Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *
Captcha *
Reload Captcha
Giovedì, 02 Maggio 2024

In città l'ultima tappa d…

Apr 30, 2024 Hits:174 Crotone

Convegno Nazionale per la…

Apr 23, 2024 Hits:388 Crotone

L'Associazione "Pass…

Apr 05, 2024 Hits:837 Crotone

Ritorna Calabria Movie Fi…

Apr 03, 2024 Hits:879 Crotone

La serie evento internazi…

Mar 27, 2024 Hits:1086 Crotone

L'I.C. Papanice investe i…

Mar 01, 2024 Hits:1554 Crotone

Presentato il Premio Nazi…

Feb 21, 2024 Hits:1658 Crotone

Prosegue la formazione BL…

Feb 20, 2024 Hits:1477 Crotone

Quando il 18 novembre 2018 Silvia viene catturata nel villaggio di Chakama in Kenya da tre uomini armati, si accredita la matrice dei criminali locali. E invece è stato tutto pianificato, sono i terroristi ad aver ordinato il sequestro. Fanno un primo tratto di strada in moto, si addentrano nella foresta. «Mi hanno dato dei vestiti, un paio di pantaloni, una maglietta e un maglione. Poi mi hanno tagliato i capelli. Dovevamo camminare tra i rovi, mi hanno detto che era meglio». Un mese dopo, mentre tutti la cercano in Kenya, Silvia è già in Somalia. Gli estremisti hanno già pronte le condizioni per ottenerne il rilascio. Soldi, molti soldi.

Da quel momento cominciano a giocare sulla paura, diffondono notizie facendo credere che Silvia sia morta. Prima viene detto che è stata coinvolta in una sparatoria, poi che potrebbe essere rimasta vittima di un’infezione a un piede che non si è riusciti a curare. In Kenya la cercano con i droni e con le battute nella foresta. Più volte la polizia locale annuncia che «la liberazione della cooperante italiana è imminente». Ma è soltanto un bluff. In realtà Silvia è lontana e ha cambiato almeno due covi. A maggio 2019, quando arriva il primo video per provare che è viva, l’intelligence si fa portavoce della risposta del governo italiano: trattiamo le condizioni.

Nulla sa della contropartita versata ai sequestratori, di quella triangolazione tra Italia, Turchia e Qatar che ha consentito di chiudere la partita con il gruppo fondamentalista che l’ha tenuta prigioniera per 18 mesi. Su quel quaderno trasformato nel diario del suo incubo Silvia annotava ogni dettaglio. E adesso sono proprio i dettagli a comporre il quadro di una trattativa giocata sempre sul rialzo del prezzo.

La “bomba” è stata sganciata oggi dall’agenzia turca Anadolu, che ha pubblicato una foto in cui si vede Silvia Romano mentre, subito dopo esser stata liberata, indossa un giubbotto antri proiettile con, attaccato, un patch raffigurante la bandiera turca. L’articolo, chiaramente una velina gentilmente offerta da Ankara, è molto scarno ed è confezionato solamente per celebrare il ruolo svolto dai servizi segreti turchi nell’operazione che ha portato alla liberazione della cooperante italiana. Servizi segreti che o hanno direttamente scattato la fotografia alla Romano oppure hanno provveduto a modificarla ad hoc, in modo tale da accentuare il lavoro svolto.

La versione di Ankara è stata ovviamente smentita dall’intelligence italiana: la cooperante italiana, infatti, sarebbe stata recuperata nella notte tra venerdì e sabato dai nostri 007 “con quello stesso giubbetto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell’immediatezza senza alcun simbolo” e “quindi non è da escludersi che quella foto sia un fake”, fanno sapere i nostri servizi : “Gli uomini dell’intelligence italiana che hanno compiuto l’operazione di liberazione sono gli stessi che nel novembre 2018, 48h dopo il sequestro, sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove, in collaborazione con le forze locali, hanno iniziato le operazioni di ricerca anche con l’ausilio di sofisticati droni” e che, “dopo aver avuto contezza del trasferimento della rapita in Somalia, si sono trasferiti stabilmente in quel paese, senza mai interrompere le attività di ricerca, fino all’operazione dell’altra notte, quando, in silenzio e con professionalità, hanno recuperato Silvia Romano”.

