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Il nuovo libro di Arpaja :Bolìvar “L’unico scopo è la libertà”

Armando Arpaja nato a Roma, frequenta i corsi di Pittura e Tecnica dell’Affresco presso la Scuola delle Arti Ornamentali del Comune di Roma e l’Accademia di Belle Arti. Espone le sue pitture per la prima volta a Roma, in Via Giulia, nel 1976.

L’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma, il 13 dicembre 2007, gli conferisce il «Premio Campidoglio» come artista internazionale, con la seguente motivazione:

«Esaltazione delle diverse etnie privilegiando la Cultura in funzione della costruzione della Pace, l’uguaglianza e la fratellanza dei Popoli».

Ha esposto i suoi quadri in città europee quali, Milano, Parma, Bologna, Taormina, Venezia, Atene, Salonicco, Parigi, Amsterdam, Copenaghen, Bruxelles, Lisbona, Marsiglia, Strasburgo, Sofia. In Medio Oriente e Africa: Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Casablanca, Lefkara (Cyprus), Smirne, Ankara, Addis Abeba, Khartoum, Tunisi, Casablanca, Algeri, Orano, e nelle Americhe: New York, Santiago del Cile, Caracas, collaborando spesso con Ambasciate, Consolati, ed Istituti Italiani di Cultura.

E’ autore dei libri :

“Simòn Bolìvar “- Europa e America Latina: suggello della libertà” . Anno 2014

“Rome n’est plus dans Rome”- volume fotografico - entrambi  del Gruppo Editoriale L’Espresso

“Roma: mia madre” (da Trastevere al Flaminio, quasi un secolo di storia romana raccontata da chi l’ha direttamente vissuta). Edizioni Studio 12. Anno 2009

“Roma affatata” Antologia di storie romane sospirate dai versi di Giggi Zanazzo - Edizioni Studio12. Anno 2010

“Giggi Zanazzo : Scappatelle fôri Roma – Strambotti e Canti del Risorgimento” con appendice di vecchie immagini  e  antichi  ricordi dei Castelli e della Campagna Romana.

Con intervento del Presidente della Repubblica Italiana, On. Giorgio Napolitano. Anno 2011

“Roma Patria Omnium”, con “Usi, costumi, credenze, leggende e pregiudizi del popolo di Roma” di Giggi Zanazzo. Con scritti su Roma nel pensiero e nel sentimento di uomini illustri. In appendice, l’album fotografico “Roma de qua e dde llà dar fiume”. Anno 2011

“Benviént Roma”, Benevento, l’Arco di Traiano 114-2014, volume di 500 pag. riccamente illustrato con foto d’epoca, manoscritti e scritti selezionati da testi antichi. Anno 2014

“Ha da passa’ ‘a nuttata”, Eduardo De Filippo (Napoli 24 maggio 1900 - Roma 31 ottobre 1984)

in occasione dei trent’anni dalla sua scomparsa- pensieri, riflessioni, pagine inedite, immagini.

Associazione Culturale Agapanti, volume di 163 pag., 2014.

L Ambasciatore della Repubblica Bolivariana del  Venezuela in Italia Julián Isaías Rodríguez Díaz dichiara di Armando Arpaia

Arpaja è un pittore riconosciuto e come ricordato dal “Premio Capidoglio”…lui esalta e favorisce la cultura e la costruzione della pace, l’uguaglianza e la fratellanza fra i popoli…

Con questa caratteristica di tenerezza e sensibilità, oltre all’orgoglio di essere nato a Roma, è stato in grado di darci un libro documentato che lavora sulla luce e la coscienza, per raccontarci chi è stato Bolivar, com’era Via Nomentana nel 1805 e com’è stata la rinascita dell’ America, che ancora non è finita e il cui destino è,  sempre di più, Bolivar.

