maturare e soprattutto di capire quali sono le cose che veramente contano nella vita. Oltre al valore della fede cristiana, in questi anni di infermità, ho scoperto e riscoperto il grande valore delle relazioni umane, ciò per cui vale veramente la pena lottare in questo mondo. Chi ha molte relazioni con le persone è ricco, chi non ne ha è povero» (Giuseppe Muolo, “Ho la Sla, ma resto sacerdote fino in fondo”, Avvenire, 30 maggio 2024).

La forza per resistere ed offrire la malattia gli è sempre venuta dal Vangelo. Ma quali sono i passi che gli sono stati più di forza e di conforto nel momento della sofferenza? «C’è l’imbarazzo della scelta - ha risposto nel corso di un’intervista al quotidiano dei Vescovi italiani -. Ma mi ricordo spesso il passo della vedova al tempio, che con due spiccioli riesce a entusiasmare Cristo, cioè Dio. Io penso che offrendo a Lui le piccole cose della mia malattia, gli acciacchi, un dolore improvviso, un momento di disagio, è come se mi avvicinassi al comportamento della vedova. Non sto dando niente concretamente, ma per Dio è tanto, è tutto. Lo riempie di amore. Offrendo i piccoli e grandi disagi che attraverso, posso colmare di gioia il cuore di Dio. Questo mi entusiasma e mi aiuta a dare un senso alla mia malattia».

Anche la parte finale della sua esistenza don Álvaro l’ha vissuta ad imitazione «di coloro che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Gaudete et exultate, n. 7). Pochi giorni prima di morire nella sua piccola stanza della parrocchia di san Josemaría Escrivá, nel quartiere Ardeatino di Roma, dove ha vissuto per due periodi - per un totale di quindici anni - intervallati dal servizio accademico e pastorale prestato sempre nella Capitale ma abitando altrove, il sacerdote ha detto a una delle sue sorelle: «Chiedo al Signore la grazia di conservare la vita, così da potergli dare gloria con la mia malattia finché Lui lo vorrà».

Per tutti quelli che venivano a trovarlo, ha testimoniato il suo collega di università e “vicino di stanza” nella parrocchia di san Josemaría Escrivá Daniel Arasa Villar, don Álvaro «aveva una parola di conforto e, quando era più difficile per lui parlare, un orecchio attento con uno sguardo compassionevole. È evidente che, con il passare del tempo, l'affetto (la carità) stava plasmando la sua personalità e allargando il suo cuore. Non mancava mai di essere grato per un servizio, anche quando la maschera del ventilatore gli impediva quasi di parlare».

Nato a Madrid nel 1964, Álvaro Granados si era laureato in legge all'Università di La Laguna (Tenerife) nel 1988. Si è poi trasferito a Roma per studiare teologia nella Pontificia Università della Santa Croce (PUSC), dove ha conseguito anche un dottorato in filosofia nel 1996. È stato ordinato sacerdote della Prelatura personale dell’Opus Dei nel 1994 e, dal 1995 al 2006, ha lavorato come formatore presso il Seminario internazionale Sedes Sapientiae. È stato anche Rettore del Collegio Sacerdotale Tiberino e, nel 2009, ha conseguito il dottorato in Teologia Pastorale presso l'Università Lateranense. A tale disciplina don Granados ha dedicato il suo ultimo volume, La casa costruita sulla sabbia. Manuale di teologia pastorale (Edizioni Santa Croce, Roma 2022, pp. 392), che esprime nel modo più efficace la situazione dei cristiani che vivono nella post-modernità, ovvero individui immersi in un contesto nel quale la fede è diventata culturalmente impossibile

Il presupposto da cui parte nell’impostazione di questo libro è pienamente condivisibile: occorre rinsaldare le fondamenta sabbiose su cui poggia l’esistenza cristiana oggi, cui lo spirito del Concilio e la successiva rivoluzione del Sessantotto ha dato il “colpo di grazia”.

Come evangelizzare dunque l’uomo contemporaneo? Come rinsaldare la sua fede? Quali ostacoli culturali impediscono di raggiungere un’esistenza cristiana matura?

«L’idea di fondo - afferma - è che la Nuova evangelizzazione a cui è chiamata la Chiesa “in questa ora magnifica e drammatica della storia”, come ha definito l’epoca contemporanea san Giovanni Paolo II nella Christifideles laici, impone ancora una Prima evangelizzazione, non in senso cronologico, ma come impostazione di fondo presente in ogni segmento della pastorale. Una Prima evangelizzazione che tenga conto dell’humus culturale in cui vive l’uomo contemporaneo, della sua particolare sensibilità, dello stile di vita, dei motivi di una certa svogliatezza verso il discorso religioso e di uno sguardo distorto nei confronti dell’annuncio cristiano».

