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Mercoledì, 18 Giugno 2025

 

Fra le sensazioni avute leggendo il libro a cura di Giuseppe Brienza Le serate di San Pietroburgo, oggi, (Presentazione di Alain de Benoist, Edizioni Solfanelli, Chieti 2025, pp. 182), la prima è stata che la “Weltanschauung cattolica”, chiamiamola così, pur riconoscendo un forte debito culturale negli ultimi due secoli  nei confronti di filosofi e teologi poderosi e originali come Joseph de Maistre, ha avuto uno sviluppo fecondo e molto moderno nel misurarsi con efficacia coi problemi del tempo. Il libro appare subito come una fonte di grande intensità e profondità per la varietà e la coerenza degli interventi, perché ci fa immergere nell’immenso patrimonio culturale dell’Occidente, un patrimonio che è insieme di natura letteraria, filosofica, politica, religiosa.

L’egemonia morale non appartiene a nessuna parte politica o religiosa, la società si evolve in conseguenza di un costante e proficuo dialogo fra le religioni e le culture, ma si avverte nei 40 interventi raccolti nel volume una tensione etica inusitata e difficile da trovare oggi. È un’operazione culturale meritevole e di grande rilievo critico di intellettuali laici e religiosi comunque accomunati da una visione coerente e non omologante, alternativi al politically correct ma anche alla superficialità dilagante fra i predicatori dei Social Network.

Le serate di San Pietroburgo, oggi è un libro che va letto soprattutto da chi ha un pensiero diverso da quello cattolico, perché molti temi – per la profondità e la coerenza degli interventi proposti assumono una luce diversa e aprono nuovi orizzonti di interpretazione.

Gli interventi sono inseriti in aree tematiche molto attuali e stimolanti, e richiederebbero ulteriori approfondimenti e urgenza di contributi da parte di chi ama discutere sulle idee di culture anche diverse dalla propria, in quanto non ha paura di conoscere e confrontarsi con idee altrui, solo ha paura dell’ignoranza.

La prima cosa, intanto, che mi ha favorevolmente impressionato di questo terzo volume, è la presentazione di Alain de Benoist, saggista, conferenziere, giornalista e sociologo francese molto complesso, non facilmente inquadrabile in un movimento culturale o in un’ideologia convenzionale, secondo le categorie moderne, ma che si può riassumere senza particolari difficoltà. De Benoist è infatti un filosofo e scrittore a tutto tondo contro gli imperialismi, contro il liberalismo e la globalizzazione, tutti fenomeni epocali che svuotano di significato le democrazie rappresentative. Allo stesso tempo de Benoist è a favore delle piccole patrie e delle identità regionali, comunque inserite in un’Europa unita dal forte senso di appartenenza continentale.

Coerentemente con questo pensiero, egli è contro il razzismo e l’antisemitismo ma, nello stesso tempo, anche contro il cosiddetto melting pot, ossia una società cosmopolita che permette la commistione di persone di origini, culture, etnie e religioni diverse, in particolare quelle arabo-musulmane. De Benoist attinge, nell’elaborazione di questo pensiero, un po’ ecletticamente ma intelligentemente, da ideologie e pensatori diversi, che vanno da Martin Heidegger a Ernst Jünger, da Yukio Mishima a Niccolò Machiavelli, da Carl Gustav Jung a Oswald Spengler, dal marxismo all’ecologismo, dall’anti-capitalismo al socialismo, tanto che il movimento culturale della Nuova Destra (Nouvelle Droite), di cui è ritenuto fondatore (ma da cui pare essersi allontanato), si propone come una Destra Nuova, alternativa non solo alla sinistra e al capitalismo, ma anche alla destra fascista o sciovinista, filostatunitense e nazionalista.

Coerentemente con questo pensiero de Benoist nella sua Presentazione afferma di essere estraneo alle opzioni teocratiche del pensiero controrivoluzionario di Joseph de Maistre, mentre del Conte savoiardo apprezza la sua importanza nel campo delle idee. Egli valuta anche la circostanza straordinaria per cui, a più di due secoli dalla morte dell’Autore delle “Serate di San Pietroburgo, o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza” (1821), ci sono ancora ricercatori che ne riconoscono il valore di «pensatore intellettuale di grande rigore morale e originalità politica» e vogliono pertanto cercare di far rivivere «lo spirito delle Soirées de Saint-Pétersbourg».

Accennando a qualcuno dei contributi contenuti nel III Volume, cominciamo con quello sulla bioetica firmato da Matteo Orlando, dal titolo Eutanasia: se la conosci la combatti. Parlando di un libro di don Gian Maria Comolli, il Direttore di inFormazioneCattolica.it si sofferma sugli esiti mortiferi che discendono dalla legalizzazione della c.d. “dolce morte” nei Paesi citati del Nord Europa, che hanno oramai aperto la pratica eutanasica anche ai minori.