Ed ecco certi appunti fondamentali del suo libro “Simòn Bolìvar “- Europa e America Latina: suggello della libertà parlando  ci sottolinea i punti cruciali con Corriere del Sud :

Simòn José Antonio de la Santìsima Trinidad Bolìvar y Palacios, appartenente alla nascente borghesia creola conosciuta storicamente come “Mantuana” - che si muoveva tra la repubblica e la monarchia in una strana simbiosi politico-culturale- e discendente di una ricca famiglia di origine basche stabilitisi nel Venezuela, nacque in quella che era la Capitaneria Generale del Venezuela a Caracas il 24 luglio 1783. Cresciuto nell’ampia hacienda di San Mateo, dove si allevavano enormi mandrie di bestiame, Bolìvar aveva ricevuto un’educazione adeguata al tempo e al luogo. A diciassette anni, si recò a Parigi col marchese di Uztaris, poi in Spagna per completare la propria educazione alla Reale Accademia Militare.

Roma: “vero testis temporum”,”nuntia vetustatis”,”vita memorie”.

“L’esperienza storica di Roma, scenario del giuramento di liberare l’America Spagnola dall’oppressione”.

“Certamente, l’esperienza romana fondamentale per la generazione intorno al 1800 – l’ultima profonda e universale che Roma abbia potuto offrire – è il rapporto con la storia. Un’esperienza preparata dalla tradizione rinascimentale delle litanie letterarie sulla vanitas e dai brividi pittoreschi delle rovine, ma approfondita e generalizzata dalla storiografia dell’illuminismo”.

(E. e J. Garms, Mito e Realtà di Roma nella cultura europea, in Annali della Storia d’Italia, Torino 1982).

Questa esperienza risulterà fondamentale anche per i due Venezuelani, i quali – per una curiosa coincidenza – giungeranno a Roma proprio l’anno in cui verranno scritti i testi che testimoniano nel modo più alto e illuminante quella straordinaria percezione della storia che offre Roma. Queste rappresentazioni letterarie, così fortemente emblematiche, sono opere di autori che Rodrìguez e Bolìvar, non potevano non conoscere bene: Chateaubriand e Wilhelm von Humboldt. (Si tratta delle famose lettere di Chateaubriand a Monsieur de Fontanes e di W. Von Humboldt a Goethe).

Le loro fondamentali considerazioni su Roma e la storia, Roma e il passato, Roma e il futuro, vengono svolte in scritti dalla forma rituale e semiprivata, nei quali il processo storico confluisce generando una ‘comunicazione’ che a sua volta diventa un vero e proprio ‘testo della cultura’; cioè un testo letterario che esprime e rappresenta, in quel determinato momento storico, un ‘modello culturale’. In questo modo la tradizione neoclassica e quella romantica si ricongiungono in una nuova formulazione del ‘mito’ di Roma, tappa culminante del voyage d’Italie.

L’esperienza di vita che suggerisce il rapporto di Roma con la storia è del tutto particolare. Roma “appare fatta per pochi, solo per i migliori” e “quando, finalmente, si mette a parlare a un uomo, egli vi trova il mondo intero”, esclama Humboldt. Nella celebre lettera a Goethe ribadisce i concetti in cui credeva profondamente e che, probabilmente, aveva più volte esposto nelle conversazioni.

“Roma è il luogo nel quale, dal nostro punto di vista, tutta l’antichità si raccoglie e si unifica, e ciò che sentiamo nei poeti antichi, nella struttura degli antichi Stati in Roma crediamo di poterlo osservare direttamente con i nostri occhi; così Roma è il simbolo della caducità delle cose e dell’unità del mondo. Qui per la prima volta, in feconda solitudine, si districano, nitide e calme,le forme del mondo; pensiero e  sensazione si  assottigliano fino alla chiarezza, malinconia e allegrezza trapassano serenamente l’una nell’altra…”

Roma appare come la sintesi emblematica dell’intero excursus della civiltà occidentale a venire: così è per Byron (*) nei versi de ‘Il Pellegrinaggio di Aroldo’ :

O Roma! O patria mia! città dell’alma!/ A te che sei la desolata madre/ D’imperi estinti, gli orfani di core/ Si  rivolgono pensosi….La Niobe dei popoli …. Spogliata / Di manto e serto, senza figli, muta / Ella qui sta, colle avvizzite mani / Sorregge un’urna vòta. Ahimè! La polvere / Sacra che racchiudea, volò dal soffio / Dei secoli dispersa…

Il Giuramento sul Monte Sacrato

La gloria di Roma, l’incomparabile saggezza delle sue leggi civili, rivivono allora, in tutta la loro grandezza, nello spirito del viaggiatore, già tanto bramoso delle letture classiche, come degli autori del XVIII Secolo. Per questo duplice canale l’Antichità e la Rivoluzione entrano insieme nel cervello di Bolìvar ed ivi si saldano in modo tale che non sarà più possibile disgiungere.

