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Secondo uno studio dell’UE prosegue declino generale della democrazia in Europa, soprattutto nei Paesi dell’est. “L’Europa ha un concetto strano di analisi della democrazia. Ritengono antidemocratica la Polonia perché a scuola fa educazione sessuale. L’UE non è un arbitro attendibile nelle sue analisi”.

Sul MES ricordate la Grecia : Il potere del MES è enorme e ha ucciso la democrazia in Europa. Il referendum greco del 2015 in grecia ha fatto capire il potere autoreferenziale è possibile e non si può mettere in discussione.


Le prerogative e le immunità autoreferenziali del MES ne fanno un sovrano assoluto sull’Europa. Poco importa che sia un “direttorio” e non una persona fisica. I suoi funzionari e il suo vertice sono la crema d’una nuova nobiltà al di sotto della quale, a vari gradi di lignaggio si collocano, le rimanenti frazioni della corte, coi burocrati della commissione e degli organismi UE. La Nomenklatura sovietica, al confronto, fu una confraternita di penitenti.


Aveva vince il No ad Atene no al Euro no alla austerita no al UE, ma la Grecia e stata messa in ginocchio. Non le e stata risparmiata alcuna misura che possa farle rimpiangere i bei tempi – si fa per dire – della sua appartenenza all’Unione.
Il combinato disposto di Commissione UE, Troika e MES può mettere in ginocchio qualunque paese UE, eccetto – chissà perché – la Germania e la Gran Bretagna.

Cosi “Pare che Conte abbia firmato un accordo per cambiare il fondo salva-Stati, di notte, di nascosto, un fondo ‘ammazza-Stati’, i giornalisti chiedano a Conte e Tria, se, senza l’autorizzazione del Parlamento, hanno dato l’okay dell’Italia, perché in quel caso sarebbe alto tradimento”. Matteo Salvini, via Facebook, lancia l’allarme sul nuovo accordo che il governo Conte avrebbe firmato in Ue “senza chiedere il via libera del Parlamento”.

“Se qualcuno ci infila in questa gabbia del Mes, i titoli di Stato rischiano di valere sempre meno”, aggiunge Salvini: “Se qualcuno ha firmato all’oscuro del popolo e del Parlamento lo dica adesso, altrimenti sarà alto tradimento e per i traditori in pace e guerra il posto giusto è la galera”. Sul tema si esprime anche Giorgia Meloni: “Conte ha dato ok a riforma Fondo salva stati (Mes) senza coinvolgere il Parlamento, che entro Dicembre sarà chiamato a ratificare questa nuova eurofollia: una super Troika onnipotente. Fdi farà barricate contro ennesimo tradimento verso il popolo. #StopMes”, twitta la leader di Fratelli d’Italia.

Sulla questione il 15 novembre è intervenuto il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, secondo cui la riforma del Mes deve essere gestita attentamente perché potenzialmente comporta “rischi enormi” . Parlando al seminario congiunto Official Monetary and financial institutions forum OMFIF-Banca d’Italia, il numero uno di Palazzo Koch ha spiegato che “i piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default”. Inoltre, secondo Visco, “dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato nella risoluzione della crisi greca dopo il vertice di Deauville a fine 2010”.  

Ciascuno Stato dell’Unione vi partecipa pro-quota e vi sottoscrive una garanzia. L’Italia ha versato sinora  quasi 15 miliardi di euro, cioè poco meno di quattro punti di Iva, il valore di quasi quattro Imu. Lo Stato che ne facesse richiesta (perché sotto attacco speculativo e quindi col pericolo di default del debito sovrano) deve offrire importanti garanzie: dalla ristrutturazione del debito pubblico all’ipoteca sugli asset pubblici, cioè dare in pegno i “gioielli di famiglia” (riserve auree, porti, aeroporti, beni culturali, etc). Gli accordi vengono presi a tavolino tra lo Stato richiedente, la Commissione europea e il MES, riunioni a cui partecipa anche l’Eurogruppo, cioè l’insieme dei ministri delle finanze dei Paesi dell’area euro. In pratica ciascuno Stato mette i soldi, ma se poi gli servono per calmierare i mercati deve prima fare “macelleria sociale”. E il ricorso al MES muta anche la giurisdizione sul debito sovrano, che – per la quota cui si fa ricorso – viene totalmente sottratta alla giurisdizione nazionale. Ma non è solo questo. La riforma del MES prevede anche un altro problema: la riduzione del valore nominale dei titoli del debito pubblico. Ci spieghiamo meglio. Se l’investiore ha acquistato un titolo di Stato del valore di 100, nel caso in cui lo Stato facesse ricorso al MES, questo potrà autonomamente provvedere alla riduzione del valore del titolo, con una perdita significativa per il risparmiatore. Insomma, un sistema di strozzinaggio legalizzato.