Lo stesso don Comolli scrive sulla maternità surrogata (Dal desiderio di maternità alla maternità surrogata), sottolineando come in una società come quella occidentale post-cristiana la fede in Dio e la ragione si stiano sempre più affievolendo e, per questo, hanno portato ad un fenomeno che ha trasformato abusivamente il desiderio di maternità in diritto, dando luogo alla c.d. “maternità sostitutiva” o “utero in affitto”. Che è una pratica che consiste nell’impegno di una donna a farsi fecondare, rendendo poi disponibile “a pagamento” il proprio utero per il corso della gravidanza, con l’obbligo di consegnare ai committenti il bambino dopo la nascita. Un fenomeno inaccettabile e insopportabile, un evidente “schiaffo sociale” alla rispettabilità e alla dignità del sesso femminile come pure ai diritti del nascituro.

Sul comunismo scrive ancora Matteo Orlando, recensendo un mio romanzo dal titolo Il quadro di Stalin [cfr. L’icona (e il quadro) di Stalin]. Il suo contributo prende spunto da una blasfema icona raffigurante Iosif Stalin in piedi, la mano infilata nel lungo, distintivo cappotto, accanto alla veggente venerata come santa dalla Chiesa ortodossa russa Matrona la Cieca (1885-1952). Una blasfema icona che esalta un dittatore spietato che è stato artefice tra gli anni Venti e Trenta di feroci persecuzioni, fra l’altro, contro la stessa Chiesa ortodossa, radendone al suolo i luoghi di culto e ordinando l’esecuzione di decine di migliaia di religiosi. Nel quadro, Stalin è raffigurato come un credente e ciò che è ancora peggio è che questa “icona” è stata recentemente esposta nella principale chiesa georgiana, l’imponente Cattedrale di Sameba, nel cuore di Tbilisi.

Sul tema Famiglia-Educazione-Scuola scrive un bell’articolo Giuseppe Brienza (cfr. Diritto dei genitori di educare i loro figli? “Rispettato secondo le leggi nazionali” secondo l’Ue). L’autore parla dell’educazione dei figli nell’Ungheria di Viktor Orbán, che scatena da almeno un decennio, a intervalli regolari, la polemica tra i media e i partiti italiani, cioè tra quelli favorevoli al leader sovranista magiaro e quelli a lui sistematicamente contrari. Gli scontri sono spesso roventi e ideologici e dividono chi, come partiti e leader del centro-sinistra, parteggia sempre e comunque per l’Unione europea e contro la Russia e chi, come la Lega di Salvini e Forza Italia, ha una posizione maggiormente articolata e, comunque, tendenzialmente critica verso Bruxelles e “comprensiva” verso la politica di Vladimir Putin. A tale divaricazione – scrive l’autore - hanno contribuito anche le accuse, da tempo rivolte al governo ungherese, di essere il “cavallo di Troia” della Russia in Europa e nella Nato, avendo lasciato liberi i servizi segreti della Federazione russa di scorrazzare nella rete informatica del ministero degli affari esteri di Budapest e tacendo il fatto agli alleati. Se questo tipo di addebiti sembrano realistici, sinceramente lasciano perplessi le continue procedure di biasimo e infrazione rivolte all’Ungheria dalla Commissione e da altre Istituzioni europee.

Nell’ambito della tematica Italia: storia politica e identità culturale è dello stesso autore un altro articolo, di natura culturale e religiosa che risulta, anche per gli echi danteschi, appassionante (cfr. Papa Celestino V e la perdonanza nel XXI secolo). Brienza vi ritrae la figura del Pontefice-eremita “che fece per viltade il gran rifiuto” e, con racconto preciso e coinvolgente, narra la storia del benedettino Pietro Angelerio, nato in Molise, passato alla storia come papa Celestino V. Un protagonista che, sicuramente, ha tracciato in profondo l’identità del nostro Paese e, con Joseph de Maistre, meriterebbe di essere riscoperto.

Appaiono evidenti gli effetti dell’Intelligenza Artificiale - mi riferisco a quella categoria di tecnologie di cui “ChatGpt” è la più nota - sul mondo delle arti visive, della musica, della letteratura e sull’industria dell’entertainment. Insomma, sul lavoro, sia esso prestato in forma autonoma sia subordinata, che implica un elevato grado di creatività.

Il fenomeno si sta imponendo oggi prepotentemente all’attenzione degli studiosi e degli operatori giuridici, ma l’origine dell’espressione “intelligenza artificiale” risale molto indietro nel tempo. Personalmente, l’ho incontrata per la prima volta durante i miei studi universitari nel libro del prof. Vittorio Frosini (1922-2001), Cibernetica, diritto e società (Edizioni di Comunità, Milano 1968, ristampato nel 2023 dalle Edizioni Roma Tre-Press) che, già a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, aveva affrontato l’indagine delle conseguenze della rivoluzione tecnologica nell’ambito delle scienze umane. Nel testo l’autore ipotizzava addirittura la possibilità di una “coscienza artificiale” e descriveva l’uomo come anello di congiunzione tra il mondo della natura e il mondo della tecnica, tra la bestia e la macchina ormai capace di apprendimento e di giudizi di valore.

Nei primi anni Novanta il filosofo e artista Tomás Maldonado (1922-2018) avvertiva che sarebbe stato necessario misurarsi con le ripercussioni dell’intelligenza artificiale sul processo creativo artistico e prevedeva che le tecnologie emergenti avrebbero determinato una «dematerializzazione della nostra realtà nel suo complesso», segnatamente nel campo dell’arte, evidenziando peraltro che l’idea di dematerializzazione aveva già avuto un ruolo importante nei programmi e manifesti delle neoavanguardie artistiche e in particolare dell’arte concettuale (Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1993, p. 10).