Lo scorso 17 gennaio è arrivato un video in cui la ragazza diceva di stare bene. Il filmato in questione, di matrice jihadista, è stato fondamentale al fine della liberazione: era la prova lampante che Silvia era ancora viva e che si poteva giungere a un accordo, subito dopo l’arrivo dell’autorizzazione al pagamento del riscatto. Un continuo tira e molla con i rapitori che cercavano di ottenere il più possibile, rischiando anche di far cadere tutto. Un lavoro di intelligence e diplomazia per riportare a casa la giovane. Il punto non era solo il prezzo per la sua liberazione, ma soprattutto capire se coloro che stavano contrattando erano realmente gli aguzzini di Silvia.

Ad agosto il capo del gruppo le chiede di girare un altro video. È la seconda prova in vita chiesta dall’intelligence. Il 19 settembre Il Giornale pubblica la notizia che «Silvia è stata costretta al matrimonio islamico con uno dei suoi aguzzini, obbligata alla conversione». Dopo mesi di silenzio arriva la conferma che è nelle mani dei fondamentalisti. Sale l’angoscia. E anche il prezzo per la sua liberazione. I negoziatori fanno capire che si trova a sud della Somalia, in quell’area del Jubaland dove gli estremisti sono gli unici padroni. Gli 007 dell’Aise guidati dal generale Luciano Carta lavorano in collaborazione con i servizi segreti somali, ma è soprattutto sulla Turchia che si fa affidamento. Su quei contatti che certamente si sono rivelati decisivi per tenere aperto il canale e riportare Silvia a casa. L’ultimo video del 17 gennaio 2020 arriva in Italia a metà aprile. Ma non basta, in questi tre mesi di lockdown mondiale da coronavirus Silvia potrebbe essere morta.    

Venerdì notte però la svolta e la liberazione, avvenuta a una trentina di chilometri da Mogadiscio. Silvia Romano è arrivata indossando abiti tradizionali delle donne somali, una lunga tunica, e con la testa coperta. Immediatamente, come riportato dal Corriere, è stata trasferita all’ambasciata italiana in Somalia. Qui le è stato chiesto di cambiarsi i vestiti ma lei si è rifiutata di farlo, spiegando di essere convertita all’Islam e di volerne parlare prima con la madre, appena riuscirà a incontrarla.

La scelta di abbracciare la stessa religione dei suoi carcerieri, di quelli che hanno fatto irruzione nella sua vita strappandola alla libertà e agli affetti per 18 mesi, è una cosa che sfugge all'umana comprensione. Non esistono spiegazioni razionali che ci mettano al sicuro da ciò che non riusciamo a decifrare. E così ognuno ricorre alla sua suggestione.

Oggi, in un’intervista esclusiva a Repubblica, Ali Dehere, portavoce di Al Shabaab, fa sapere che Silvia Romano si è convertita senza alcune costrizioni, “perché ha sicuramente visto con i suoi occhi un mondo migliore di quello che conosceva in precedenza”. E ancora: “Da quanto mi risulta Silvia Romano ha scelto l’Islam perché ha capito il valore della nostra religione dopo aver letto il Corano e pregato”. Quello che è successo in questi 18 mesi nel cuore di Silvia è davvero quello che suggerisce Dehere? O forse, anche solo a causa della paura e dello smarrimento, la giovane è stata in qualche modo plagiata? La conversione è quanto di più intimo possibile e, ovviamente, solo la Romano sa quali siano i motivi che l’hanno portata ad abbracciare l’islam.

Anche l’imam di via Padova a Milano, intervistato da Repubblica, nutre forti dubbi sulla sincerità della conversione di Silvia: “Sono questioni personali che non credo sia ora il caso di sviscerare. Non sappiamo nulla di quel che le è successo, se non che ha vissuto un anno e mezzo in un Paese molto pericoloso, in mano a un gruppo di terroristi legati ad Al Qaeda che predicano cose che noi rifiutiamo. L’Islam è per la pace, ripudia la violenza, la guerra, i rapimenti, gli assassini. Come si può credere a una conversione sincera in quel contesto?”