Il Meccanismo Europeo di Stabilità, detto originariamente “fondo salva-Stati”, è una organizzazione intergovernativa similare al FMI (Fondo Monetario Internazionale). Nato nel 2010 per far fronte soprattutto alla crisi greca, ha poi visto una ristrutturazione normativa nel 2011, sfociata in un Trattato ratificato dal Parlamento italiano nel 2012 (maggioranza Pd-PdL-Udc, governo Monti).  

Giuseppe Conte e Giovanni Tria, scrivono Paolo Becchi e Giuseppe Palma sul Libero  all’epoca rispettivamente Presidente del Consiglio e Ministro dell’economia del governo giallo-verde, sia nel giugno 2018 che nel giugno 2019 hanno concordato in seno all’Eurogruppo la riforma del MES voluta da Francia e Germania. Il tutto senza informare i due partiti che componevano quel governo (M5s e Lega), ovvero senza dare spiegazioni in merito agli accordi specifici intrapresi. In parole semplici la riforma franco-tedesca, a cui l’Italia ha in linea di massima aderito, prevede il “pilota automatico”. Lo Stato metti i soldi, se poi gli servono perché in difficoltà non passerà più da una discussione “politica” con Commissione, MES ed Eurogruppo,  ma da un sistema automatico che prevede l’obbligo di ristrutturazione del debito pubblico nella misura di una riduzione fino al 60% del Pil, ovvero del 5% annuo (circa 40 miliardi di tagli alla spesa pubblica ogni anno!). Quello che, in sostanza, prevede il Fiscal Compact. L’Italia ha oggi un rapporto debito pubblico/Pil di circa il 134%. Si immagini cosa accadrebbe se facesse ricorso al MES dopo la riforma.  Salvo rinvii, a dicembre di quest’anno inizierà l’iter di ratifica del nuovo Trattato sul MES. L’augurio è quello di un sussulto di indipendenza e quindi di un arresto di questo percorso perverso.

Giuseppe Conte, che al momento si è difeso di non aver ancora firmato nulla, ha svenduto l’Italia per accreditarsi presso Bruxelles ed ottenere il via-libera al Conte bis? Probabile che sia andata così. Visto che si è sempre definito l’ “avvocato del popolo”, scrivono Paolo Becchi e Giuseppe Palma sul Libero, Conte dovrebbe sapere che il codice penale, all’art. 264 (rientrante nella rubrica dei delitti contro la personalità dello Stato), prevede che “chiunque, incaricato dal Governo italiano di trattare all’estero affari di Stato, si rende infedele al mandato è punito, se dal fatto possa derivare nocumento all’interesse nazionale, con la reclusione non inferiore a cinque anni”. Conte ha agito  in modo “infedele”, anche perché – quale elemento oggettivo del reato secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza e della dottrina – è sufficiente la sussistenza del “nocumento all’interesse nazionale”, che ci pare evidente. Giampaolo Galli, membro dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani presso Università Cattolica a Roma e deputato del Pd nella passata Legislatura, nell’audizione del 6 novembre 2019 presso le Commissioni riunite Va e XIVa della Camera dei deputati, ha definito la riforma del MES “un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando titoli del debito pubblico”. È proprio così.

La Magistratura al momento è impegnata a perseguitare Salvini  sul caso Savoini e i porti chiusi,  ma se il Parlamento, come auspicabile, alla fine respingesse la ratifica del nuovo Trattato,  la Magistratura dovrebbe aprire un fascicolo nei confronti di Giuseppe Conte e Giovanni Tria, iscrivendo  la notizia  di reato  per “infedeltà in affari di  Stato”. E subito dopo Conte dovrebbe dare le dimissioni.

Durissima replica di Palazzo Chigi alle accuse mosse da Matteo Salvini su una presunta revisione del Mes. “La Presidenza del Consiglio ha l’obbligo di chiarire le notizie infondate e false diffuse, anche oggi, dal senatore Matteo Salvini. Innanzitutto, la revisione del Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) non è stata ancora sottoscritta né dall’Italia né dagli altri Paesi e non c’è stato ancora nessun voto del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, o degli altri Capi di Stato e di governo europei sul pacchetto complessivo di questa riforma. In definitiva, nessuna firma né di giorno né di notte” puntualizzano, piccate, fonti di Palazzo Chigi.

“La sottoscrizione è calendarizzata per il prossimo mese di dicembre e il ministro dell’Economia Gualtieri ha già chiarito, per iscritto – viene inoltre precisato – la sua disponibilità a riferire alle Camere l’avanzamento dei lavori e a illustrare nel dettaglio i contenuti della riforma, anche con riguardo all’intero pacchetto. Si ricorda che, in ogni caso, il Parlamento ha un potere di veto sull’approvazione definitiva della revisione Trattato Mes e avrà modo di pronunciarsi in sede di ratifica, quindi prima di ogni determinazione finale in merito alla sua entrata in vigore”.