Il superamento della corporea fisicità dell’oggetto artistico è oggi contrassegnato dai cosiddetti NFTs (Non-fungible tokens), in grado di certificare l’autenticità dell’arte digitalizzata (id est, l’autenticità dell’opera tradotta in immagine digitale) mediante il sistema della blockchain, utilizzato, nel mondo della finanza, per le criptovalute. Questa tecnologia sembra sancire il “mutamento di paradigma”, da lungo tempo in corso, realizzatosi attraverso le forme dell’arte contemporanea (arte concettuale, ready-made, performance), le quali hanno raggiunto un tale grado di astrazione e concettualizzazione da mettere in crisi il postulato, generalmente riconosciuto nella dottrina del diritto d’autore, che non siano le idee a essere protette, ma la loro espressione.

Con riferimento alle opere connotate dalla prevalenza dell’idea sull’espressione, lo storico dell’arte Jean Clair (Considérations sur l’État des Beaux-Arts. Critique de la modernité, Gallimard, 1983, p. 20) ha detto, parafrasando ironicamente René Magritte (1898-1967), che esse dovrebbero essere identificate mediante la didascalia “Ceci est une œuvre d’art” (“Questa è un’opera d’arte”). Di fronte a tale cambio di paradigma, causato da opere che talvolta sembrano avere come unico scopo quello di creare disturbo e che quanto più sono misere tanto più sono cospicui al loro riguardo i commenti degli esegeti, vi è chi ha parlato di “morte dell’arte”, di “nuova iconoclastia” e di un “folle rancore” dell’artista «che non riesce a raggiungere le altezze del passato» (Dalmazio Frau, Crociata contro l’arte, Idrovolante Edizioni, 2017, p. 133).

Come ha notato un giurista americano, oggi l’arte si sottrae a ogni intento definitorio con la conseguenza che i tentativi di circoscriverne giuridicamente il concetto si dimostrano velleitari se non controproducenti (D. McClean, The Trials of Art, Ridinghouse, London, 2007, 26). Eppure, in mancanza della possibilità di una definizione, non solo di carattere giuridico, l’arte rischia di snaturarsi, di trasformarsi in qualcosa di evanescente, di perdere la propria autonomia e il proprio fondamento ontologico, di ridursi a «enigma senza soluzione né mistero» (Elémire Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990, p. 62).

Le applicazioni dell’intelligenza artificiale, con le loro enormi potenzialità e la loro capacità di generare testi complessi e immagini, si inscrivono in questo contesto e rendono ancora più problematica la sopravvivenza di spazi di originalità e creatività umane. Ciò esercita un influsso dissuasivo sulla disposizione dell’artista a esprimersi attraverso le sue opere e a renderne partecipe la collettività, contribuendo al progresso sociale e culturale. Nello sforzo di esprimere qualcosa di autenticamente nuovo, impresa di per sé vieppiù ardua, l’artista si trova infatti a fronteggiare anche la concorrenza dell’intelligenza artificiale, a meno che non riesca a strumentalizzarla ai fini della propria creatività.

Oggi, le espressioni più all’avanguardia dell’arte contemporanea sono sussumibili nel concetto di arte in quanto un circolo ristretto di finanzieri, grandi mercanti, direttori di musei (cioè i padroni del mercato) decidono in tal senso. Il criterio epistemologico della falsificabilità non può più essere applicato all’opera d’arte contemporanea: non esiste alcun metro, al di là del giudizio discrezionale dei suddetti soggetti, per affermare che un’opera sia artistica o che non lo sia. L’intelligenza artificiale si inserisce in questo processo rischiando di ridurre ulteriormente il campo dell’autenticità creativa suscettibile (e meritevole) di tutela giuridica.

Come evidenzia lo sciopero a oltranza degli sceneggiatori americani, l’intelligenza artificiale non insidia soltanto la creatività ma anche i posti di lavoro. È auspicabile che, come avvenuto in passato, anche in questo caso la capacità della tecnologia di sostituirsi ai lavoratori si dimostri più debole della forza complementare che aumenta la domanda di manodopera umana altrove. Tuttavia, secondo alcuni studiosi questo è soltanto un pio desiderio. La linea di pensiero più pessimistica rileva, infatti, che l’attuale rivoluzione tecnologica non è comparabile con le precedenti rivoluzioni industriali, essendo la prima skill-biased e le seconde unskill-biased. Queste ultime anziché favorire la competenza, favorivano la mancanza di competenza e, pertanto, se da un lato avessero reso obsolete certe figure professionali specializzate, dall’altro avrebbero offerto occupazione a masse di operai poco qualificati (in questo senso, v. D. Susskind, Un mondo senza lavoro. Come rispondere alla disoccupazione tecnologica, Giunti Editore, Firenze, 2022). Secondo questa corrente di pensiero, dunque, la minaccia della disoccupazione tecnologica sarebbe oggi reale, anche perché la gamma di compiti non suscettibili di essere automatizzati sarebbe destinata a ridursi sensibilmente. Si prospetterebbe un mondo con meno lavoro retribuito, in cui i disoccupati, beneficiari di un reddito universale di base, dovrebbero dare un contributo di solidarietà svolgendo attività socialmente utili (lavoro non salariato).