Intanto anche se assisteremo alla più che plausibile negazione del pagamento di qualsiasi riscatto, è indubbio che esso sia avvenuto. Il rapimento di Silvia Romano, d’altronde, sin dall’inizio si presentava come a scopo di estorsione. Nulla quindi giustificherebbe, almeno al momento, la possibilità che siano state percorse strade alternative.

Di che cifre parliamo? Secondo il giornalista di guerra Fausto Biloslavo, che ne scrive oggi su Il Giornale, “solitamente gli ultimi “prezzi” dei nostri connazionali in mano a bande jihadiste variano fra i 3 e i 6 milioni di euro“. Scrivevamo all’epoca di Greta e Vanessa che “uno Stato serio salva i suoi concittadini“. A prescindere dal prezzo da pagare.

Intanto mentre gli Italiani secondo quanto registrato da Euromedia, il Covid-19 sta alimentando le loro paure ma e loro la paura principale, almeno da quando rilevato da un sondaggio, è quello delle tensioni sociali, concentrate soprattutto al Settentrione. "Dopo cento giorni di lockdown gli italiani iniziano ad avere paura: sette su dieci temono che la crisi economia possa far esplodere le rivolte sociali, soprattutto al Nord. Solo cinque (come dicevamo, ndr) su cento dichiarano di avere ancora fiducia nei politici".E cosi Il debito pubblico italiano è così pesante che l'unica possibilità per il Paese è ottenere aiuti dall'Unione europea. E' quanto afferma il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che ancora una volta sbarra la strada all'ipotesi di una condivisione del debito a livello europeo. "Non saranno in grado di gestire la situazione senza l'aiuto della Ue e di Paesi come l'Austria", afferma Kurtz in un'intervista a Bloomberg Tv. "Ma non credo che l'idea di un debito condiviso sia la risposta giusta", aggiunge il cancelliere austriaco.

Secondo Kurz, la soluzione per Paesi come l'Italia o la Spagna è nel pacchetto di aiuti Ue da 500 miliardi di euro che, afferma, se necessario potrebbe essere ampliato. "E' chiaro che vogliamo sostenerli e mostrarci solidali", afferma ancora il cancelliere austriaco riguardo ai Paesi più colpiti dalla pandemia di coronavirus.

Cronicamente con indicatori economici insufficienti, l'Italia era già avviata sulla strada della recessione prima del duro colpo inflitto dalla pandemia di Covid-19. Con la previsione della Commissione Europea, secondo cui quest'anno il Pil italiano si ridurrà del 9,5%, il debito italiano dovrebbe crescere fino al 160% del Prodotto Interno Lordo.

Insieme a Francia e Spagna, l'Italia si batte in Europa per il via libera ad un'assistenza economica garantita da tutti gli Stati membri (coronabond - ndr), incontrando l'intransigente opposizione di Germania, Olanda, Austria e Paesi scandinavi.

Nel frattempo, sempre secondo Gentiloni, i Paesi della Ue possono già beneficiare del Mes senza condizionalità, ovvero di un prestito a tassi pressochè nulli da restituire in 10 anni per coprire le spese sanitarie necessarie per fronteggiare e superare l'emergenza Covid-19.  

Dobbiamo essere contenti per una nostra connazionale che rientra a casa, però adesso lo Stato italiano deve dimostrare che sarà implacabile con suoi sequestratori". Lo ha detto il leader dei Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, commentando la liberazione di Silvia Romano in collegamento con Aria Pulita su 7 Gold. "Noi - ha detto Meloni - non possiamo in alcun modo correre il rischio che si possa ritenere in giro per il mondo che rapire un italiano può essere remunerativo".

Non possiamo che essere felici che una cittadina italiana sia stata liberata dai cittadini italiani. Mi lasciano perplesse le modalità: la riflessione per la quale l'Italia paga sempre chi sequestra un italiano rischia di avere un rovescio della medaglia, cioè che gli italiani siano considerati dai terroristi islamici soggetti utili a garantire approvvigionamenti economici". Lo ha detto il presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, intervenendo a Radio Capital sulla liberazione di Silvia Romano.

"Sono sicuro che i servizi segreti lavoreranno con la massima cautela, ma bisogna stare attenti, perché si rischia di avere un ritorno controproducente, invece che utile a tutelare gli italiani nel mondo", ha aggiunto.