Secondo un esponente della Lega : “Non possiamo permetterci di dare altri 14 miliardi di Euro per questo fondo e non possiamo accettare una modifica del Mes che dice che, qualora dovessimo avere necessità di riprenderci i nostri soldi, ci troveremmo obbligati a politiche di rigore e a cedere gli asset strategici del Paese ad altri Paesi europei. Da un lato serve che Conte chiarisca tutto in Parlamento, dall’altro serve che sia chiaro che l’Italia non accetta nessuna modifica in questa direzione altrimenti ipotecheremmo il Paese.

L’Europa e la globalizzazione ci hanno già portato via molto, non vorremmo che ci portino via anche un altro patrimonio degli italiani, ovvero i nostri risparmi. Quando eravamo al governo il Mes è stato oggetto di discussione e l’indirizzo di lega e M5S era chiaro: non andare a peggiorare la situazione con la modifica del fondo salva stati. Portogallo ha usufruito del fondo? L’attuale condizione non obbliga loro a cedere gli asset strategici del Paese come invece prevede la nuova proposta. Inoltre non hanno un debito pubblico alto come quello italiano. E poi quando tocca all’Italia su questi meccanismi rischiamo di uscirne stritolati perché la finanza guarda con molto interesse ai risparmi delle famiglie italiane e noi dobbiamo difenderli”.

“Conte è stato portato nel ruolo di primo ministro dal popolo e lui stesso si era dichiarato avvocato del popolo. Oggi per salvare la sua poltrona ha fatto un patto col diavolo, diventando burattino di Berlino e Parigi. Fanno bene Lega e M5S a guardare con attenzione gli impegni, le firme e i comportamenti di Conte. Si corre il rischio che per prendere ordini da Francia e Germania Conte possa ipotecare il Paese.


 

 

Era il 1992, un anno decisivo per la recente storia italiana. All’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo.

Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di "Tangentopoli" gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata "privatizzazione".
 
E ancora. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali.

2 giugno del 1992, panfilo Britannia, in navigazione. A bordo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, e i grandi banchieri a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers).
 
In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, tra i quali Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli.

Gli intrighi decisi sulla Britannia avrebbero permesso, di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane. La stampa martellava su "Mani pulite", facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.Un grande cambiamento in effetti ci fu. I banchieri angloamericani erano venuti a "fare la spesa", ossia a comprarsi i gioielli dell’industria pubblica italiana a buon mercato. In lire svalutate lorsignori comprarono i gioielli dell’industria italiana, IRI in testa.  Insomma: una strategia concertata.

Cominciò il  Fondo Monetario Internazionale (altro organismo che mette sul lastrico interi paesi) che, come aveva fatto da altre parti, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. La Standard & Poor’s declassò il debito italiano.

L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. A causa di questi attacchi, la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni. Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia.
Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo

Nei giorni in cui la crisi dell’Ilva fa sentire con sempre maggior forza i suoi effetti sul tessuto industriale italiano, scrive "inside over del Giornale", e sul Governo Conte emerge in maniera crescente l’ampiezza del vuoto politico che ha contribuito a produrre situazioni problematiche tanto difficili da gestire. Ferite aperte nell’economia e nella società nazionale dalla progressiva desertificazione di qualsiasi ragionamento serio sulla politica industriale post Prima Repubblica.

Industria, programmazione strategica, infrastrutture: la fine del sistema costruito nella Prima repubblica e lo smantellamento dell’architettura di economia mista incentrata sull’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) ha portato con sé non il miglioramento dell’efficienza dei settori liberalizzati e privatizzati ma un deperimento della qualità dei servizi, della programmazione economica, del livello di investimenti. Con conseguenze produttive, occupazionali, ambientali e securitarie. E ricadute enormi sul posizionamento strategico dell’Italia in Europa e nel mondo. Con tutti i limiti progressivamente emersi, legati principalmente alla progressiva irreggimentazione politica, l’economia mista incentrata sull’Iri riusciva a complementare le esigenze pubbliche con quelle del settore privato.

Scrive inside over manager illuminati come Enrico Mattei, Oscar Sinigaglia e Adriano Olivetti capirono che i due mondi non dovevano essere conflittuali ma capaci di sovrapporsi attivamente. “L’economia privata era basata su un’imprenditoria diffusa, quella pubblica sostenuta dallo Stato aveva lo scopo di investire nel lungo periodo e creare concentrazioni di più grande dimensione”, ha dichiarato all’Osservatorio Globalizzazione lo storico dell’economia Giuseppe Berta.