In questo quadro a tinte fosche, oso esprimere una previsione ottimistica.

È noto che le macchine ormai prevalgono sugli esseri umani in molti campi e, in particolare, nel gioco degli scacchi. Esse, tuttavia, sono meno efficienti in giochi, come il poker, caratterizzati da bluff, da tattiche di inganno, da comportamenti apparentemente irrazionali e dall’imprevedibilità del caso. Queste caratteristiche sono presenti anche nelle negoziazioni e specialmente nelle trattative sindacali, situazioni in cui ciascuna delle parti tende a massimizzare il proprio vantaggio utilizzando a pieno la propria forza contrattuale anche a scapito di una soluzione equilibrata. Nessun negoziatore che abbia fiducia nella propria capacità persuasiva delegherebbe a una macchina la composizione della controversia, salvo che non sia in una posizione di assoluta debolezza (ma, in tal caso, la controparte si opporrebbe). Io penso allora che questo genere di attività continueranno per molto tempo a essere appannaggio degli esseri umani.

 

La modernità, lo sappiamo, si è identificata sostanzialmente con tre fattori: a) la storia dell’uomo in ogni sua variante, da quella individuale a quella sociale; b) la secolarizzazione che ha prodotto infine l’immanentismo assoluto; c) il controllo della natura da parte dell’uomo.

Basta leggere le opere fondamentali dedicate alla filosofia della storia da Karl Löwith (1897-1973) a Henri Marrou (1904-1977) per comprendere che il Moderno si è preteso dominio esclusivo della storia umana, dunque luogo e condizione essenziale della Weltgeschichte, ovvero della storia del mondo. In questo preciso senso, il Moderno ha trovato in Hegel – e non poteva che essere così – il suo mèntore filosofico ideale. Infatti, nel disegno hegeliano di una filosofia della storia conchiusa in sé stessa e in se stessa autolegittimantesi, nel dominio storico e logico di una razionalità assoluta, si celebravano i fasti della modernità di Napoleone, dello Stato etico e del primato teoretico dello Spirito Assoluto. Marx e il materialismo storico sono certamente il frutto maturo e, ad un tempo, contraddittorio, di questa figura di razionalismo assoluto immanentista. Il comunismo e l’ideologia violentemente statolatrica del totalitarismo staliniano, strumenti del controllo totale della società, compiono in maniera tragicamente esemplare il percorso del razionalismo assoluto hegeliano.

Sarà questa la lettura che tanto Lenin quanto Togliatti daranno del comunismo come pensiero della rivoluzione e dell’egemonia del Partito sulla società. Su questo fondamento nasce e sulla crisi di questo fondamento entra profondamente in crisi l’intero progetto del Moderno. Caduto il Muro di Berlino, del Moderno non si potrà più ragionare secondo gli schemi originari. E ciò condizionerà inevitabilmente anche le concezioni politiche radicalmente anticomuniste quali il liberalismo (oggi, a dire il vero, da ripensare interamente) e il socialismo democratico e liberale. Cosa accade, in sostanza, con l’implosione del “comunismo di Stato” e, dunque, del progetto ideologico del Moderno? In primo luogo, un fatto: la fine della storia. Il politologo statunitense Francis Fukuyama, in realtà, non ha avuto tutti i torti, da buon allievo di Hegel e Kojève, a scrivere un saggio come il noto La fine della storia e l’ultimo uomo (1992). Salvo che il suo schema, riduttivamente occidentalista con ritorni di matrice razionalistica e infine ideologica, il che introduce un’immagine di Occidente liberaldemocratico un po’ artificiosa (anche se non irreale, come molti suoi critici hanno detto, prendendo un abbaglio), non spiega le successive vicende in cui è coinvolta la modernità, non più identificabile con la storia universale del mondo. Finisce, così, la storia come Storia Universale del Mondo, come Weltgeschichte, e questo evento, del tutto imprevisto, ha molte ripercussioni sul presente. Una prima evidente conseguenza è l’emergere di un multiversum storico, cioè di molte storie regionali e locali, che si pongono oggi in modo nuovo ed originale al centro delle vicende mondiali dell’umanità, pur rimanendo, almeno a prima vista, sul piano geografico e culturale, in periferia. Ma così non è: la periferia del mondo non è più distante dal centro dei grandi fatti mondiali, dalle precipitazioni ed accelerazioni delle crisi, anche, spesso, dalle catastrofi mondiali. Inoltre, continenti come l’Africa, tanto quella settentrionale, quanto quella sub-sahariana e, ancora, la Cina, l’India, la Russia, ma anche la Cecenia e la Nuova Zelanda, e paesi come la Svezia, la Danimarca e la Norvegia, sono in questo tempo assai centrali e cruciali: mille storie uniche che sembrano trovare una nuova identità in un concetto divenuto, di fatto, un grande contenitore astratto, la globalizzazione, un concetto ancora sostanzialmente da pensare, nei suoi fondamenti. Ecco, dunque, che la secolarizzazione e l’immanentismo assoluto non forniscono più le chiavi ermeneutiche per comprendere il disfacimento del modello originario che fa capo alla modernità. E perché? Intanto, a causa della presenza invasiva di alcuni fenomeni di fondamentalismo religioso, i quali si rovesciano poi in nichilismi violenti. Il terrorismo islamico è il trait d’union tra la disgregazione della modernità, che non ha mai toccato profondamente le radici culturali, etiche e sociali dell’Islam e l’Occidente scristianizzato, da un lato, e dall’altro fortemente debitore a Benedetto XVI di una visione della storia compiuta sia sul versante teologico, sia sul versante politico. Benedetto XVI è il Papa che parla alla storia, drammaticamente immerso in essa, come ha detto agli ebrei durante le giornate della gioventù a Colonia. E questo Pontefice, inoltre, non recide affatto il legame con la verità, quando dialoga con l’Islam, distinguendo perfettamente tra l’apertura a tutti i semina Verbi, cioè i segni del Divino, seguendo la sensibilità teologica e la dottrina dei Padri della Chiesa e lo svuotamento del messaggio cristiano, che deve essere sempre incentrato decisamente sulla Verità di Cristo. E quando il fondamento è altro, avviene lo svuotamento del Cristianesimo. Su questa base spirituale, con un forte impianto cristologico, la realtà del Cristianesimo si concreta come sostanza viva della storia, pur alla fine del suo percorso moderno, e riapre il discorso, anche sul piano intellettuale, sui fondamenti della Cristianità. L’esito della riscoperta della Croce di Cristo: la centralità di un Cristo non compassionevole, repellente anche a Nietzsche, ateo raziocinante e perciò non piegato al “pensiero unico” del devozionalismo caritatevole.