Don Simòn Rodrìguez tracciò quindi, un parallelo fra quell’episodio e la situazione dei popoli spagnoli-americani sotto il Re di Spagna, che lui voleva sostituire con un governo repubblicano di patrizi. Un parallelo forse azzardato, ma le parole del maestro colpirono il giovane rendendolo teso e avido di nobili ambizioni.

Il giovane Bolìvar , scrutando  l’orizzonte  alla luce del tramonto, pensò:

“…dunque questo è il popolo di Romolo e di Numa, dei Gracchi e di Orazio, di Augusto e di Nerone, di Cesare e di Bruto, di Tiberio e di Traiano? Qui ogni grandezza trovò il suo modello, ogni miseria la sua culla. Ottaviano si maschera sotto il velo della pietà pubblica per celare la sua indole malfidente e gli istinti sanguinari; Bruto affonda il pugnale nel cuore del suo protettore per sostituire alla tirannia di Cesare la propria; Antonio rinuncia alle mire di gloria per imbarcarsi sulla nave di una meretrice, non pensando né provvedendo ad alcuna riforma; Silla decapita i suoi uomini e Tiberi, fosco come la notte ed efferato come il delitto, trascorre il suo tempo fra piaceri e massacri. Per ogni Cincinnato vi erano almeno cento Caracalla, per ogni Traiano cento Caligola, per ogni Vespasiano cento Claudio. Questo popolo aveva tutto: fermezza nel passato, austerità durante la repubblica; depravazione al tempo degli imperatori; catacombe per i cristiani; coraggio per la conquista del mondo intero; ambizione per soggiogare tutti i popoli della terra; donne che trascinavano carri sacrileghi sul corpo dei padri; oratori capaci di entusiasmare le folle, come Cicerone; poeti come Virgilio, che seducevano i cuori con i loro canti; satirici come Giovenale e Lucrezio; filosofi senza carattere come Seneca e cittadini risoluti come Catone. A questo popolo non mancava nulla salvo il senso dell’umanità. Messaline corrotte, Agrippine senza cuore, grandi storici, famosi naturalisti, guerrieri eroici, proconsoli rapaci, sibariti licenziosi, qualità genuine e crimini infamanti: ma per emancipare lo spirito, per estirpare i pregiudizi, per elevare l’uomo, spronarlo alla lotta e perfezionare l’animo, possedeva ben poco, per non dire nulla. Qui la civiltà, che veniva dall’Oriente, si mostrò in ogni suo aspetto, manifestò tutti i suoi elementi: ma per risolvere il grande problema della libertà umana, sembrerebbe che non conoscessero la materia e che la soluzione di tale profondo problema debba aver luogo proprio nel Nuovo Mondo”.

E rivolto poi a Don Rodrìguz, Simòn Bolìvar dichiarò:

“Giuro davanti a voi, giuro sul Dio dei miei padri, su di loro e sulla patria, giuro sul mio onore, che non darò tregua al braccio né requie all’anima mia, finchè non avrò spezzato le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo!”

Il mito di Roma viene così a sancire il valore del ‘giuramento’ come gesto e come segno caratteristico dell’epoca. Il giuramento viene a rappresentare e a suggellare solennemente, in modo indissolubilmente congiunto, la duplice caratteristica di ogni azione o movimento rivoluzionario: il promesso esercizio di azione di distruzione e di edificazione; di eliminazione del passato e di fondazione dell’avvenire.

Così come la Roma antica aveva portato sul Monte Sacro il giovane Bolìvar a giurare la libertà per il suo popolo dal dominio della Spagna, qualche anno più tardi lo stesso Bolìvar e la guerra del suo popolo per l’indipendenza dell’America latina, saranno motivo di ammirazione  e porteranno il popolo greco a rafforzare la coscienza nazionale contro la dominazione turca.