L’attuale crisi del “processo per diventare cristiani” può essere invertita quindi solo prendendo atto della reale situazione storica, rimodellando la teologia pastorale non solo a partire dalla pur doverosa precisione delle formulazioni (fides quae), ma anche sulla base delle caratteristiche dei destinatari e del loro contesto (fides qua). Infatti, come sostiene don Álvaro, «i tentativi di ripristinare questo processo sono falliti perché si sono concentrati quasi esclusivamente sul rinnovamento della catechesi, quando in realtà sono tutti gli elementi del processo che richiederebbero un ripensamento: la Prima evangelizzazione, la catechesi, la famiglia come luogo di trasmissione della fede, la questione educativa, la pastorale dei sacramenti, l’omelia e la pietà popolare».

Con la sua intensa attività pastorale e il suo modo esemplare di vivere la vocazione sacerdotale, nonostante i limiti imposti dalla malattia, Álvaro Granados ha lasciato un segno profondo in tutti noi che lo abbiamo conosciuto, come è stato anche dimostrato dai suoi affollati funerali, celebrati il 26 gennaio 2025 da mons. Fernando Ocáriz nella parrocchia intitolata al fondatore dell’Opus Dei alla presenza di oltre 600 persone. Nell’omelia della cerimonia funebre, fra l’altro, il Prelato dell’Opera che ha avuto modo di conoscere bene don Álvaro ha testimoniato di lui: «da più di sette anni affetto da una malattia molto grave, non si ribellò. Prese su di sé il giogo che il Signore gli aveva offerto. E se agli occhi di tutti il suo fardello sembrava ogni giorno più pesante, egli lo portava come se ogni giorno fosse più leggero, mentre il suo cuore diventava più dolce e umile, più identificato con il cuore di Gesù».

Sono da tempo continue le visite alla tomba di don Álvaro, collocata in un cimitero civile, anzi nel cimitero più grande d’Italia, il Flaminio-Prima Porta di Roma, nel quale è sepolto anche il suo connazionale Joaquín Navarro-Valls (1936-2017), altra esistenza come la sua donata alla Chiesa tramite l’Opus Dei. L’indimenticabile portavoce di Papa Giovanni Paolo II e, fino al 2006, di Benedetto XVI, ha scritto parole sulla santità che si attagliano perfettamente ad Álvaro Granados: «l'immagine plastica della santità, come spesso è stata presentata per tanti secoli, ci può far pensare che solo alcune circostanze eccezionali siano adatte a fare da cornice alla vita di un santo. Eppure, quando veramente abbiamo conosciuto un santo, quando la nostra stessa vita si è incrociata con la sua, non possiamo che modificare quell'idea della santità. Del resto, che essere santo sia una meta per tutti i cristiani non è stato un concetto comune negli scritti degli autori spirituali, almeno negli ultimi dieci o dodici secoli. Ancor meno comune è in questi autori l'idea che le realtà che oggi chiamiamo "civili" e che negli scritti spirituali sono catalogate come mondo - in altre parole, tutto ciò che costituisce la professione, la famiglia, le relazioni sociali, ecc. - non solo possono fare da scenario della santità, ma sono, di fatto, il mezzo, lo strumento e la materia della santità» (Il realismo umano della santità, L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002).

 