E veniamo all’ultimo punto: l’impossibilità dell’uomo di dominare la natura. E così il cerchio si chiude, lasciando dietro di sé molti frammenti e spezzoni problematici, quasi ci trovassimo di fronte ad uno specchio rotto difficilmente ricomponibile in ogni sua parte. In breve: oggi non c’è più l’homo faber.

Dunque, scomparso l’uomo storico secolarizzato e dominatore della natura, cessa di esistere anche l’homo faber in quanto tale. Storia e natura risultavano compresi, nel Moderno, in un unico disegno universale. Oggi non è più così. In sostanza, non è più l’uomo a dominare la natura attraverso l’uso tecnicamente calibrato degli strumenti tecnologici, concepiti come mezzi sempre positivi e adatti a migliorare la vita dell’uomo, ma è la tecnologia a dominare l’uomo. La tecnologia si trasforma in entità autonoma, indipendente dal controllo dell’uomo. I laboratori sono ricettacoli di un nichilismo tecnocratico divenuto dominante e, insieme, inquietante.

Ecco il cortocircuito immanente all’azione umana. Un paradosso permanente che non può essere fronteggiato soltanto sul piano teorico e analitico, ma comporta un impegno etico e pratico. Di qui la ripresa dell’umiltà come antidoto antico alla prepotenza arrogante delle tecnostrutture. L’affidamento, nonostante tutto, alla strumentazione tecnologica, acriticamente assunta come la chiave della “salvezza” umana, produce una strana specie di nichilismo. Un nichilismo che risulta come inevitabile esito della debolezza dell’uomo, non più dominatore della natura e degli strumenti tecnologici, dei loro esiti sperimentali e pratici. Un nichilismo radicalmente differente da quello tematizzato sia da Nietzsche che da Heidegger, per non parlare di quello, insostenibile e teoreticamente infondato, di Severino. Un altro modello di nichilismo che chiude definitivamente l’epoca della modernità. Finisce, così, quella epoca moderna dominata dall’homo faber e inizia il momento storico del nichilismo tecnologico e tecnocratico. Non serve più Heidegger e la retorica del “solo un dio ci può salvare”. Servono nuove categorie. Il Soggetto cartesiano, tecnocrate e dominatore, capace di costruire certezze teoretiche ed epistemologiche da applicare alla natura, con il preciso obiettivo di conoscerla, non esiste più.

Un cristiano nel braccio della morte. Il mio impegno a fianco dei condannati, con Prefazione di Papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024, pp. 192), più che una testimonianza autobiografica, è la condivisione di un’esperienza di vita forte e sconvolgente. Il protagonista è Dale Recinella, avvocato di successo a Wall Street (sede della Borsa di New York) che, dopo un’esperienza grave di malattia, decide a quarant’anni suonati di cambiare radicalmente vita dedicandosi ad una particolare “categoria” di poveri: i condannati a morte nelle carceri statunitensi, assistendoli spiritualmente come “cappellano laico”.

La sua storia di accompagnamento e sostegno delle persone condannate alla pena capitale ed ai loro familiari è una testimonianza della vicinanza misericordiosa di Dio agli esclusi ed ai dimenticati, come raccontato in occasione del suo intervento all’incontro “Papa Francesco. Misericordia e missione”, che si è tenuto al Meeting di Rimini il 24 agosto 2024. Attraverso gli oltre trent’anni di ministero nelle carceri, infatti, Recinella ha sperimentato direttamente «che accompagnare quanti sono ai margini dentro ai recinti di filo spinato significa entrare nella misericordia di Dio. […] Poco a poco, un appuntamento di preghiera per volta, gli uomini diventano più che semplici nomi sulle divise carcerarie blu. Emergono persone reali, con storie reali e vite reali» (Dale Recinella, Meglio accendere una candela che maledire il buio, L’Osservatore Romano, 24 agosto 2024, p. 4).