E nel quarantennio di consolidamento dell’Italia repubblicana, c’è da dire che tale funzione è stata ampiamente assolta. Si è precedentemente citato Mattei: ma la parabola dell’Eni globale del manager marchigiano non è stata una storia a sé. Che cos’era fino a una ventina di anni fa l’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, se non il frutto dell’opera della vecchia Finsider dell’Iri guidata da Sinigaglia? La Finsider fu capace di realizzare gli impianti in grado di permettere a tutti i Paesi europei la conquista dell’indipendenza nella produzione della materia più strategica per l’industria moderna. L’uscita dall’orbita pubblica dell’Ilva è stata fatale, perché ha fatto perdere la necessaria coordinazione tra impianti e la ratio di fondo della politica industriale.

Avevamo anche il visionario “impero romano” della Stet, “costruttrice di cavi e reti che hanno garantito all’Italia”, scrive il direttore del Quotidiano del Sud Roberto Napoletano, “il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale”, prima che Telecom-Tim venisse privatizzata. Così come Ilva, anche sulla società di telefonia si è scatenata una gara geoeconomica coinvolgente Paesi stranieri interessati ad aumentare la propria proiezione nell’economia italiana. La Francia, attraverso Vincent Bolloré e Vivendi, è in questo caso intenta in un braccio di ferro con gli Stati Uniti impegnati attraverso il Fondo Elliott. Nonostante tutto, attraverso Sparkle, la Telecom gestisce e costruisce ancora una rete significativa e strategica di cavi sottomarini di telecomunicazione. Ma senza il controllo nazionale questo risultato rischia di ridurre i dividendi positivi per il Paese. Risulta strano constatare il rifiuto del governo di appoggiare, recentemente, la proposta di Fabio Rampelli (Fdi) su una convergenza di Tim con OpenFiber per l’istituzione di un “golden power” pubblico sulle reti.

L’azione di politica economica e industriale è discontinua, spezzettata e confusa. Scrive il Giornale  la radice del problema sta nella scelta, compiuta negli anni Novanta, di smantellare il sistema di partecipazioni incentrato sull’Iri per venire incontro al nuovo vento della globalizzazione, della liberalizzazione e delle regole europee. Le privatizzazioni furono giustificate ideologicamente con l’obiettivo di modernizzare il Paese, ottenere valuta e risorse da utilizzare per conformarsi alle regole europee dei parametri di Maastricht e aprire il Paese agli investitori stranieri. Principale fautore dello smantellamento dell’Iri e del sistema dell’economia mista, dopo il 1992, fu il suo ultimo direttore e futuro presidente del Consiglio Romano Prodi. L’Iri, che ancora nel 1993 era il settimo conglomerato al mondo con un fatturato complessivo delle sue imprese superiore ai 67 miliardi di euro, fu smantellato nel decennio successivo e il suo patrimonio disperso.

Secondo il giornale alcune imprese (Fincantieri e Finmeccanica) non affondarono, altre (Autostrade) furono privatizzate attraverso manovre che dettero ai concessionari posizioni di rendita, altre ancora ebbero la storia travagliata che abbiamo narrato. A decenni di distanza possiamo solo rammaricarci di quanto questo capitale disperso avrebbe potuto contribuire alla crescita del Paese e di quanto lo smantellamento dell’economia mista abbia contribuito al depauperamento della cultura strategica in campo industriale. Un gioco sfacciato sulla pelle delle decine di migliaia di persone portate in difficoltà da queste dinamiche, ultime in linea temporale le maestranze di Ilva e del suo indotto, a cui ha contribuito anche una grande imprenditoria italiana scarsamente incisiva.

Di questo gap scrive inside over di capacità e programmazione il Paese ha avuto più volte di che dolersi..In una fase storica in cui la competizione economica internazionale si intensifica e l’omogeneità strategica dei sistemi-Paese è più che mai necessaria, l’Italia naviga priva di bussola. Incapace di determinare quali settori industriali siano davvero strategici o di rafforzare politicamente i suoi campioni nazionali. Terra di conquista per capitali stranieri. Uno stato di cose che contribuisce a renderci oggetto, e non soggetto, della partita dello sviluppo industriale, finanziario e tecnologico che deciderà gli equilibri del prossimo futuro

Il fatturato totale diminuisce infatti “in termini tendenziali” (ossia considerando un anno) del -7,3%, con un calo del -7,5% sul mercato interno e del -7,0% su quello estero. Una conferma, oltretutto di due condizioni strutturali entrambe negative: a) il mercato interno non è in grado di assorbire la produzione per via dei bassi salari e della elevata disoccupazione, b) i mercati stranieri non “trainano” più, e quindi paghiamo pesantemente l’aver accettato di trasformare buona parte della nostra attività industriale in “produzione conto terzi” per le filiere tedesche, tutte orientate all’esportazione. Filiere che oggi pagano anche loro l’austerità imposta tramite l’Unione Europea (tutto il mercato interno continentale soffre alla stessa maniera) e i primi danni della guerra commerciale di tutti contro tutti aperta con il passaggio – causato da una crisi ultradecennale – dalla “globalizzazione” alla competizione globale.