Uno dei padri fondatori dell’informatica, conosciuto come lo scienziato che per primo si è occupato delle intelligenze artificiali, quasi un secolo fa ci ha messo in guardia rispetto agli inganni ed i pericoli delle macchine. Parlo del matematico, logico e filosofo britannico Alan Turing (1912-1954), i cui risultati teorici hanno profondamente influenzato lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (IA) così come la conosciamo adesso.
Dalla rivisitazione del pensiero di questo grande uomo di scienza, nonché dalla riflessione sull’esperienza che dal 2009 al 2013 ho avuto come direttore del trimestrale Nuova civiltà delle macchine nel cui comitato scientifico sono stati, fra gli altri, filosofi, sociologi e politologi di grande rilievo come Norberto Bobbio (1909-2004), Nicola Matteucci (1926-2006), Luciano Pellicani (1939-2020), Vittorio Mathieu (1923-2020), Dario Antiseri e Marcello Pera, ho elaborato una prospettiva che potrà risultare originale ma che, comunque, credo sensato proporre per l’età che stiamo attraversando. Credo, infatti, che in un periodo storico come l’attuale di esplorazione dell’Intelligenza Artificiale in molti settori e ambiti relazionali sia necessario praticare una vera e propria ascetica per essere - o per rimanere - liberi nell’ambiente digitale che stiamo costruendo con il progressivo e pervasivo utilizzo dell’IA. Non sembri insolito proporre una “ascetica”, ovvero una specie di educazione spirituale dell’uomo, per far fronte all’Intelligenza Artificiale, anzitutto perché solo nell’ambito interiore è possibile ricavarsi e difendere quello spazio di autonomia e di distacco intellettuale rispetto ai meccanismi del digitale e in genere della tecnica e del moderno che mi pare essenziale per non perdersi nell’indistinto e nei tecnicismi.
Diciamo così: a) il mondo della comunicazione non è solo un insieme di strumenti a disposizione. È un ambiente. Un ambiente che ci osserva e raccoglie su di noi dati e poi ci invia messaggi. Pensiamo all’internet degli oggetti (The Internet of Things-IoT): il frigorifero di casa o l’aspirapolvere raccolgono su di noi dati che vengono poi processati e che portano magari a dei messaggi sul nostro IPhone. È un mondo che ci condiziona in molti modi. E che tende a imporci un modello di razionalità che è la sua: binaria, probabilistica, puramente quantitativa. Tutto ciò diviene molto più potente con l’Intelligenza Artificiale che è a tutti gli effetti un soggetto che interagisce con noi. La sua “saggezza” non è legata all’esperienza di vita e al sentimento ma ai risultati dell’elaborazione quantitativa dei nostri stessi dati attraverso gli algoritmi. Ebbene l’IA vuole che anche noi ragioniamo così. In modo standardizzato. Guardiamo come escono i film prodotti con gli algoritmi: sempre più superficiali, uniformi, trame sempre uguali le une alle altre. Noi finiamo così per appiattirci. O in alternativa dobbiamo tornare a far riferimento all’interiorità, alla dimensione spirituale. Il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) diceva che di fronte alla corruzione della civilizzazione che rende sempre più artificiali occorre far appello al sentimento, all’essere contro l’apparire. Il teologo italiano naturalizzato tedesco Romano Guardini (1885-1968) parlava appunto di ascetica per non essere sudditi della tecnologia. Dobbiamo essere realisti ma proteggere quanto vi è di unico nell’essere umano.
Lo dico a ragion veduta se penso solo a come funziona il “congegno” dell’Intelligenza Artificiale rispetto all’uomo, ai suoi pensieri, alla sua vita. Questo congegno funziona catturando e immagazzinando informazioni sui suoi interlocutori umani (sembra un film di fantascienza ma non è così), processandole e creando i Big data. Questi ultimi, che sono insiemi di dati digitali che possono essere rapidamente processati da banche dati centralizzate, producono a loro volta nuove informazioni da utilizzare in mille modi: dal marketing alla profilazione o semplicemente alla gestione delle notifiche o nuovi contatti sui vari Social Network. Questo nelle società liberali. In regimi non liberali, come ad esempio in Cina, l’uso che si fa dei dati raccolti è assai più schedatorio e potenzialmente repressivo. Ma chi sa se anche da noi prima o poi... Naturalmente il “congegno” è indifferente a criteri di bene o male, di verità o non verità. Se una falsa notizia (Fake news) ha successo, la stessa gira in rete più e meglio di notizie vere ma che impressionano o colpiscono di meno sull’immaginario collettivo. Per lo stesso motivo non i filosofi ma gli influencer sono sempre più i maître a penser della Rete. Un’altra cosa importante: il “congegno” è stato studiato per osservare e PREVEDERE, l’obiettivo in definitiva è rendere tutto PREVEDIBILE. Il sogno di chi ha progettato il nuovo mondo - non a caso molti tra loro erano psicologi comportamentisti - è rendere le comunità umane soprattutto prevedibili. Ma anche uniformate, sedate. Il sogno è quello che ci muoviamo tutti come facciamo noi in strada: fermi al rosso e poi tutti in movimento al verde. Ma questo non solo nel traffico ma in ogni ambito. Questo sempre venendo incontro alle nostre inclinazioni precedentemente raccolte e indirizzandole.
La psicologa sociale statunitense Shoshana Zuboff ha detto che, come i capitalisti dell’Ottocento costruirono le loro fortune adoperando la natura e la forza fisica dell’uomo lavoratore come materie prime, così gli attuali “capitalisti della sorveglianza” digitale usano la natura interna dell’uomo, emozioni, pulsioni, desideri come materia prima per sfruttarlo. Forse questa può sembrare una visione troppo pessimistica ma, in sintesi, il ragionamento funziona così. L’analogia della Zuboff mi sembra in fondo calzante. Si cavavano materie prime nel vecchio capitalismo (minerali, combustibili etc.) si cavano materie prime dagli uomini oggi (gusti, emozioni, interessi etc. La natura la si può utilizzare bene o male. Questo vale anche per la natura dell’uomo. Può esser stimolata per produrre frutto o essere manipolata o anche iperstimolata. Pensiamo ai giovani! E comunque i rischi sono subito evidenti: il rischio di vedere l’uomo come prodotto – nel digitale così come nelle biotecnologie – è evidente. Ma c’è un altro rischio: l’economico tende a incorporare e sottomettere l’uomo al suo meccanismo. È quella che si chiama alienazione. Pensiamo a quanto ci trasmise fin dal 1936 il grande comico e regista Charlie Chaplin (1889-1977) nel film Tempi moderni (Modern Times)…
Che fare dunque?
Anzitutto occorre individuare la linea rossa. Essenziale sarebbe l’educazione e la formazione per scoprire sé stessi invece di adattarci ai modelli del “congegno”. La nostra civiltà è nata nei deserti o nelle celle dei monaci attraverso il dialogo tra uomo e Dio nel quale si è costituita la nostra interiorità. Oggi l’uomo sarà in dialogo sempre più con l’intelligenza artificiale. Non è la stessa cosa. Questa sostituirà la interiorità o sapremo preservarla innanzitutto attraverso educazione, cultura, tradizione e spiritualità? Dipende solo da noi…

