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Halévy

Nel gennaio 1929 lo storico francese Élie Halévy (1870-1937), autore di opere significative sull’utilitarismo filosofico e sulla storia dell’Ottocento inglese, venne invitato dall’Universi­tà di Oxford a tenere le Cecil Rodhes Memorial Lectures. I testi del ciclo di conferenze, dedicati alle cause del grande conflitto (1914-1918) iniziato cento anni, fa sono stati pubblicati ora in Italia con il titolo Perché scoppiò la prima guerra mondiale (DellaPorta, Pisa-Cagliari 2014, pp. 120, euro 9,00). L’opera è articolata in tre parti — Verso la rivoluzione (pp. 7-29), Verso la guerra (pp. 31-49) e Guerra e rivoluzione (pp. 51-73) — ed è seguita da un lungo saggio esplicativo dello studioso Marco Bresciani, Élie Halévy e la crisi mondiale del 1914-1918 (pp. 75-120).

Prima ancora di prendere una posizione politica o di offrire un’interpretazione storiografica, Halévy si prefigge il compito di elaborare un nuovo metodo per comprendere le origini e lo svolgimento di quella crisi mondiale, focalizzando la sua attenzione non sulle azioni degli uomini di Stato e neanche sui numerosi incidenti diplomatici, ma sui «sentimenti collettivi», «sui movimenti avvenuti nell’opinione pubblica» (p. 51), che ben prima del 1914 operavano per la guerra e per la rivoluzione: «perché la crisi politica del 1914-1918 non fu soltanto una guerra [...] ma anche una rivoluzione» (pp. 9-10), la rivoluzione bolscevica del 1917. In questo modo egli individua due tipi di forze: il socialismo, che metteva in ogni Paese una classe contro l’altra, e il nazionalismo, che invece cercava di unire tutte le classi all’interno di ogni Paese contro le classi unite di un altro Paese. A giudicare dagli avvenimenti Halévy ritiene che le emozioni nazionali abbiano agito più profondamente dei propositi internazionali e rivoluzionari. In una conferenza del 1936 riconobbe, inoltre, che l’economia di guerra introdotta dalle potenze belligeranti avrebbe portato a una generale «statalizzazione» delle società che avrebbe mutato la struttura stessa dello Stato moderno.

Lo storico francese porta quindi la sua attenzione fuori dall’Europa e muove dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905 e dalla conseguente rivoluzione nell’impero zarista, che provocarono una generale destabilizzazione dell’immensa area giacente fra il Pacifico e l’Impero Ottomano: «La guerra si estese da est a ovest; fu l’Oriente che la impose all’Occidente» (p. 38). La crisi terminale degli Ottomani gettò i Balcani in uno stato di agitazione cronica, che propagò l’agitazione nazionalista all’interno dell’Impero austro-ungarico, mettendone in pericolo la stessa sopravvivenza; la scelta degli Asburgo di reagire a questa minaccia radicale, sostenuti dall’Impero Germanico, mise in moto un meccanismo di alleanze, divenuto presto inarrestabile, che condusse in breve alla Grande Guerra.

Halévy distingue due fasi del conflitto, la prima — fino al 1917 — quando gli Imperi Centrali andarono più volte vicino alla vittoria, e la seconda a partire dalla Rivoluzione Russa, che inizialmente illuse gli austro-tedeschi e i loro alleati ma si rivelò poi un boomerang, perché contribuì a determinare l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America: questi, infatti, avevano bisogno di una causa disinteressata per giustificare l’intervento, cui la maggior parte della popolazione era contraria, e «grazie alla caduta dello zarismo, la guerra poteva adesso essere proclamata in nome del programma democratico» (p. 65) proclamato dal presidente statunitense Woodrow Wilson.

