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Don Milani e Papa Francesco

La copertina del saggio

La storia della Chiesa italiana del Novecento, in tutta la sua notevole complessità, è ancora in gran parte da scrivere ma chiunque vi si accingerà seriamente - prima o poi - non potrà non fare i conti con la carismatica e parimenti discussa figura di don Lorenzo Milani (1923-1967), il prete fiorentino diventato celebre a Barbiana per il suo impegno apostolico e sociale, per più di un verso totalmente anticonformista rispetto ai canoni dominanti del tempo della pastorale ecclesiale, e infine passato alle cronache come maestro di ribellione (sull'onda dell'equivoco titolo di una sua opera pubblicata postuma, L'obbedienza non è più una virtù (1967)) e addirittura ispiratore e 'guida morale' della Contestazione esplosa con le rivolte di piazza e le occupazioni universitarie del 1968. A lui il giornalista Giuseppe Brienza ha dedicato un vivace e documentato ritratto, ora in uscita per le edizioni Cantagalli di Siena (cfr. G. BRIENZA, Don Milani e Papa Francesco. L'attrazione della testimonianza, Cantagalli, Siena 2014, Pp. 144, Euro 10,00), che tuttavia scalfisce parecchi luoghi comuni che ancora oggi si rinvengono (soprattutto sui mass-media, ma non solo) attorno alla figura di don Milani. Il saggio di Brienza, prefato dall'Arcivescovo di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi, ri-contestualizzando debitamente l'operato del sacerdote fiorentino nella realtà sociale della Toscana degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso offre inoltre uno spunto di riflessione in più e assolutamente inedito: accosta, cioè, la predicazione e gli scritti milaniani a quelli di Papa Francesco (prima Arcivescovo a Buenos Aires), mostrandone – testi alla mano – una originale comunanza di motivi e contenuti. Annota infatti Crepaldi che entrambi hanno affrontato ripetutamente “i temi dell'evangelizzazione e del proselitismo, della burocratizzazione del prete e della pastorale, dell'urgenza della missione che però rimane spesso intrappolata in forme di neopaganesimo, del fecondo rapporto tra la pastorale e la scuola su cui tutti e due hanno ampiamente investito, del giudizio sulla politica e sul rapporto della religione cattolica con il potere, fino all'argomento della povertà e del rapporto dei sacerdoti e dei cristiani in genere con i beni materiali” (pag. 8) come si può constatare dai numerosi passaggi che l'Autore trae da Esperienze Pastorali (1958), l'opera in cui di fatto il sacerdote fiorentino condensò tutta la sua riflessione di taglio sociologico e che già quando uscì colpì per la profondità lo scrittore Ignazio Silone (1900-1978). Qui don Milani stende un'analisi severa, e alquanto impietosa, della religiosità cristiana come si presentava già allora nella pieve di San Donato di Calenzano (dove svolse il suo primo periodo di ministero sacerdotale dopo l'ordinazione) in cui – di fatto – un popolo cristiano non c'era più. Restava sì la partecipazione della comunità pressochè al gran completo nelle grandi feste ma il Vangelo non animava più da tempo né la mentalità né i comportamenti di coloro che pure continuavano a dirsi credenti: era insomma quella ormai da considerare una terra di missione. Per questo bisognava cambiare l'intera impostazione dell'atteggiamento complessivo della Chiesa rispetto alle necessità della società (da passivo a propositivo), compreso quello degli stessi sacerdoti che talora pur di guadagnare il consenso più ampio possibile della comunità in cui si trovaano evitavano ogni occasione di scontro o al massimo se la cavavano con qualche predica senza convinzione ma, replicava don Milani, “con le parole alla gente non gli si fa nulla. Sul piano divino ci vuole la Grazia e sul piano umano ci vuole l'esempio” (pag. 82), lo stesso di cui – ecco un esempio di comparazione significativo – ha parlato Papa Francesco ad Assisi nell'ottobre 2013 quando osservava che “la Chiesa cresce, ma non è per fare proselitismo: no, no! La Chiesa non cresce per proselitismo. La Chiesa cresce per attrazione, l'attrazione della testimonianza che ognuno di noi dà al Popolo di Dio” (pag. 16).