Personalmente, penso che stiamo rischiando di perdere la bellezza. E vi é il pericolo che, con questa, perderemo anche il senso della vita”. Così si esprime uno degli ultimi filosofi puri del Vecchio Continente, l’inglese Roger Scruton, il quale ha pubblicato un saggio assai impegnativo e molto politicamente scorretto su un tema di perenne attrazione – l’idea di bellezza – (R. Scruton, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, Vita & Pensiero, Milano, Euro 16,00) che pur partendo da orientamenti di partenza ‘altri’ (Scruton è anglicano) arriva, da non cattolico, a sposare i contenuti nella migliore tradizione estetica cattolica rispolverando classici d'annata e antiche lezioni d'autore. Il risultato è un testo formidabile, etichettato ovviamente già come fuori moda dalla cultura egemone, perchè vi compaiono – e anzi vi dettano letteralmente lo spartito – termini ormai scottanti come ‘verità’, ‘ragione’, ‘vita’ e ‘morte’. Già la premessa metodologica è quantomai provocatoria per un pubblico tendenzialmente relativista: il filosofo è convinto infatti che “la bontà e la verità non si contrappongono mai e la ricerca dell'una é sempre compatibile con il giusto rispetto dell'altra” (pag. 12) il che vuol dire essenzialmente due cose, tutt'altro che scontate al giorno d'oggi. Anzitutto che il bene e il vero esistono sul serio e non sono concetti filosofici immaginari o termini vuoti del vocabolario, quindi, in secondo luogo, che è possibile ad ognuno comprenderli e realizzarli personalmente. Riguardo alla bellezza, evocando sullo sfondo San Tommaso d'Aquino, l’Autore aggiunge che la sua esperienza, come il giudizio che essa determina, rappresentano “una prerogativa degli esseri razionali” (pag. 35) dal momento che solo gli esseri razionali nutrono interessi estetici: d'altra parte, un'osservazione attenta al reale non dovrebbe fare molta fatica a cogliere che la razionalità degli uomini “é coinvolta dalla bellezza [almeno] come lo é dal giudizio morale e dalla convinzione scientifica” (pag. 39). Se siamo onesti con noi stessi, riflettendo sulle scelte piccoli e grandi del nostro quotidiano, anche senza avere studiato tomi enciclopedici, ci accorgiamo immediatamente che “in una vita realmente vissuta il gusto é una componente fondamentale” (pag. 57). Insomma, checché ne pensi l'ultimo critico d'arte che va in tv ad elargire sciocche filastrocche prese per oro colato e condite da applausi in quantità (del tipo “non é bello ciò che é bello ma è bello ciò che piace”), l'argomentazione seria di Scruton si fonda sul fatto (un fatto, non un'idea) che la bellezza di per sé costituisca un valore reale e universale, profondamente radicato nella nostra natura razionale (solo l'uomo giudica il bello e ne prova piacere).

Inoltre, per il filosofo britannico “nella nostra esperienza il bello e il sacro sono contigui [e] i nostri sentimenti per l'uno si riversano costantemente sul territorio rivendicato dall'altro” (pag. 73). Questo é forse il punto più delicato in assoluto dello studio e il campo oggi più minato perché associare il bello direttamente al sacro é quanto di più anti-moderno e contemporaneamente contro-rivoluzionario si possa fare. Tuttavia, per il non-cattolico Scruton le cose stanno davvero così. Anzi, il fatto che il sacro sia stato di fatto espulso dall'arte contemporanea alla fine spiegherebbe logicamente anche come mai il brutto, l’osceno e persino l'orrido e l'indecente siano diventati così comuni nelle tele dei pittori e nelle rappresentazioni teatrali. Tuttavia, “il punto non é solo che gli artisti, i direttori, i musicisti e altre figure che hanno a che fare con l'arte sono in fuga dalla bellezza. Ci troviamo davanti al desiderio di sciupare la bellezza, con atti di iconoclastia estetica. Ovunque la bellezza ci tenda un agguato, può intervenire il desiderio di prevenirne l'attrattiva, facendo sì che la sua esile voce non sia udibile dietro le scene di dissacrazione” (pag. 148). Tutto questo è paradossale, se non proprio assurdo, dal momento che invece “l'esperienza della bellezza ci spinge anche ad andare al di là di questo mondo, in un 'regno di fini' in cui il nostro desiderio ardente di immortalità e di perfezione trova finalmente una risposta. Come affermavano sia Platone, sia Kant, quindi, il sentimento nei confronti della bellezza é prossimo alla mentalità religiosa, poiché emerge da un senso umile del vivere con imperfezioni pur aspirando all'unità suprema con il trascendente” (pag. 149). Illuminanti tal proposito le considerazioni senza peli sulla lingua rivolte all'irreligiosa cultura di massa postmoderna, talvolta violentemente anti-cristiana, e alla banalizzazione che essa veicola continuamente dell'amore umano e del suo fine. “La forma umana é sacra per noi perchè reca il segno dell'incarnazione. La profanazione intenzionale della forma umana, attraverso la pornografia del sesso o la pornografia della morte e della violenza, é diventata, per molti, una sorta di compulsione. E, questa profanazione, che sciupa l'esperienza della libertà, é anche una negazione dell'amore. Si tratta di un tentativo di rifare il mondo come se l'amore non ne facesse più parte. Questa é certamente la caratteristica più importante della cultura postmoderna [...] una cultura senza amore, che ha paura della bellezza perché é turbata dall'amore” (pagg. 151-152). Per questo, insiste Scruton, “chiunque abbia a cuore il futuro dell'umanità dovrebbe studiare il modo di infondere nuova vita nell''educazione estetica', come la definiva Schubert, che ha come scopo l'amore della bellezza” (pag. 158).