Ne trasse beneficio lo schieramento anglo-francese, che poté infine trionfare, ma non la pace, impregnata d’ideologia e di utopia, che produsse un mondo instabile, scosso dalla competizione di vecchie e nuove realtà statuali e attraversato da passioni nazionaliste: «una guerra rivoluzionaria» — conclude Halévy — non poteva «concludersi altrimenti che con un trattato rivoluzionario» (p. 67).

napoli capitale

Proseguendo nella presentazione dell’ottimo volume della Valensise, “Il sole sorge a Sud”, il territorio pugliese viene valutato come un“un lembo del Sud che in realtà è il Nord del Sud”. Qui è quasi tutto diverso dal resto del Meridione, a cominciare, dal passato, dalla tradizione, “l’antico non è, come in Calabria, una condanna dalla quale rifuggire, un fardello dal quale emanciparsi in una spericolata corsa verso il nuovo (…)”. Qui in Puglia, il passato, secondo la giornalista de Il Foglio,“non è un retaggio da coltivare con scetticismo velato di ironia, come succede in Sicilia (…)”. Invece in Puglia, “il passato è una materia viva, risorsa, alimento e passione, sangue, terra, dolore e ricompensa. E soprattutto progetto”. Addirittura i pugliesi sono riusciti a rivalutare la pizzica, il morso della tarantola”. Da quindici anni a questa parte è diventata un fenomeno di costume. “Si è trasformata in un grande evento popolare che ogni anno riunisce nelle piazze del Salento decine di migliaia di persone, giovani, meno giovani,(…) disposti a ballare per ore e ore, davanti al palco dei concerti itineranti nei comuni della Grecia, al suono di musiche popolari, di tarantelle storiche”.

La taranta è diventata un’industria del turismo, in grado di attrarre ogni estate trecentomila persone itineranti da una piazza all’altra della Grecia salentina. In questi territori perfino l’arrivo degli albanesi ha contribuito a modificare il proprio modo di pensare. “Dovevamo giocarci una nuova partita, - ha detto il sindaco di Melpignano - rispondendo da protagonisti, in modo autonomo, senza imitare il Nord, ma provando a essere noi stessi.” E’ questo il miracolo postmoderno del Salento, tra barocco e taranta. In fondo al Salento si arriva a Otranto e qui la Valensise, apre l’abituale pagina di storia, descrivel’assedio ottomano di Maometto II nell’estate del 1480, con ben duecento navi. Mentre i notabili scappavano, il popolo otrantinoresistette,finché i turchi aprirono una breccia e entrarono nella cittadella, trucidando tutti, e sgozzando l’arcivescovo Stefano. Successivamente ottocento uomini, fatti prigionieri, invitati a rinnegare la fede cristiana, guidati da un sarto di professione, un certo Antonio Primaldo, scelsero la gloria del martirio. Furono tutti decapitati sul colle della Minerva a uno a uno dal boia ottomano. La leggenda vuole che il vecchio Primaldo, decapitato, si rialzasse in piedi e rimanesse immobile con la testa sgozzata. Ora troviamo le loro teste nelle teche di vetro dietro l’altare della cattedrale di Otranto. Gli ottocento sono stati beatificati da papa Wojtyla, mentre l’anno scorso papa Benedetto XVI, qualche giorno prima del suo addio al pontificato, li ha canonizzati.

Per questo straordinario episodio si registra poco orgoglio da parte dei pugliesi, soltanto Alfredo Mantovano, ex sottosegretario agli interni, cattolico militante di Alleanza Cattolica, li ricorda paragonandoli ai martiri cristiani di oggi trucidati in Iraq dal fondamentalismo islamico. “Solo lui legge quest’episodio di resistenza di un’intera città alla proposta di abiura come la prova estrema della difesa dell’Occidente, avvenuta nella scettica Italia del Rinascimento, a dispetto degli interessi degli stati contrapposti l’uno all’altro in una guerra di predominio continua(…). In un certo senso il disinteresse di allora è simile a quello di oggi.

Per quanto riguarda l’economia, il testo della Valensise racconta esperienze di uomini e donne che hanno fatto impresa in questi territori, che hanno scommesso in un territorio molto diverso da quello lucano o calabrese, qui è “tutto dolce, lieve e mitigato e la stessa violenza sembra assumere tratti stemperati”.

Inizia con il regista barone Edoardo Winspeare, convinto che la Puglia non ha bisogno di lamentarsi, come avviene in altre regioni del Sud. La Puglia potrebbe essere rappresentata come un popolo di formiche, come la “Masseria Carestia”, vicino Ostuni. Un fortilizio guidato dai Massari, dove si produce di tutto con procedimenti all’avanguardia, che la giornalista de Il Foglio, descrive abilmente. Ogni giorno da Carestia, escono migliaia di confezioni di peperoni, zucchine, pomodori e carote, verdure per tutto l’Italia e per l’Europa. Mentre in un piccolo centro vicino Taranto, a Crispiano, c’è il miracolo di Michele Vinci con la sua Masmec, un’azienda leader nel settore dell’automazione industriale, con clienti finali le grandi imprese automobilistiche come la Bmw, Mercedes Benz, Porsche, Wolkswagen, Fiat.