I dati Istat pubblicati stamattina dovrebbero costringere tutti a rivedere le proprie idee – pregiudizi indotti, in realtà – scrive inside over su come funziona l’economia sotto il segno dell’ordoliberismo mercantilista di matrice teutonica. Ma non avverrà. Più semplice prendersela con la coglionaggine del governo di turno (che in effetti non ci sta capendo molto) o, come in modo inaudito continua a fare Confindustria, con il “costo del lavoro troppo alto” (siamo già arrivati al lavoro gratuito, che cavolo voglio ancora?).

Più in dettaglio. A dicembre 2018 il fatturato dell’industria è diminuito “in termini congiunturali” (cioè rispetto al mese precedente) del 3,5%. Nel quarto trimestre l’indice complessivo ha registrato un calo dell’1,6% rispetto al trimestre precedente.

Ma la situazione non è affatto passeggera. Se guardiamo infatti agli ordinativi – la produzione dei prossimi mesi – si registra una diminuzione sia rispetto al mese precedente (-1,8%), sia nel complesso del quarto trimestre rispetto al precedente (-2,0%).

Anche qui, il calo mensile del fatturato riguarda sia il mercato interno (-2,7%) sia, in misura più accentuata, quello estero (-4,7%). Peggio ancora per l’immediato futuro: la flessione degli ordinativi è infatti la sintesi di un incremento delle commesse provenienti dal mercato interno (+2,5%) e di una fortissima contrazione di quelle provenienti dall’estero (-7,4%). Chi aveva untato solo sulle esportazioni (tutto il sistema industriale italiano) si trova oggi sull’orlo dell’abisso.

Non c’è peraltro un solo settore in controtendenza. A dicembre tutti i raggruppamenti principali di industrie segnano una variazione mensile negativa: -1,8% i beni di consumo, -5,5% i beni strumentali, -1,7% i beni intermedi e addirittura -9,7% l’energia.

Sempre con riferimento al fatturato annuale, tutti i principali settori di attività economica registrano cali tendenziali drammatici. I più giganteschi riguardano i mezzi di trasporto (-23,6%), l’industria farmaceutica (-13,0%) e l’industria chimica (-8,5%). Una strage, diciamo pure…

E secondo il giornale il peggio ancora va se si guarda agli ordinativi: qui il calo su base annua è del 5,3%, derivante da diminuzioni per il mercato interno (-3,6%) e ancora più per quello estero (-7,6%). Solo il comparto dei macchinari e attrezzature segna una tendenza positiva (+5,4%), mentre la diminuzione più marcata si rileva per l’industria delle apparecchiature elettriche (-21,4%). Avete voluto giocare a fare i contoterzisti dei tedeschi, con salari da fame e tutte le speranze legate alle esportazioni? Ecco il risultato. Spazzare via questa “classe dirigente” (sia imprenditoriale che politica, sia italiana che “europea”) è ormai questione di sopravvivenza.

Secondo  Il Fatto Quotidiano all’indomani della svalutazione del 1992 iniziano i nuovi saldi del patrimonio pubblico. Multinazionali angloamericane, ma anche francesi, arrivano in Italia per “fare shopping”: vanno in cerca di società, specialmente agroalimentari e di meccanica di precisione. Italgel, per esempio, viene aggiudicata alla Nestlè a 680 miliardi di lire contro una valutazione di 750. Ma anche i giganti italiani guadagnano dallo smembramento del patrimonio nazionale: il gruppo Benetton si aggiudica per 470 miliardi GS Autogrill che poi rivende ai francesi di Carrefour GS per 10 volte tanto. Poi fagocita la rete autostradale usando la leva finanziaria, si indebita per acquistarla e poi scarica il debito sulle autostrade, naturalmente si guarda bene dal vendere l’impresa perché genera proficui profitti, specialmente mantenendo la manutenzione a livelli bassissimi.

Vengono privatizzate totalmente Telecom, parzialmente Enel ed Eni. Continua il Fatto molte di queste aziende, fino ad allora considerate all’estero concorrenti temibili, subito dopo l’acquisizione vengono smembrate o comunque messe in condizione di non nuocere. Dal 1992 al 2002 il Tesoro ha “effettuato direttamente operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6 miliardi di euro. A questa cifra vanno però aggiunte le privatizzazioni gestite dall’Iri (sempre sotto il coordinamento del Tesoro), per un controvalore di circa 56,4 miliardi di euro, le dismissioni realizzate dall’Eni (5,4 miliardi di euro) e la liquidazione dell’Efim (440 milioni di euro). Si tratta di cifre molto consistenti, da cui è facile intuire il valore e l’importanza dei beni venduti, o per meglio dire “svenduti“.