Nel 1825 Ibrahim pascià, figlio di Mohammed Alì, soffocò prima la rivoluzione a Cassos e a Creta, poi sbarcò nel Peloponneso con un forte spiegamento di truppe. Per due anni, dal 1825 al 1827, Ibrahim portò la devastazione in quel territorio. Conquistata Missolungi (1826), caduta in loro possesso l’Acropoli di Atene, i turchi si resero padroni della Grecia continentale..

“L’esodo” leggendario di Messolongi accese in Europa nuova fiamma di solidarietà per la causa dell’ellenismo (inteso come “l’insieme dei greci”), spingendo ad intervenire personalmente nella lotta, uomini come Byron, che veleggiò verso la Grecia con il suo veliero “Bolìvar”  e morì proprio a Messolonghi o come Annibale De Rossi di Pomarolo conte di Santarosa  che nel 1824, con l’amico Giacinto Provana di Collegno, si recò a combattere per tale indipendenza morendo a Sfacteria il 26 aprile 1825 e che in una lettera al filosofo Victor Cousin scrisse:

“Amico mio, amo la Grecia, patria di Socrate, di un amore che ha in sé qualcosa di sacro. Il popolo greco, valoroso, buono, che è sopravvissuto a secoli di schiavitù, è fratello del mio popolo. Comuni le sorti dell’Italia e di Grecia, e dato che non posso far nulla per la mia patria ho il dovere di dedicare i pochi anni di vigoria che ancora mi restano a questa nobile causa”.

Nel 1944 il poeta Nikos Eggonopuolos riproporrà la figura di Simòn Bolìvar nel suo poema “Bolìvar, un poema greco”, che verrà musicato nel 1967 da Nikos Mamangakis.

Nikos Mamangakis, nato nel 1929 a Rethimno (Creta), frequenta il Conservatorio di Atene e quindi studia composizione con C.Orff e H.Genzmer a Monaco di Baviera, musica elettronica con J.A.Riedl agli studi Siemens, per poi tornare ad Atene, dove oggi vive. E’ stato premiato per la sua attività dal Governo Greco, dalla Hochschule di Monaco e dalla Città di Berlino. Nelle sue opere degli anni 60 e 70 si ispira alla ricerca della scuola di Darmstadt, ma la sua attività viene resa difficile dall’avvento in Grecia del regime militare. E’ un periodo di crisi dal quale l’Autore esce gradualmente, affrontando la composizione di ampie opere teatrali e di musiche per film, tra i quali Felix Krull di Thomas Mann (6 ore di durata), Heimat di E.Reitz (18 ore) e Heimat II (26 ore). Recentemente la sua produzione si è molto allargata nel campo della musica da camera, sinfonica e corale. Mamangakis è considerato tra i “grandi” compositori di origine di origine greca, insieme a Xenakis,Skalkottas e Christou.

In una intervista, Eggonopoulos dichiarò che la stessa influenza che ebbe il suo “Bolìvar” durante l’occupazione tedesca, la ritrovò nei sette anni che durò la dittatura dei colonnelli di Papadopuolos, che terminò con l’occupazione studentesca del Politecnico d’Atene.

All’inizio la giunta affrontò l’occupazione con moderazione ma poi, temendo un diffondersi del movimento di opposizione, nella notte tra il 16 e il 17 novembre 1973, ordinò alla polizia e ai carri armati dell’esercito di fare irruzione nel Politecnico, violando la tradizionale immunità dell’ateneo. Non si conoscono con esattezza le cifre, ma si calcola che siano stati almeno trenta i ragazzi uccisi e molti di più quelli feriti e arrestati. L’insurrezione del Politecnico contribuì ad accelerare la caduta di Papadòpulos. Un colpo di stato era già stato pianificato dal generale di brigata Ioannìdis, il capo dell’odiata polizia militare, che disapprovava i seppur timidi passi intrapresi da Papadòpulos verso la democratizzazione. Dopo la destituzione di Papadòpulos, il potere si concentrò nelle mani dell’aggressivo generale Ioannìdis, il cui tentativo di golpe contro il presidente cipriota, l’arcivescovo Makàrios, nel luglio 1974 provocò di fatto il crollo della giunta e il ritorno alla democrazia in Grecia.

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