Per comprendere meglio l’antropologia pugliese, e la rivoluzione mentale in atto, la Valensise fa un paragone stuzzicante e divertente, tra due uomini dello spettacolo abbastanza conosciuti: Checco Zalone , l’ultima maschera della commedia dell’arte e del teatro barese e Lino Banfi, il “terrone provolone”, un erotomane pieno dicomplessi.

Prima di arrivare a Taranto, a Martina Franca, troviamo Mario Desiati, un giovane scrittore, che riesce a raccontare la provincia italiana e soprattutto la difesa dei trulli, quei muretti a secco, che nessun pugliese sa più costruire. Si arriva a Taranto, la città dei due mari, ricca di storia, è una delle città più mitologiche d’Europa. “Qui ogni pietra trasuda la storia della civiltà”. Basta scavare un po’ e la terra restituisce tesori sepolti da millenni. Purtroppo negli anni ci sono stati quelli che l’hanno fatto indisturbati, trafugando ogni ben di Dio. La Valensise evidenzia il ruolo della città come apertura ad altri popoli, “appare ancora oggi come un’antica metropoli cosmopolita, un crogiolo di razze, lingue, costumi”. Taranto è la città di Giovanni Paisiello, il grande musicista dell’inno borbonico, ma è anche la città dell’Ilva ex Italsider, con i suoi fumi rossi e la polvere color ruggine che ora sta distruggendo l’ambiente. E qui Valensise, si ferma sulla sciagurata politica della grande industria pesante, in particolare fomentata negli anni 70’dalla sinistra, che “sognava di cambiare il volto dell’antropologia meridionale, di riscattare il bracciante, di creare, grazie alle ciminiere industriali, l’uomo nuovo per liberarlo dalla servitù della terra”.

Dopo Taranto il viaggio contromano della Valensise arriva nella “Terra laboris”, nel Sannio a Benevento, una città simile alla Svizzera, pulita, ordinata, accogliente. Qui si respira un’altra aria, niente indolenza o strafottenza.

Benevento è la città della “Strega”, il liquore, forse più famoso in Italia. Altra azienda interessante è l’olio di Montesarchio, uno dei più grandi complessi agroindustriali del mondo. “Oggi è considerato un caso di studio in fatto di gestione industriale e crescita produttiva, per aver raggiunto un fatturato che ha moltiplicato per dieci i 20 milioni di finanziamenti pubblici a fondo perduto(….)”.

Prima di arrivare a Napoli, si passa nella costa sorrentina, dove tra ristoranti rinomati e bellezze naturali, capisci che qui è un mondo a parte. Eccoci finalmente a Napoli, città, capitale del grande Regno Borbonico, che ha stregato visitatori illustri a cominciare da Goethe che la considerava la più bella metropoli del Mediterraneo, la più grande città marittima dell’Europa. L’illustre ospite rimaneva talmente estasiato del popolo napoletano che poteva affermare:“Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria”. Ancora una volta Valensise polemizza con la storia ufficiale dei vincitori, Napoli, forse era l’unica capitale d’Italia, dopo l’unità diventa soltanto una semplice prefetturadel neonato Regno d’Italia. A questo punto il testo riafferma quello che ormai per la verità ammettono in tanti, tranne qualche “residuato bellico” ultraliberale risorgimentista: il Regno delle due Sicilie era “l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria, con una rendita pubblica fra le più alte d’Europa, quotata alla borsa di Parigi al 105-106 per cento del suo valore nominale, mentre la piemontese, con lo stesso valore demaniale, stentava a tenersi sul 70 per cento”. Certo la vera Storia va studiata tutta, senza però “rancori retroattivi”, che diano sfogo a rivendicazioni e nostalgie fuori luogo. Chiudo con il riferimento al “Modello Sanità”, il quartiere difficile di Napoli dove don Antonio Loffredo insieme a tanti giovani è riuscito a fare grandi cose. Ho già presentato la straordinaria esperienza del prete napoletano. Ribadisco Penso che queste esperienze positive, dovrebbero essere conosciute meglio per incoraggiare tutti a lavorare senza lamentarsi o piangersi addosso.