E non è, come accennato, l'unico elemento di contiguità perchè Brienza mette in luce come – ugualmente a don Milani, ritratto al suo tempo alla stregua di un marxista, ancorchè chi lo abbia conosciuto davvero abbia maturato ben altre convinzioni, ad esempio il seguitissimo direttore di Radio Maria, padre Livio Fanzaga (cfr. pag. 124) – anche nel caso del Papa diversi gesti e prese di posizioni sono stati strumentalizzati da una propaganda di parte montata ad arte per farne una sorta di paladino della teologia della liberazione. In realtà, osserva l'Autore, tenendo presente il contesto di riferimento latino-americano di provenienza del Pontefice in questo caso bisognerebbe semmai parlare di una Teologia del popolo che poi “non é altro che l'espressione, nell'attuale società globalizzata, di quella 'Chiesa dei poveri' la cui dizione, in senso stretto, proviene dallo stesso Concilio Vaticano II. Va quindi chiaramente affermato che, la Teologia del popolo, differisce sostanzialmente dal liberazionismo post- o neo-marxista e dalle sue intrinseche criticità e deviazioni dottrinali, perché trova appunto le sue premesse nello stesso Magistero della Chiesa, a cominciare dall'insegnamento del Beato Giovanni XXIII” (pag. 95). E ancora la centralità dell'educazione come valore sociale e la passione per una scuola cristianamente ispirata (il motto della scuola popolare di don Milani, “I care”, tra l'altro, è stato ripreso come titolo per l'incontro tra Papa Francesco e il mondo della scuola nel maggio 2014 in San Pietro), la critica al primato effimero delle mode e al pensiero unico che tutto omologa e annulla le differenze, la particolare vicinanza ai bisogni e alle necessità degli ultimi sia dentro che fuori la comunità cristiana sono tutti temi che avvicinano in modo singolare, pur ad anni di distanza e senza essersi mai conosciuti, Milani e Bergoglio. In conclusione, poi, l'Autore ripercorre anche le vicissitudini dei controversi scritti del sacerdote fiorentino all'interno della Chiesa (per taluni troppo polemici e di rottura, per altri viceversa segno di uno genuino zelo missionario mutuato dal Vangelo sine glossa), soprattutto in relazione agli interventi de “La Civiltà Cattolica”, la più autorevole rivista dei Gesuiti, che prima sottopose Esperienze Pastorali a pesanti critiche (1958, lo stesso anno in cui il Sant'Uffizio ne ordinò il ritiro dal commercio giudicandone inopportuna la lettura) e poi lo riabiliterà (1970), senza dimenticare le analoghe, e pure altamente significative, prese di posizione de “L'Osservatore Romano” (cfr. pagg. 113-16), il quotidiano della Santa Sede, degli anni Settanta. Da ultimo, a testimonianza che come recita il vecchio adagio il tempo è sempre galantuomo l'anno scorso, dopo una lunga attesa coltivata da tanti tra i suoi numerosi estimatori e discepoli, è giunta infine la formale dichiarazione ufficiale di decadenza del decreto del Sant'Uffizio e anzi un elogio pubblico come mai si era avuto prima al sacerdote del fiorentino da parte proprio di Papa Francesco che nell'incontro del 10 maggio con il mondo della scuola così si è espresso: “Nei primi anni si impara a 360 gradi, poi piano piano si approfondisce un indirizzo e infine si ci specializza. Ma se uno ha imparato ad imparare - e questo è il segreto, imparare ad imparare! - , questo gli rimane per sempre, rimane una persona aperta alla realtà! Questo lo insegnava anche un grande educatore italiano, che era un prete: Don Lorenzo Milani. E sapete cosa vi dico? Che gli insegnanti sono i primi che devono rimanere aperti alla realtà” (pag. 119). Un pronunciamento destinato obiettivamente a rimanere nella storia e che apre una nuova pagina imprevista in questa che resta una delle vicende più affascinanti e controverse nell'epoca recente della comunità cristiana nel nostro Paese.

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