Per capire quanto valgono questi stessi beni che non ci appartengono più possiamo comparare gli incassi delle privatizzazioni con i valori attuali. Nel 1992 la cessione del 58% del Credito Italiano produce ricavi lordi per 930 milioni di euro, nel 2002 Unicredito Italiano capitalizza 26.593 milioni di euro. Tra il 1994 e il 1996 la cessione del 36,5% dell’Imi rese 1125 milioni di euro, le successive tre tranche, pari al 19% e al 6,9%, rispettivamente 619 e 258 milioni di euro, nel 2002 Imi-Sanpaolo capitalizza 16.941 milioni di euro. Un caso a parte è poi rappresentato dal Banco di Napoli: quel 60% che lo Stato vende alla Bnl per 32 milioni di euro (una volta ripulito delle perdite e dei crediti inesigibili con 6200 milioni di euro di denaro pubblico), è rivenduto dalla Bnl, a distanza di pochi anni, per 1000 milioni di euro. È anche vero che la BNL lo ha risanato completamente, ma la differenza tra i due valori è enorme.

Secondo il Fatto questi ultimi viene virtualmente ceduta una fetta della nostra sovranità nazionale. Chi produce il denaro è una casta di banchieri, anche stranieri, che ce lo presta a un tasso d’interesse variabile, a seconda della fiducia che il mercato ripone nei nostri confronti. E questo denaro viene creato dal nulla. Non c’è qualcosa di assurdo nel fatto che questa situazione sia considerata migliore e più moderna del vecchio modello dove Tesoro e Bankitalia appartenevano allo Stato? Com’è possibile che ci si fidi più di forze commerciali di mercato straniere che del nostro governo?

Completate le privatizzazioni comincia il gioco delle sedie: alcuni personaggi chiave lasciano il settore pubblico e vanno a lavorare per le grandi banche che hanno guidato la vendita del patrimonio nazionale sul mercato. Mario Draghi diventa vicepresidente della Goldman Sachs e Vittorio Grilli – ai tempi vicedirettore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni, viene assunto al Credit Suisse. Ma se costoro erano tanto bravi da essere chiamati dalle più grandi banche d’affari mondiali “i maghi della ristrutturazione delle imprese pubbliche”, allora perché non si sono rimboccati le maniche e queste metamorfosi le hanno fatte in casa, con gli stipendi dello Stato  ?

 

 

Al Paladozza Matteo Salvini ha dato il via alla campagna di Lucia Borgonzoni. "L'obiettivo è restituire speranza, futuro e libertà d'impresa a tutti gli emiliano-romagnoli e tornare al governo a livello nazionale. Sono orgoglioso che la Lega sia protagonista di questa nuova speranza, per l'Emilia, la Romagna e l'Italia", ha esordito Salvini, auspicando "un cambiamento a livello locale, però anche un cambiamento a livello nazionale, perché questo è un governo fondato su tasse, sbarchi, manette e povertà". Un governo, ha aggiunto, "che fa scappare le imprese e nemico degli italiani e quindi l'obiettivo è restituire speranza, futuro e libertà".

Sfida di piazze per Bologna, nella sera del 14 novembre che apre ufficialmente la campagna elettorale della Lega per le regionali in Emilia Romagna, il 26 gennaio. Sfida di numeri, tra i sostenitori del Carroccio, arrivati già ore prima, davanti al palazzetto, che vide congressi del Partito Comunista e discorsi di Enrico Berlinguer; e a poche centinaia di metri, le diverse piazze, contrarie al leader della Lega.

Lo speaker della convention scalda la platea, evocando i nomi dei protagonisti della serata, la candidata alle regionali, Lucia Borgonzoni, ma dagli spalti i cori sono tutti per «Matteo, Matteo». L'attesa si trasforma in un concerto, con un’ola tra gli spalti, quando parte «Romagna mia». Matteo Salvini ha chiesto il tutto esaurito, per questa serata che apre la corsa alla «conquista dell'Emilia Romagna», come recitano i manifesti. E dare la spallata al Governo giallo-rosso.

Presenti i cinque governatori leghisti, compreso il Veneto Luca Zaia, che sta fronteggiando l’emergenza Venezia. Tra i presenti, anche un sacerdote, don Luca Pazzaglia, parroco di Frassinoro.

«L’obiettivo è restituire la speranza a tutti gli emiliano-romagnoli e tornare al Governo», annuncia il leader della Lega, che- in brevi dichiarazioni, prima dell'inizio della convention- si scaglia contro l'Esecutivo, «nemico degli italiani, che fa scappare le imprese».