Il punto centrale è che in un'epoca in cui la fede va declinando (alcuni sociologi per la verità parlano già, abbastanza esplicitamente, di un Europa post-cristiana) l'arte con il suo semplice e silenzioso esserci “rende duratura testimonianza della fame spirituale e dell'ardente desiderio di immortalità della nostra specie [...] perciò, l'educazione estetica conta oggi più che in qualsiasi periodo storico precedente” (pag. 159). Eppure, ciononostante, il degrado dell'arte, sotto gli occhi di tutti, non é mai stato più evidente. Lontano da schematismi, interpretazioni di maniera, correnti e canoni manualistici, la battaglia decisiva, ancora una volta, pare allora giocarsi nel cuore umano di ognuno, attore o spettatore che sia. Viene in mente qui l'indimenticabile Fëdor Dostoevskij, la sua finissima metafisica in prosa e i Fratelli Karamazov quando lo scrittore russo fa dire a Dmitrij Karamazov quelle parole celebri, letterarie, insieme metaforiche e sempre valide: “La Bellezza é una cosa terribile. E' la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore”. Difficile ribattere che stesse parlando a vanvera uno che non se intendeva. D'altra parte, basta dare un'occhiata ai capolavori oggettivi di sempre dell'arte slava (e non solo) per comprendere come mai, a partire dall'artista stesso, realizzare un'opera d'arte volesse dire quasi sempre cercare d'illuminare con luci, riflessi e colori, conferendogli un'attrattiva inedita pro populo, le pagine più ardue della teologia cristiana.

Per concludere, insomma, “la vera arte é un appello alla nostra natura superiore, un tentativo di affermare l'altro regno, quello in cui prevale l'ordine morale e spirituale [...] Ecco perché l'arte conta. Senza la ricerca consapevole della bellezza, rischiamo di cadere in un mondo di abituale dissacrazione e di piaceri che generano dipendenza, un mondo in cui il valore dell'esistenza umana intesa come esperienza che vale la pena vivere non é più percepibile con chiarezza [...[ La bellezza sta scomparendo dal nostro mondo perchè viviamo come se fosse priva di importanza; e viviamo così perchè abbiamo perso l'abitudine al sacrificio e cerchiamo sempre, con ogni mezzo, di evitarlo. La falsa arte del nostro tempo, macchiata di kitsch e dissacrazione, ne é un segno. Fare riferimento a questo aspetto della nostra condizione non significa sollecitare la disperazione. E' un segno distintivo degli esseri razionali il fatto che essi non vivono solo – o nient'affatto – nel presente. Essi hanno la libertà di disprezzare il mondo che li circonda e di vivere in maniera diversa. L'arte, la letteratura e la musica della nostra civiltà ce lo ricordano, e, inoltre, indicano la strada che é sempre aperta davanti a loro: la strada che permette di uscire dalla dissacrazione alla volta di ciò che é sacro e sacrificale. E ciò, in poche parole, é quello che ci insegna la bellezza” (pagg. 162-164). La prossima pubblicazione di Scruton, in uscita per D’Ettoris, è la traduzione di ‘How to be a conservative’ un manifesto ragionato del conservatorismo come pensiero, gusto e modo di vivere. Da non perdere.

Un primo piano del filosofo inglese Roger Scruton

Ambientato nel 1959 in un collegio maschile del Vermont, L'Attimo fuggente (Dead poets society) è un film americano del 1989 diretto da Peter Weir e sceneggiato da Thomas Schulman. La trama sembra anticipare la radicale spinta al cambiamento che animò la contestazione giovanile degli anni ’60 e che prese di mira l'istituzione scolastica prima e quella familiare in seguito.

In 129 minuti Weir ritrae un’adolescenza sensibile e fragile, in contrapposizione ai genitori, invogliata all’anticonformismo da un nuovo insegnante di lettere moderne, John Keating (l’attore Robin Williams) che spinge gli alunni ad accettare una metodologia e una filosofia d'apprendimento “innovativi”.

