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Dalle Puglie, il “nord” del sud, alla capitale del regno delle due Sicilie

napoli capitale

Proseguendo nella presentazione dell’ottimo volume della Valensise, “Il sole sorge a Sud”, il territorio pugliese viene valutato come un“un lembo del Sud che in realtà è il Nord del Sud”. Qui è quasi tutto diverso dal resto del Meridione, a cominciare, dal passato, dalla tradizione, “l’antico non è, come in Calabria, una condanna dalla quale rifuggire, un fardello dal quale emanciparsi in una spericolata corsa verso il nuovo (…)”. Qui in Puglia, il passato, secondo la giornalista de Il Foglio,“non è un retaggio da coltivare con scetticismo velato di ironia, come succede in Sicilia (…)”. Invece in Puglia, “il passato è una materia viva, risorsa, alimento e passione, sangue, terra, dolore e ricompensa. E soprattutto progetto”. Addirittura i pugliesi sono riusciti a rivalutare la pizzica, il morso della tarantola”. Da quindici anni a questa parte è diventata un fenomeno di costume. “Si è trasformata in un grande evento popolare che ogni anno riunisce nelle piazze del Salento decine di migliaia di persone, giovani, meno giovani,(…) disposti a ballare per ore e ore, davanti al palco dei concerti itineranti nei comuni della Grecia, al suono di musiche popolari, di tarantelle storiche”.

La taranta è diventata un’industria del turismo, in grado di attrarre ogni estate trecentomila persone itineranti da una piazza all’altra della Grecia salentina. In questi territori perfino l’arrivo degli albanesi ha contribuito a modificare il proprio modo di pensare. “Dovevamo giocarci una nuova partita, - ha detto il sindaco di Melpignano - rispondendo da protagonisti, in modo autonomo, senza imitare il Nord, ma provando a essere noi stessi.” E’ questo il miracolo postmoderno del Salento, tra barocco e taranta. In fondo al Salento si arriva a Otranto e qui la Valensise, apre l’abituale pagina di storia, descrivel’assedio ottomano di Maometto II nell’estate del 1480, con ben duecento navi. Mentre i notabili scappavano, il popolo otrantinoresistette,finché i turchi aprirono una breccia e entrarono nella cittadella, trucidando tutti, e sgozzando l’arcivescovo Stefano. Successivamente ottocento uomini, fatti prigionieri, invitati a rinnegare la fede cristiana, guidati da un sarto di professione, un certo Antonio Primaldo, scelsero la gloria del martirio. Furono tutti decapitati sul colle della Minerva a uno a uno dal boia ottomano. La leggenda vuole che il vecchio Primaldo, decapitato, si rialzasse in piedi e rimanesse immobile con la testa sgozzata. Ora troviamo le loro teste nelle teche di vetro dietro l’altare della cattedrale di Otranto. Gli ottocento sono stati beatificati da papa Wojtyla, mentre l’anno scorso papa Benedetto XVI, qualche giorno prima del suo addio al pontificato, li ha canonizzati.

Per questo straordinario episodio si registra poco orgoglio da parte dei pugliesi, soltanto Alfredo Mantovano, ex sottosegretario agli interni, cattolico militante di Alleanza Cattolica, li ricorda paragonandoli ai martiri cristiani di oggi trucidati in Iraq dal fondamentalismo islamico. “Solo lui legge quest’episodio di resistenza di un’intera città alla proposta di abiura come la prova estrema della difesa dell’Occidente, avvenuta nella scettica Italia del Rinascimento, a dispetto degli interessi degli stati contrapposti l’uno all’altro in una guerra di predominio continua(…). In un certo senso il disinteresse di allora è simile a quello di oggi.

Per quanto riguarda l’economia, il testo della Valensise racconta esperienze di uomini e donne che hanno fatto impresa in questi territori, che hanno scommesso in un territorio molto diverso da quello lucano o calabrese, qui è “tutto dolce, lieve e mitigato e la stessa violenza sembra assumere tratti stemperati”.

Inizia con il regista barone Edoardo Winspeare, convinto che la Puglia non ha bisogno di lamentarsi, come avviene in altre regioni del Sud. La Puglia potrebbe essere rappresentata come un popolo di formiche, come la “Masseria Carestia”, vicino Ostuni. Un fortilizio guidato dai Massari, dove si produce di tutto con procedimenti all’avanguardia, che la giornalista de Il Foglio, descrive abilmente. Ogni giorno da Carestia, escono migliaia di confezioni di peperoni, zucchine, pomodori e carote, verdure per tutto l’Italia e per l’Europa. Mentre in un piccolo centro vicino Taranto, a Crispiano, c’è il miracolo di Michele Vinci con la sua Masmec, un’azienda leader nel settore dell’automazione industriale, con clienti finali le grandi imprese automobilistiche come la Bmw, Mercedes Benz, Porsche, Wolkswagen, Fiat.