La manifestazione inizia, con un poeta, un imprenditore e con l'esempio dei cinque Governatori della Lega. Con il loro modello e con un messaggio; «liberiamo l'Emilia Romagna e il Governo», urla Christian Solinas. «Avete nelle mani le sorti del Paese», rincara Fedriga. «Salvini ci ha dimostrato che nulla è impossibile», insiste Attilio Fontana. «Noi governatori siamo venuti per portare un modello, non per parlare male di qualcuno», aggiunge Luigi Zaia.


Antagonisti e centri sociali, in corteo, provano ad avvicinarsi all’area della convention leghista, chiusa molte ore prima al transito. Mostrano cartelli con rimandi al Russiagate, «contro il ritorno di ogni fascismo» e «a difesa dei diritti dei migranti», ripetono. «Siamo tutti antifascisti», scandiscono in coro i duemila, soprattutto giovani, mentre da piazza San Francesco attraverso via del Pratello provano ad avvicinarsi in via Riva Reno e al Palazzetto. Tra i cori, qualcuno invoca piazzale Loreto.

Le immagini dei centri sociali a Bologna, tra strade occupate, lancio di petardi e bottiglie di vetro e scontri con le forze dell'ordine, non sono affatto nuove. Scorrono sotto gli occhi come un triste déjà vu. Negli ultimi tempi, va detto, sembrava si fossero addirittura dati una calmata. Dopo la rottura con il Movimento 5 Stelle e il collasso del primo governo guidato da Giuseppe Conte, la rete antagonista ha mollato la presa contro il Carroccio. A inizio anno, quando al Viminale veniva messo in atto il pugno duro contro l'immigrazione clandestina e il business dell'accoglienza, gli attacchi dinamitardi alle sedi della Lega e le intimidazioni contro gli uomini di Salvini erano all'ordine del giorno.

Ora il clima è tornato a farsi teso come in quei giorni. A preoccupare la sinistra è, appunto, la possibilità che il centrodestra riesca a portarle via un'altra roccaforte rossa: dopo l'Umbria, ora tocca all'Emilia Romagna. I sondaggi parlano chiaro: le due coalizione possono giocarsela in un testa a testa che non ha precedenti storici. Fino a qualche anno fa, infatti, era anche solo immaginabile che un candidato del centrodestra potesse tener botta all'armata rossa. Ora gli equilibri si sono ribaltati. E, senza l'apporto dei Cinque Stelle, Stefano Bonaccini rischia adirittura di avere la peggio.

Pero non è una novità: il centrodestra è maggioranza nel Paese. Le elezioni Regionali, oltre alle Europee della scorsa primavera, raccontano che Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia mettono insieme il 50% - punto percentuale in più, punto percentuale in meno… – dell'elettorato italiano.

Ora, una rilevazione di Noto Sondaggi ed Emg Acqua e commissionata da Asmel – l'Associazione che rappresenta quasi tremila Comuni in tutt'Italia, in larga parte con meno di 60mila abitanti – racconta che, se i partiti attualmente al governo (Movimento 5 Stelle e Partito Democratico) raccolgono voti nei Comuni medio-grandi, il centrodestra fa il pieno di consensi in quelli più ridotti, sotto – appunto – i 60mila cittadini.

Da quando emerso nel sondaggio per Asmel, infatti, nelle realtà italiane con più di 60mila residenti, l’asse giallorosso mette insieme il 49,9 per cento dei consensi. Un 50% scarso che però crolla di oltre 8 punti, al 41,3 per cento, in quelli sotto questa soglia. Ed è proprio qui che il centrodestra si afferma con il 52,1 per cento delle intenzioni di voto, che scendono al 43,5 per cento nei Comuni più grandi.

Unici partiti con percentuali identiche nei Comuni piccoli e grandi sono il Pd con 18,7 e FdI con 6,6, mentre le differenze più evidenti sono quelle della Lega che perde 7 punti nel confronto tra Comuni piccoli (35,6) e grandi (28,6) e Italia viva, che al contrario raddoppia la percentuale nei grandi (9,0) a confronto con i piccoli (4,7).

In vista della decisiva tornata elettorale in Emilia Romagna – fissata a domenica 26 gennaio –, che vede il dem Stefano Bonaccini sfidare la leghista Lucia Borgonzoni, la coalizione di centrodestra sarebbe ora in vantaggio sul centrosinistra. Infatti, secondo quanto riferito da una fonte al Giornale.it, il sondaggio darebbe Lega, FI e FdI in vantaggio sulla sinistra di ben sei punti percentuali. Diversa invece la fotografia realizzata dall’istituto demoscopico Tecné, che continua a dare il candidato del Pd avanti all’esponente del Carroccio; il sondaggio, infatti, dà Bonaccini sopra di un solo punto: 46% contro il 45%. Insomma, un testa a testa.