Si capisce quindi come il tono narrativo del libro Un cristiano nel braccio della morte riesca a coinvolgere il lettore in una storia incredibile e di grande impatto emotivo perché l’Autore, classe 1951, laureato in legge e in teologia, insieme alla moglie Susan, dopo l’esperienza personale d’incontro e di conversione a Gesù ha deciso fin dal 1998 di accompagnare spiritualmente i condannati a morte in alcuni dei penitenziari della Florida. Si tratta di uno Stato nel quale il metodo ordinario di esecuzione è l’iniezione letale e, pochi giorni dall’appena citato intervento di Recinella al “Meeting per l’amicizia fra i popoli” di Comunione e Liberazione, ovvero il 29 agosto del 2024, con tale brutale metodo è stata eseguita l’ultima (per ora) sessantottesima esecuzione della pena capitale eseguita in Florida dal 1997 ad oggi.

La vicenda umana e spirituale di Dale Recinella è conosciuta in Italia anche per gli articoli scritti negli ultimi anni per il quotidiano ufficioso della Santa Sede L’Osservatore Romano. Il suo recente libro-testimonianza, però, descrive a tutto tondo come sia stato possibile che un uomo, con in testa ben altri traguardi da raggiungere nel proprio futuro, sia diventato “a tempo pieno” il cappellano, da professionista laico, marito e padre di famiglia, dei condannati alla pena capitale. Una missione sempre più difficile e delicata se, come rileva Papa Francesco nella sua Prefazione, le esecuzioni capitali ormai, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di odio e di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso sia per i condannati sia per il corpo delle nostre società civili.

«A Dale Recinella vorrei quindi - aggiunge il Pontefice -, dire un grazie sincero e commosso: perché la sua azione di cappellano nel braccio della morte è una tenace e appassionata adesione alla realtà più intima del Vangelo di Gesù, che è la misericordia di Dio, il suo amore gratuito e indefesso per ogni persona, anche per coloro che hanno sbagliato. E che proprio da uno sguardo d’amore, come quello di Cristo sulla croce, possono trovare un senso nuovo al loro vivere e, anche, al loro morire».

«Il Vangelo - ribadisce a tal proposito il Santo Padre - è l’incontro con una Persona viva che cambia la vita: Gesù è capace di rivoluzionare i nostri progetti, le nostre aspirazioni e le nostre prospettive. Conoscere Lui vuol dire riempire di significato la nostra esistenza perché il Signore ci offre la gioia che non passa. Perché è la gioia stessa di Dio» (Papa Francesco, La pena di morte non fa giustizia ma è un veleno per la società, L’Osservatore Romano, 19 agosto 2024, p. 7).

Quello di Recinella e di tutti i “cappellani delle carceri”, conclude Papa Francesco nella Prefazione, è in definitiva «un compito difficilissimo, rischioso e arduo da praticare, perché tocca con mano il male in tutte le sue dimensioni: il male compiuto verso le vittime, e che non si può riparare; il male che il condannato sta vivendo, sapendosi destinato a morte certa; il male che, con la pratica della pena capitale, viene instillato nella società. Sì, come ho più volte ribadito, la pena di morte non è in alcun modo la soluzione di fronte alla violenza che può colpire persone innocenti. Le esecuzioni capitali, lungi dal fare giustizia, alimentano un senso di vendetta che si trasforma in un veleno pericoloso per il corpo delle nostre società civili. Gli Stati dovrebbero preoccuparsi di permettere ai detenuti la possibilità di cambiare realmente vita, piuttosto che investire denaro e risorse nel sopprimerli, come fossero esseri umani non più degni di vivere e di cui disfarsi. Nel suo romanzo “L’idiota” Fëdor Dostoevskij sintetizza così, in maniera impeccabile, l’insostenibilità logica e morale della pena di morte, parlando di un condannato alla pena capitale: “È una violazione dell’anima umana, niente altro! È detto: “Non uccidere”, e invece, perché lui ha ucciso, altri uccidono lui. No, è una cosa che non dovrebbe esserci”. Proprio il Giubileo dovrebbe impegnare tutti i credenti per chiedere con voce univoca l’abolizione della pena di morte, pratica che, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, “è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona!” (n. 2267). Inoltre, l’azione di Dale Recinella, senza dimenticare l’importante apporto di sua moglie Susan come traspare dal libro, è un grande dono per la Chiesa e per la società degli Stati Uniti, dove Dale vive e opera. Il suo impegno come cappellano laico, proprio in un posto davvero disumano come il braccio della morte, è testimonianza viva e appassionata alla scuola della misericordia infinita di Dio. Come il Giubileo straordinario della Misericordia ci ha insegnato, non dobbiamo mai pensare che possano esistere un nostro peccato, un nostro sbaglio o una nostra azione che ci allontanino definitivamente dal Signore. Il suo cuore è già stato crocifisso per noi. E Dio può solo perdonarci. Certo, questa infinita misericordia divina può anche scandalizzare, come scandalizzava tante persone al tempo di Gesù, quando il Figlio di Dio mangiava con i peccatori e le prostitute. Lo stesso fratello Dale deve far fronte a critiche, rimostranze e rifiuti per il suo impegno spirituale accanto ai condannati. Ma non è forse vero che Gesù ha accolto nel suo abbraccio un ladrone condannato a morte? Ebbene, Dale Recinella ha davvero capito e testimonia con la sua vita, ogni volta che supera la porta di una prigione, in particolare quella che lui chiama “la casa della morte”, che l’amore di Dio è senza confini e senza misura. E che anche il più turpe dei nostri peccati non deturpa agli occhi di Dio la nostra identità: restiamo suoi figli, da lui amati, da lui custoditi e considerati preziosi» (Papa Francesco, Città del Vaticano, 18 luglio 2024).