Ispirandosi al carpe diem di Orazio, ai versi di Thoreau (“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza, in profondità, succhiando tutto il midollo della vita”), a quelli di Pitts (bisogna cogliere “la rosa quando è il momento / che il tempo lo sai vola / e lo stesso fiore che sboccia oggi / domani appassirà”), i ragazzi sono invitati a “non uniformarsi al gregge” e a “scoprire se stessi”, ma, come ha spiegato il critico Franco Olearo, il professor Keating «manca di trasmettere il valore di alcuni principi assoluti irrinunciabili» e, nel complesso, il film «appare molto manicheo: i bravi e i sensibili da una parte, i cattivi e gli inflessibili dall’altra» (https://familycinematv.it).

Così il regista oppone il preside e gli altri professori che si ispirano al motto “tradizione, onore, disciplina, eccellenza” ai giovani ragazzi che sono invitati a non reprimere i propri impulsi e a “ragionare” con la loro testa dallo stesso Keating (informale nel vestire, irriverente nel parlare), declamatore di poesie e convinto istigatore all’edonistico principio del “succhiare tutto il midollo della vita”.

Quando il sensibile Neil, avversato dal padre che non gradisce il suo impegno teatrale, si suicida, i nodi vengono al pettine. Keating viene mandato via, anche se acclamato da quel "Capitano, Mio Capitano" che dà voce alla manifestazione di solidarietà degli studenti plagiati dal suo metodo.

Gli insegnamenti di Keating presentano molte falle perché non suggeriscono i principi ideali a cui ispirarsi nella vita.

Il film, che regala momenti di grande intensità emotiva, è un prodotto furbo e demagogico, che con il suo dolciastro sentimentalismo ricatta lo spettatore, costringendolo a schierarsi con il carismatico Keating e i ragazzi “anticonformisti”.

L’alternativo professore, umanamente parlando, possiede tutte quelle caratteristiche che non possono non renderlo un idolo. Anche il gesto del far salire in piedi sui banchi gli studenti per vedere le cose da una prospettiva entusiasma. Ma dal “suo” stile educativo emergono: un certo nichilismo (“l'uomo non è che cibo per i vermi, il suo destino è di diventare freddo come il marmo ed essere concime per i fiori”); una buona dose di superficialità; una certa contraddittorietà rispetto alla tanto declamata necessità di guardare le cose in profondità e da angolazioni diverse, perché l'orizzonte che Keating offre ai ragazzi è l'assurdità, il non-senso.

Se pensiamo che letterati e filosofi, anche non credenti, si sono seriamente impegnati per cercare un senso alla vita, Keating fa esattamente il contrario: sprona sì i suoi ragazzi a vivere fino in fondo l'esistenza ma li priva della ricerca dei perché della vita.

La “pedagogia” de L’Attimo fuggente non riesce a trasmettere ai ragazzi le virtù della fortezza e del coraggio dinanzi alle difficoltà, della determinazione e della tenacia nelle lotte della vita (tanto che Neil arriva al suicidio vedendo la morte come la via d'uscita migliore).

Keating, nella sua concezione antropologica, affida poteri salvifici ai sogni. Ma il sogno, che è molto diverso dall'ideale, è sinonimo di illusione e pretesa sulla realtà. «Ideale e utopia non sono la stessa cosa - ricordava il grande sacerdote ed educatore don Luigi Giussani (1922-2005) -. Sogno e utopia nascono dalla testa, dalla fantasia. Invece l’ideale è il centro della realtà. L’ideale è quella soddisfazione verso cui ti lancia il cuore, qualcosa di infinito che si realizza in ogni istante. […] Ogni vero ideale richiama Dio. L’ideale si distingue dal sogno perché nasce dalla natura, nasce nel cuore dell’uomo. Perciò non tradisce. Seguilo, non ti tradirà. Sogno e utopia ti portano via dalla vita» (https://it.clonline.org).

La coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori dovrebbe far emergere in tutti che nell'essere umano c’è una ferita, il peccato originale. Il trascurare ciò può aprire il varco a una concezione onnipotente, ipertrofica ed egoistica dell'io e delle sue possibilità.

Weir, inoltre, identifica famiglia e scuola come delle sovrastrutture totalmente negative. Poteva mettere in luce le contraddizioni rispetto alla loro funzione naturale, ma si è spinto oltre arrivando a rappresentarle come strutture di potere, di ingabbiamento dell'io, di frustrazione, stravolgendone la loro vera identità.

Mentre prima il gruppo di amici si ritrova in gruppi di studio, si organizzava, ognuno portava la propria abilità in una materia particolare, si vivevano momenti di vita quotidiana in comune (a pranzo, nelle camere del college ecc.), ci si confrontava, ci si imitava, insomma si cresceva, dopo l’arrivo del professor Keating il gruppo si ritrova in una caverna, si rifugia nella sessualità, nel fumo, nell’alcool.