 

 

sulle orme di goethe

Effettivamente leggendo lo straordinario libro di Marina Valensise, “Il sole sorge a Sud” (Marsilio 2012) sembra di riscoprire il nostro Meridione in tutti i suoi aspetti, dagli innumerevoli paesaggi alla ricca Storia, dalla cultura alla fede. La Valensisedescrive e racconta talmente bene quello che ha visto che invece della penna sembra di utilizzare il pennello del pittore. Un testo così straordinario nel suo genere, credo di non averlo mai letto. Non vorrei esagerare ma sembradi avere in mano una specie di summa, una veloce sintesi (anche se si tratta di ben 363 pagine) per conoscere il Sud in tutti i suoi aspetti. E chissà se non potrebbe essere utilizzato nelle nostre scuole magari del Sud per stimolare i nostri studenti allo studio della propria storia, e per una maggiore autocritica sulle tante cose che non vanno.

Continuando il viaggio della giornalista , attraverso l’inverno della Basilicata e delle Puglie, il “Nord” del Sud.

Risalendo la Ionica si arriva alla Piana di Metaponto, nella Lucania, che sembra la California.Valensise si intrattiene su le due città simbolo della regione: Matera e Potenza. Matera con i suoi Sassisembra un inferno dantesco che Togliatti bollò come “una vergogna nazionale”. Effettivamente gli abitanti dei Sassi vivevano come bestie, peraltro con le bestie, in uno stato di arretratezza offensiva per la dignità dell’uomo, e di promiscuità insopportabile. Fu De Gasperi con un’apposita legge nel 1952 a far uscire 15 mila materani che ancora vivevano nei Sassi e a deportarli nelle case popolari. “Oggi i Sassi, dichiarati nel 1993 dall’Unesco patrimonio dell’umanità, sono l’ultima frontiera del lusso e del glamour, la meta chic più esclusiva del turismo internazionale di lusso”. Dietro all’incredibile metamorfosi dei Sassi di Matera, Valensise scopre la regia di un intellettuale, un uomo di cultura, l’avvocato De Ruggieri, che ha creduto nel miracolo di rivalutare il territorio dei Sassi. Secondo lo studioso Matera è la città viva più antica del mondo, ininterrottamente abitata da dodicimila anni. Ultima curiosità che può trasformarsi invergogna per Matera: c’è la stazione ferroviaria, ma il treno non è arrivato mai. Il paradosso è che qui per anni hanno prodotto le carrozze per l’Etr500, i treni ad alta velocità, carri merci, addirittura i carri navetta per il tunnel della Manica.

Anche per la Basilicata, Valensise apre delle parentesi storiche a cominciare dell’epico viaggio del capo del governo liberale Zanardelli, bresciano, nel 1902,“il settentrionale più meridionale d’Italia”. Nei paesi della Lucania ha potuto vedere con i propri occhi “il lavoro” sporco che qualche decennio prima hanno fatto i suoi compagni mettendo a ferro e a fuoco quei territori per sgominare il cosiddetto brigantaggio. Praticamente l’emigrazione della popolazione lucana aveva decimato interi paesi. Se non emigravi non mangiavi, questo è il risultato della “liberazione” dei popoli meridionali soggiogati dai biechi borboni.