Per il suo impegno sociale e spirituale Dale Recinella ha ottenuto negli ultimi vent’anni molteplici riconoscimenti da importanti istituzioni statunitensi e internazionali. Solo per citarne alcuni nel 1997 la Notre Dame University (Indiana) l’ha nominato Cittadino e credente esemplare, nel 2000 i cappellani dell’Union Correctional Institution della Florida l’hanno insignito del riconoscimento di Cittadino volontario dell’anno e, da ultimo, la Pontificia Accademia per la Vita (PAV) gli ha assegnato nel 2019 il premio Custode della vita destinato «a personalità non appartenenti all’ambito accademico che, nella vita privata e professionale, si sono distinte per significative azioni a sostegno tutela e promozione della vita umana».

Quello del sacerdote e teologo spagnolo don Álvaro Granados (1964-2025) è stato un esempio di santità molto "normale", di quella «classe media della santità» di cui Papa Francesco ci ha parlato nell’Esortazione Apostolica “Gaudete et exultatesulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018, n. 7). Non certo “normale” è stato il sacrificio che, negli ultimi sette anni della sua vita, il Signore gli ha chiesto portando sul suo corpo la “croce” della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), una malattia degenerativa che gli ha interdetto progressivamente tutte le funzioni vitali. «È una malattia pesante, dura - ha detto della SLA -, ma mi ha permesso di maturare e soprattutto di capire quali sono le cose che veramente contano nella vita. Oltre al valore della fede cristiana, in questi anni di infermità, ho scoperto e riscoperto il grande valore delle relazioni umane, ciò per cui vale veramente la pena lottare in questo mondo. Chi ha molte relazioni con le persone è ricco, chi non ne ha è povero» (Giuseppe Muolo, “Ho la Sla, ma resto sacerdote fino in fondo”, Avvenire, 30 maggio 2024).

La forza per resistere ed offrire la malattia gli è sempre venuta dal Vangelo. Ma quali sono i passi che gli sono stati più di forza e di conforto nel momento della sofferenza? «C’è l’imbarazzo della scelta - ha risposto nel corso di un’intervista al quotidiano dei Vescovi italiani -. Ma mi ricordo spesso il passo della vedova al tempio, che con due spiccioli riesce a entusiasmare Cristo, cioè Dio. Io penso che offrendo a Lui le piccole cose della mia malattia, gli acciacchi, un dolore improvviso, un momento di disagio, è come se mi avvicinassi al comportamento della vedova. Non sto dando niente concretamente, ma per Dio è tanto, è tutto. Lo riempie di amore. Offrendo i piccoli e grandi disagi che attraverso, posso colmare di gioia il cuore di Dio. Questo mi entusiasma e mi aiuta a dare un senso alla mia malattia».

Anche la parte finale della sua esistenza don Álvaro l’ha vissuta ad imitazione «di coloro che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (Gaudete et exultate, n. 7). Pochi giorni prima di morire nella sua piccola stanza della parrocchia di san Josemaría Escrivá, nel quartiere Ardeatino di Roma, dove ha vissuto per due periodi - per un totale di quindici anni - intervallati dal servizio accademico e pastorale prestato sempre nella Capitale ma abitando altrove, il sacerdote ha detto a una delle sue sorelle: «Chiedo al Signore la grazia di conservare la vita, così da potergli dare gloria con la mia malattia finché Lui lo vorrà».

Per tutti quelli che venivano a trovarlo, ha testimoniato il suo collega di università e “vicino di stanza” nella parrocchia di san Josemaría Escrivá Daniel Arasa Villar, don Álvaro «aveva una parola di conforto e, quando era più difficile per lui parlare, un orecchio attento con uno sguardo compassionevole. È evidente che, con il passare del tempo, l'affetto (la carità) stava plasmando la sua personalità e allargando il suo cuore. Non mancava mai di essere grato per un servizio, anche quando la maschera del ventilatore gli impediva quasi di parlare».