Così tra gli esiti più prevedibili di una pedagogia-antropologia alla Keating possiamo mettere in conto un vitalismo irrazionale, la perdita della percezione del tempo (per soddisfare il solo desiderio presente), la pretesa nei confronti della realtà e la conseguente fragilità psicologica di fronte alla delusione e al male.

«Dal momento in cui è diventato usuale affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza - ha scritto il già citato fondatore del movimento Comunione e Liberazione -, una tale follia ha coinciso coll'uccidere la parola destino con cui la parola Dio si identifica. E soltanto se c'è un destino l'istante ha corposità, è valore, e funzione di qualcosa. In caso contrario […] la vita diviene una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e che avrebbe potuto essere» (Luigi Giussani, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Jaca Book, Milano 1985, p. 43).

Quando ciò che conta è vivere emozioni, sentimenti, non la verità di ciò che si vive, la vita diventa una continua rincorsa a consumare emozioni sempre più forti, come vediamo ai nostri giorni nella cultura dello sballo a tutti i costi. In questo L’Attimo fuggente è stato davvero profetico!

L'autonomia e l'indipendenza dei ragazzi sono certo importanti mete educative da perseguire, ma perché questo accada è necessaria una compagnia adulta, autorevole, che solleciti la responsabilità del ragazzo, lo spinga a confrontarsi con una proposta precisa.

I valori proposti ne L’Attimo fuggente, invece, sono quelli di libertà delle azioni umane spinte dall’istintualità. Valori atei legati alla sola vita terrena.

Superando in chiave cristiana e dunque pienamente umana la prospettiva del personaggio Keating, è da proporre un piano educativo che si fondi: sul superamento del nichilismo; sul cercare di conciliare le varie discipline scolastiche con “i perché fondamentali della vita”, dando così la giusta prospettiva ad ogni scienza positiva; sul superamento dei sentimenti passeggeri e delle emozioni a vantaggio dei criteri di verità, giustizia, amore e felicità; sul prendere atto che c’è nell'essere umano una ferita originale che non si può trascurare.

L’ordine, il silenzio, il rispetto, la disciplina, hanno i loro aspetti positivi. Se è da stigmatizzare il rapporto freddo e formale degli insegnanti con i loro alunni, tuttavia in una classe scolastica applicare le minime regole di buona educazione è assolutamente necessario. La scuola è un ambiente che educa. Se è vero che la conoscenza non è un semplice passaggio nozionistico, tuttavia anche nozioni e dati sono importanti.

Scuola e famiglia, che nel film sono intenzionalmente rappresentate negativamente, quasi come una caricatura, tali da suscitare antipatia e da giustificare qualsiasi ribellione nei loro confronti, nella realtà sono due agenzie educative insostituibili, senza le quali masse di giovani crescerebbero senza saperi e privi di molte e diversificate esperienze, alcune buone altre cattive, tutte importanti per il proseguo della vita. Una sana pedagogia non può basarsi sulle emozioni. È necessario far capire la verità di ciò che si vive!

Con l’espressione “Gladio rossa” viene comunemente indicata una struttura paramilitare di natura clandestina, organizzata nel 1945 e sciolta nel 1974, costituita da ex partigiani e militanti del PCI. Il nome venne coniato dalla stampa presentando l'apparato come simmetrico ed opposto alla funzione anticomunista di “Gladio”, l’organizzazione segreta italiana inserita nella rete “Stay behind” coordinata dalla NATO, sorta nel secondo dopoguerra in quasi tutti i Paesi occidentali europei (inclusi paesi neutrali come Svizzera e Austria) allo scopo di contrastare un’eventuale invasione sovietica.

Sull’argomento negli ultimi anni vi sono state diverse pubblicazioni; fra queste possono essere ricordate il libro del Professore Gianni Donno, consulente della commissione Mitrokhin (e in precedenza della commissione stragi) e ordinario di Storia contemporanea presso l'Università di Lecce, La gladio rossa del PCI (1945-1967), edito da Rubbettino nel 2001, che presenta la prima documentazione organica sulla struttura paramilitare del PCI con ampio contributo in termini di documenti d’archivio.

Donno nella sua pubblicazione distingue due fasi, la prima delle quali tra gli anni 1945-1954, nella quale si determina la formazione dell'apparato paramilitare, sottolineando come al momento del disarmo delle disciolte formazioni partigiane le armi più moderne ed efficienti non furono restituite e venne invece creato un nucleo di azione clandestino (con base soprattutto nel centro e nel nord del paese), costituito in maggioranza di ex-membri delle brigate comuniste Garibaldi. Tale forza clandestina sarebbe stata direttamente dipendente dalle strutture dirigenti del Partito Comunista Italiano, in particolare da Pietro Secchia. Nelle intenzioni dei dirigenti del PCI tale forza poteva essere utilizzata con successo in un intervento armato volto alla costituzione di uno stato comunista in Italia, appoggiato da un sollevamento della popolazione.