Per comprendere meglio l’antropologia pugliese, e la rivoluzione mentale in atto, la Valensise fa un paragone stuzzicante e divertente, tra due uomini dello spettacolo abbastanza conosciuti: Checco Zalone , l’ultima maschera della commedia dell’arte e del teatro barese e Lino Banfi, il “terrone provolone”, un erotomane pieno dicomplessi.

Prima di arrivare a Taranto, a Martina Franca, troviamo Mario Desiati, un giovane scrittore, che riesce a raccontare la provincia italiana e soprattutto la difesa dei trulli, quei muretti a secco, che nessun pugliese sa più costruire. Si arriva a Taranto, la città dei due mari, ricca di storia, è una delle città più mitologiche d’Europa. “Qui ogni pietra trasuda la storia della civiltà”. Basta scavare un po’ e la terra restituisce tesori sepolti da millenni. Purtroppo negli anni ci sono stati quelli che l’hanno fatto indisturbati, trafugando ogni ben di Dio. La Valensise evidenzia il ruolo della città come apertura ad altri popoli, “appare ancora oggi come un’antica metropoli cosmopolita, un crogiolo di razze, lingue, costumi”. Taranto è la città di Giovanni Paisiello, il grande musicista dell’inno borbonico, ma è anche la città dell’Ilva ex Italsider, con i suoi fumi rossi e la polvere color ruggine che ora sta distruggendo l’ambiente. E qui Valensise, si ferma sulla sciagurata politica della grande industria pesante, in particolare fomentata negli anni 70’dalla sinistra, che “sognava di cambiare il volto dell’antropologia meridionale, di riscattare il bracciante, di creare, grazie alle ciminiere industriali, l’uomo nuovo per liberarlo dalla servitù della terra”.

Dopo Taranto il viaggio contromano della Valensise arriva nella “Terra laboris”, nel Sannio a Benevento, una città simile alla Svizzera, pulita, ordinata, accogliente. Qui si respira un’altra aria, niente indolenza o strafottenza.

Benevento è la città della “Strega”, il liquore, forse più famoso in Italia. Altra azienda interessante è l’olio di Montesarchio, uno dei più grandi complessi agroindustriali del mondo. “Oggi è considerato un caso di studio in fatto di gestione industriale e crescita produttiva, per aver raggiunto un fatturato che ha moltiplicato per dieci i 20 milioni di finanziamenti pubblici a fondo perduto(….)”.

Prima di arrivare a Napoli, si passa nella costa sorrentina, dove tra ristoranti rinomati e bellezze naturali, capisci che qui è un mondo a parte. Eccoci finalmente a Napoli, città, capitale del grande Regno Borbonico, che ha stregato visitatori illustri a cominciare da Goethe che la considerava la più bella metropoli del Mediterraneo, la più grande città marittima dell’Europa. L’illustre ospite rimaneva talmente estasiato del popolo napoletano che poteva affermare:“Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria”. Ancora una volta Valensise polemizza con la storia ufficiale dei vincitori, Napoli, forse era l’unica capitale d’Italia, dopo l’unità diventa soltanto una semplice prefetturadel neonato Regno d’Italia. A questo punto il testo riafferma quello che ormai per la verità ammettono in tanti, tranne qualche “residuato bellico” ultraliberale risorgimentista: il Regno delle due Sicilie era “l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria, con una rendita pubblica fra le più alte d’Europa, quotata alla borsa di Parigi al 105-106 per cento del suo valore nominale, mentre la piemontese, con lo stesso valore demaniale, stentava a tenersi sul 70 per cento”. Certo la vera Storia va studiata tutta, senza però “rancori retroattivi”, che diano sfogo a rivendicazioni e nostalgie fuori luogo. Chiudo con il riferimento al “Modello Sanità”, il quartiere difficile di Napoli dove don Antonio Loffredo insieme a tanti giovani è riuscito a fare grandi cose. Ho già presentato la straordinaria esperienza del prete napoletano. Ribadisco Penso che queste esperienze positive, dovrebbero essere conosciute meglio per incoraggiare tutti a lavorare senza lamentarsi o piangersi addosso.

 

 

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