Nato a Madrid nel 1964, Álvaro Granados si era laureato in legge all'Università di La Laguna (Tenerife) nel 1988. Si è poi trasferito a Roma per studiare teologia nella Pontificia Università della Santa Croce (PUSC), dove ha conseguito anche un dottorato in filosofia nel 1996. È stato ordinato sacerdote della Prelatura personale dell’Opus Dei nel 1994 e, dal 1995 al 2006, ha lavorato come formatore presso il Seminario internazionale Sedes Sapientiae. È stato anche Rettore del Collegio Sacerdotale Tiberino e, nel 2009, ha conseguito il dottorato in Teologia Pastorale presso l'Università Lateranense. A tale disciplina don Granados ha dedicato il suo ultimo volume, La casa costruita sulla sabbia. Manuale di teologia pastorale (Edizioni Santa Croce, Roma 2022, pp. 392), che esprime nel modo più efficace la situazione dei cristiani che vivono nella post-modernità, ovvero individui immersi in un contesto nel quale la fede è diventata culturalmente impossibile

Il presupposto da cui parte nell’impostazione di questo libro è pienamente condivisibile: occorre rinsaldare le fondamenta sabbiose su cui poggia l’esistenza cristiana oggi, cui lo spirito del Concilio e la successiva rivoluzione del Sessantotto ha dato il “colpo di grazia”.

Come evangelizzare dunque l’uomo contemporaneo? Come rinsaldare la sua fede? Quali ostacoli culturali impediscono di raggiungere un’esistenza cristiana matura?

«L’idea di fondo - afferma - è che la Nuova evangelizzazione a cui è chiamata la Chiesa “in questa ora magnifica e drammatica della storia”, come ha definito l’epoca contemporanea san Giovanni Paolo II nella Christifideles laici, impone ancora una Prima evangelizzazione, non in senso cronologico, ma come impostazione di fondo presente in ogni segmento della pastorale. Una Prima evangelizzazione che tenga conto dell’humus culturale in cui vive l’uomo contemporaneo, della sua particolare sensibilità, dello stile di vita, dei motivi di una certa svogliatezza verso il discorso religioso e di uno sguardo distorto nei confronti dell’annuncio cristiano».

L’attuale crisi del “processo per diventare cristiani” può essere invertita quindi solo prendendo atto della reale situazione storica, rimodellando la teologia pastorale non solo a partire dalla pur doverosa precisione delle formulazioni (fides quae), ma anche sulla base delle caratteristiche dei destinatari e del loro contesto (fides qua). Infatti, come sostiene don Álvaro, «i tentativi di ripristinare questo processo sono falliti perché si sono concentrati quasi esclusivamente sul rinnovamento della catechesi, quando in realtà sono tutti gli elementi del processo che richiederebbero un ripensamento: la Prima evangelizzazione, la catechesi, la famiglia come luogo di trasmissione della fede, la questione educativa, la pastorale dei sacramenti, l’omelia e la pietà popolare».

Con la sua intensa attività pastorale e il suo modo esemplare di vivere la vocazione sacerdotale, nonostante i limiti imposti dalla malattia, Álvaro Granados ha lasciato un segno profondo in tutti noi che lo abbiamo conosciuto, come è stato anche dimostrato dai suoi affollati funerali, celebrati il 26 gennaio 2025 da mons. Fernando Ocáriz nella parrocchia intitolata al fondatore dell’Opus Dei alla presenza di oltre 600 persone. Nell’omelia della cerimonia funebre, fra l’altro, il Prelato dell’Opera che ha avuto modo di conoscere bene don Álvaro ha testimoniato di lui: «da più di sette anni affetto da una malattia molto grave, non si ribellò. Prese su di sé il giogo che il Signore gli aveva offerto. E se agli occhi di tutti il suo fardello sembrava ogni giorno più pesante, egli lo portava come se ogni giorno fosse più leggero, mentre il suo cuore diventava più dolce e umile, più identificato con il cuore di Gesù».

Sono da tempo continue le visite alla tomba di don Álvaro, collocata in un cimitero civile, anzi nel cimitero più grande d’Italia, il Flaminio-Prima Porta di Roma, nel quale è sepolto anche il suo connazionale Joaquín Navarro-Valls (1936-2017), altra esistenza come la sua donata alla Chiesa tramite l’Opus Dei. L’indimenticabile portavoce di Papa Giovanni Paolo II e, fino al 2006, di Benedetto XVI, ha scritto parole sulla santità che si attagliano perfettamente ad Álvaro Granados: «l'immagine plastica della santità, come spesso è stata presentata per tanti secoli, ci può far pensare che solo alcune circostanze eccezionali siano adatte a fare da cornice alla vita di un santo. Eppure, quando veramente abbiamo conosciuto un santo, quando la nostra stessa vita si è incrociata con la sua, non possiamo che modificare quell'idea della santità. Del resto, che essere santo sia una meta per tutti i cristiani non è stato un concetto comune negli scritti degli autori spirituali, almeno negli ultimi dieci o dodici secoli. Ancor meno comune è in questi autori l'idea che le realtà che oggi chiamiamo "civili" e che negli scritti spirituali sono catalogate come mondo - in altre parole, tutto ciò che costituisce la professione, la famiglia, le relazioni sociali, ecc. - non solo possono fare da scenario della santità, ma sono, di fatto, il mezzo, lo strumento e la materia della santità» (Il realismo umano della santità, L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002).

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