Il fatto che Mosca fosse costantemente informata dell'esistenza della forza paramilitare è confermato in un rapporto dell'ambasciatore sovietico ai suoi superiori, 15 giugno 1945, il quale riferisce che «i partigiani del Nord continuano a nascondere le loro armi» e la circostanza è confermata anche da Victor Zaslavsky nel suo libro Lo stalinismo e la sinistra italiana (edito da Mondadori nel 2004) a proposito delle elezioni del 18 aprile 1948, alla vigilia delle quali il PCI riteneva che la DC non avrebbe riconosciuto un esito elettorale favorevole al Fronte popolare.

Zaslavsky sottolinea come l'apparato paramilitare fu tenuto in stato di allerta per tutta la durata della campagna elettorale, pronto ad intervenire in tale eventualità. Nell'imminenza delle elezioni il segretario del PCI Palmiro Togliatti chiese un incontro con l'ambasciatore sovietico Kostylev per chiedere «se si deve, nel caso di una o più provocazioni da parte dei democristiani, iniziare l’insurrezione armata delle forze del Fronte democratico popolare per prendere il potere». Nel corso del colloquio, che ebbe luogo il 23 marzo 1948 in un luogo segreto fuori Roma, riferì che i membri dell'apparato paramilitare erano stati allertati (soprattutto nell'Italia settentrionale), rassicurandolo sul fatto che prima di lanciare un'eventuale insurrezione armata avrebbe chiesto il consenso di Mosca. La risposta del governo sovietico giunse il successivo 26 marzo: Mosca fece sapere che soltanto in caso di attacco alle sedi del PCI i militanti avrebbero dovuto imbracciare le armi ma, «per quanto riguarda la presa del potere attraverso un'insurrezione armata, consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo».

La circostanza nella quale l’ipotesi di insurrezione generale fu prossima a realizzarsi si ebbe in occasione dell' attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. Zaslavsky indica che l'organizzazione paramilitare del partito ritenne che fosse giunto il momento di agire, indipendentemente dal consenso di Mosca e il Paese fu teatro di disordini, occupazioni di fabbriche ed edifici pubblici, blocchi stradali, scioperi, requisizioni di mezzi militari, assalti alle forze dell'ordine, con un bilancio di morti e feriti (come è noto il rischio di un’insurrezione generale fu scongiurato dall’intervento dello stesso Togliatti dall’ospedale). Nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 luglio 1948 si affermò che «Il tentativo insurrezionale c'è stato, tanto che a Milano i carabinieri hanno fatto denunce per atto di insurrezione contro i poteri dello Stato. Dopo aver visto in un'ora assumere dai comunisti posizioni di battaglia, non si può negare l'esistenza di programmi prestabiliti» (riportato nel saggio, “I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi», di Aldo G. Ricci, in AA.VV., a cura di Fabrizio Cicchitto, L’influenza del comunismo nella storia, Rubbettino 2008, p. 86).

Una interessante prospettiva sull’argomento è quella del libro di Salvatore Sechi Compagno cittadino – Il PCI tra via parlamentare e lotta armata, edito da Rubbettino nel 2006, che investiga il tema della struttura paramilitare del PCI alla luce delle fonti d’archivio dei rappresentanti statunitensi in Italia.

Sechi rende noto come la prima relazione "occidentale" conosciuta sull'articolazione dell'organizzazione venne redatta a Milano, nel febbraio 1947, dal console statunitense. Quest’ultimo riportò che, «A capo dell'apparato vi sarebbero Longo, Sereni e Grieco, a loro volta comandanti dalla sezione Comintern di Ginevra-Lisbona. Le operazioni militari sono gestite dall'ex-partigiano Cino Moscatelli. L'articolazione interna è suddivisa in vari nuclei e settori comandati dalla legazione sovietica in Milano di Via Filodrammatici 5» (S. Sechi, op. cit., p. 350).

Secondo le fonti americane la forza così costituita avrebbe contato tra i 130.000 e 160.000 miliziani, mentre altre stime ritenute più attendibili li valuterebbero in circa 77.000. L'organizzazione paramilitare comunista avrebbe ottenuto aiuti di uomini, armi e mezzi dalla Jugoslavia e sarebbe stata guidata da combattenti addestrati dai sovietici o da ex-comandanti partigiani. Secondo altre fonti l'apparato ebbe contatti anche con la Politická škola soudruha Synka (trad It.: “Scuola politica del compagno Synka”), la formazione armata attiva in Cecoslovacchia.

Che le strutture paramilitari del partito fossero finalizzate a compiti offensivi lo dimostra il fatto che i militanti comunisti italiani venivano militarmente addestrati oltre cortina a tre livelli, guerriglia, sabotaggio e intercettazione, del tutto sproporzionati se si accettasse l'ipotesi dei soli compiti difensivi. La struttura paramilitare del PCI fu predisposta al fine di sostenere una possibile insurrezione armata in Italia ed, alla bisogna, per operare come "quinta colonna" in caso d'attacco da parte dell'Unione Sovietica sul continente europeo.

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