A proposito del brigantaggio, a Rionero, nella patria di Carmine Crocco, c’è il museo del Brigantaggio. “Il brigantaggio fu l’unico momento in cui i contadini furono protagonisti”, scriveva Carlo Levi. E ogni anno il Comune di Rionero dedica una giornata intera al mito del “Generale” Crocco, con passeggiate nei boschi, letture di poesie, filmati, mostre d’arte. E a proposito di celebrazioni storiche, la Valensise riporta nel libro, la grande manifestazione teatrale che si svolge in ogni estatepresso il “bosco della Grancia”, a pochi chilometri da Potenza. Qui si assiste a un cinespettacolo dal vivo, fra boschi secolari, castelli diroccati, dirupi sinistri. Ben quattrocento figuranti volontari, intere famiglie in abiti d’epoca, da luglio a settembre, mettono in scena la vita quotidiana ai tempi dell’insorgenza antinapoleonica e antipiemontese per raccontare “la Storia bandita”, cioè quella storia dei briganti e del brigantaggio. L’ideatore del progetto è Giampiero Perri, convinto di riscattare il passato: “Noi meridionali, nei libri di scuola, è come se prima del 1860 fossimo stati privi di uno stato. E invece facevamo parte di un regno che aveva una dimensione statuale e un progetto di sviluppo per il Mezzogiorno, fondato sull’incremento delle vie del mare, sul potenziamento della marina mercantile, sulle industrie portuali. La conquista piemontese per noi meridionali segnò una frattura: significò smantellare i porti, trasferire i cantieri, fermare impianti storici come le ferriere di Mongiana(…) Continua Perri, “è un errore non ripensare quel trauma storico che per il Sud fu il Risorgimento(…). Lo spettacolo della Grancia ha lo scopo anche di purificare la memoria. Perri ci tiene a precisare che loro non intendono fare “un’operazione di nostalgia, ma il tentativo di ritrovare l’antica dignità. E glielo dice uno che considera l’Unità d’Italia un punto di non ritorno(…)”.

La Valensise ricorda “La Conquista del Sud”, raccontata dall’indimenticabile Carlo Alianello, nei suoi romanzi sull’annessione forzosa del Regno delle Due Sicilie al Regno Sardo, che io adolescente, ho avuto la fortuna di leggerenel lontano 1972.

Ma continuiamo il viaggio, si passa a Potenza, l’illuminista giacobina, da contrapporre alla Matera borbonica. Pare che sia stata una delle prime città italiane ad alzare il vessillo tricolore. Potenza è una città moderna che per controbilanciare Matera, che ogni anno allestisce nei Sassi, un presepe vivente con 700 figuranti volontari e 40 animali selezionati, ha deciso di lanciare una grande mostra di presepi.

Devo correre, passo al Salento, pieno di Storia, con il suo Barocco e soprattutto la Taranta, di recente scoperta.

In Puglia, ci sono diverse Puglie. La regione appare come una sterminata distesa pianeggiante dove si coltiva grano, la vite, l’ulivo. Nel Gargano, scrive la Valensise non piove mai, previsioni smentite proprio in questi giorni dopo il disastro della tanta pioggia. Si parte da Lecce l’armoniosa, come la chiamava Tommaso Fiore, è la città più seicentesca d’Italia, che ha conservato intatto il suo splendore, “tanto che appare al visitatore come una fantasiosa selva di pietra intagliata: putti, puttini, draghi, scimmie, aquile, grifoni e caproni, stemmi, leoni e cariatidi, statue e statuette (…)”e tanto altro. Girando per le strade della città “è tutto un teatrino barocco”. I grandi viaggiatori, come l’archeologo Winckelmann, ne rimase rapito: “Lecce, è dopo Napoli, la più bella e la più grande città del Reame”. Dal 2001 il barocco è diventato il brand, il marchio di fabbrica con cui rilanciare l’immagine della città nel mondo. Anche qui si apre una parentesi storica sull’avvocato Liborio Romano, il “traditore” dell’ultimo re del Regno Duo Siciliano, Francesco II, che per scongiurare il peggio, cioè violenze e spargimenti di sangue, chiamò i camorristi a governare la città di Napoli, prima che arrivasse Garibaldi. Mentre Francesco II combatteva, finalmente, la sua battaglia a Gaeta insieme alla giovane regina Maria Sofia. A questo proposito la Valensise cita il giornalista napoletano, del “Mattino”, Gigi Di Fiore, autore di la “Controstoria dell’Unità d’Italia”, un altro testo che racconta la vera storia che mise fine a sette secoli di storia del regno del Sud. Ritornando al viaggio, dopo Lecce sulla strada per Otranto, si fa tappa a Sternatia, una degli undici paesi della Grecia salentina, dove ancora si parla grico, un dialetto atavico. Qui si balla in piazza per la Notte della Taranta, festival itinerante che dal 1998 riunisce nel Salento migliaia di persone per ballare la pizzica, una musica popolare, con tamburelli e fisarmoniche.

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