Molto dipenderà dall’eventuale apporto della compagine pentastellata, che potrebbe dare al presidente uscente una spinta di 4/5 punti percentuali, così come dalle numerose liste Civiche presenti sul territorio emiliano e romagnolo. Per esempio, come il movimento Volt, che proprio in queste ultime ore ha reso noto il suo sostegno a Stefano Bonaccini: "È ufficiale: sosterremo la corsa alla presidenza dell’EmiliaRomagna di Bonaccini, iscrivendo la nostra lista nella coalizione di centrosinistra. Per sostenere i nostri valori e istanze abbiamo scelto di supportare chi ha fatto crescere l'Emilia Romagna".

Non sono mancate le polemiche: gli antagonisti sono andati all'attacco per cercare di zittire l'ex ministro dell'Interno, obbligando la polizia a ricorrere all'utilizzo degli idranti contro il lancio di bottiglie e fumogeni. Ma il dato più importante è che un luogo simbolo della sinistra sia diventato completamente verde, almeno per una serata: "Il PalaDozza è stato teatro ideale per una sinistra che era capace di mobilitare le masse. Salvini lo sa bene, la scelta fa parte della sua strategia di sfidarla nei luoghi simbolo, come ha fatto a Roma in Piazza San Giovanni". A sostenerlo è il politologo Gianfranco Pasquino, intervistato da Il Giorno.

Si tratta di una zona emblematicamente rossa non solo per la dedica a Giuseppe Dozza, sindaco comunista che fece costruire la struttura nel 1956: "Quella sinistra che aveva voglia di coinvolgere il pubblico trovò nel palazzo dello sport un contenitore ideale: è una struttura accogliente, si vede bene in ogni ordine di posto e si può essere vicinissimi all'oratore".

Secondo il Giornale Il professore emerito dell'Alma Mater ha raccontato di avere dei bei ricordi: "Partecipai al Convegno europeo contro la repressione del settembre 1977, poi ho sicuramente assistito a un comizio di Berlinguer". Ma il suo primo flashback è di tipo sportivo: "In piazza Azzarita vidi la finale di Coppa dei Campioni di basket, vinta dalla Simmenthal Milano contro lo Slavia Praga". Era da poco arrivato a Bologna per frequentare la Johns Hopkins: "Il cestista Bill Bradley, stella di quella squadra, è diventato poi un senatore democratico".

Il luogo è passato dal pugno studentesco e operaio ('68 e '77), dall'incoronamento di Berlinguer come segretario del Pci (1969), dall'avvio della campagna dell'Ulivo del '96 di Prodi al Vaffa-day del Movimento 5 Stelle (2007) per arrivare ora a Salvini, che - stando a quanto appreso da un sondaggio segreto in possesso de ilGiornale - avrebbe i numeri per prendersi l'Emilia-Romagna: "C'è il desiderio di riuscire a sconfiggere il Pci prima, poi i Ds, e adesso quel che ne rimane nel Pd, a casa loro. Il PalaDozza ha una sua importanza simbolica, ma è Bologna che storicamente è il centro della sinistra di governo. La sfida del 26 gennaio ha un rilievo nazionale, molto più di quella dell'Umbria".

Perciò è lecito domandarsi se Bologna sia ancora una città di sinistra: "Negli ultimi 20 anni è mancata una vera riflessione su cosa è stata la città e cosa doveva diventare. Bologna è cambiata molto, la tradizione del Pci non è stata rivisitata e la sinistra è frammentata, neppure così convinta delle sue magnifiche sorti e progressive". Pasquino infine ha concluso facendo notare: "Del resto, i capannelli di persone che discutono di politica, oggi li vede ancora in città? Io no. Vedo rassegnazione e una certa incapacità del Pd di mobilitare le energie".

Intanto ipasadaran della censura non si sono indignati per l'ennesimo episodio di odio dei centri sociali. Non li ha scalfiti l'assalto degli antagonisti che, ieri sera a Bologna, sono scesi in piazza per zittire Lucia Borgonzoni, la candidata unitaria del centrodestra alle elezioni del prossimo gennaio

Ora che l'Emilia Romagna rischia di essere effettivamente scippata alla sinistra dopo decenni di monocolore rosso tutto è permesso. Sia i big del Partito democratico, che temono irrimediabili ripercussioni sul governo giallorosso, sia i facinorosi che affollano le reti no gloabal della città temono seriamente che il vessillo della Lega possa sventolare sul palazzo della Regione. Per questo, da qui alla prossima tornata elettorale, dobbiamo aspettarci un nuovo tsunami d'odio contro Matteo Salvini & Co. Un'ondata di violenze (non solo verbali) che non turberanno i crociati della commissione contro l'odio.

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