Sulla conversione all'Islam della cooperante milanese, Fedriga ha precisato di "non entrare nel merito delle scelte personali. Penso che le scelte che ha compiuto, lei ha detto liberamente, sono sicuramente condizionate da uno stato di prigionia di 18 mesi, non stiamo parlando di una persona che ha scelto la sua strada facendo una vita normale. Bisogna avere il massimo rispetto di queste situazioni, si tratta anche di condizionamenti molto pesanti, indipendentemente, ripeto, se siano liberi o no, ma non sono in grado di dirlo e credo che nessuno sia in grado di dirlo".

Il sindaco di Ovindoli Simone Angelosante, nonché consigliere regionale della Lega in Regione Abruzzo, che conferma di aver postato su facebook il meme del Pd con il viso sorridente di Silvia Romano e il suo commento: "Avete mai sentito di qualche ebreo che liberato da un campo di concentramento si sia convertito al nazismo e sia tornato a casa in divisa delle SS?". "Non mi sembra di aver detto niente di negativo - prosegue il consigliere regionale leghista - ho solo riportato un dato storico e oltre tutto non ho fatto nessun nome della ragazza. Ma comunque è una idea che gira sulle radio nazionali", conclude.

Silvia Romano ora è un’islamica. Il suo percorso di conversione, come lei stessa ha raccontato, non è avvenuto sotto costrizione. A metà della sua prigionia ha chiesto un Corano e da lì avrebbe iniziato un percorso di fede che l’ha portata a credere in Allah e nel suo profeta, Maometto

A confermare l'avvenuta conversione della cooperante, che si sarebbe concretizzata durante la sua lunga prigionia in Somalia, nelle mani del gruppo fondamentalista di al Shabaab, secondo quanto riportato da Open sarebbe stata proprio lei: "Sono felicissima, grazie. Sto bene fisicamente e mentalmente. Sono stata forte. Grazie alle istituzioni. Ora voglio stare con la mia famiglia. È vero, mi sono convertita all'Islam. Ma è stata una mia libera scelta, non c'è stata nessuna costrizione da parte dei rapitori, che mi hanno trattato sempre con umanità. Non è vero, invece, che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche, né violenze". Nei mesi scorsi si erano diffuse indiscrezioni, sempre smentite dai servizi segreti italiani, sul fatto che la ragazza avesse sposato uno dei suoi carcerieri, con rito islamico


E' un "jilbab" l'abito con cui Silvia Romano è scesa dall'aereo all'aeroporto militare di Ciampino dopo 18 mesi dal suo rapimento in Kenya. Una copertura tradizionale che non ha un forte connotato religioso sebbene sia comune in ambienti dell'Africa orientale dove è diffusa la fede islamica. "Quell'abito si chiama jilbab", ha notato Freddie del Curatolo, direttore di malindikenya.net, "il portale degli italiani in Kenya". "Non è un abito religioso ma chiaramente è indossato da donne islamiche", ha aggiunto. "E' un abito più da passeggio.

Lo usano molto le tribù al confine tra Kenya e Somalia come gli Orma e i Bravani", ha aggiunto il giornalista da 15 anni nel Paese africano. L'abito è verde, colore che solo in maniera controversa simboleggia l'Islam apparendo ad esempio sulle bandiere di Arabia Saudita, Algeria, Pakistan e della stessa Lega araba. Il colore del Profeta era infatti il nero, come mutuato da Daesh (l'Isis) e il verde è solo un fatto culturale che indica quello che gli arabi del deserto non avevano: la verzura (nel Corano si parla del Paradiso come, verde anzi verdissimo).

Ma secondo il quotidiano il giornale, dalle pieghe del suo racconto emerge anche un altro aspetto. Dopo la conversione, la Romano avrebbe anche cambiato nome. Non è più Silvia, adesso si chiama “Aisha”. Sarebbe questo il nome islamico che la ragazza ha scelto durante la sua prigionia e che ha rivendicato una volta tornata a casa, nel suo Paese. Ma perché ha scelto proprio il nome Aisha? Cosa significa nell’islam? Il nome è un omaggio ad Aisha bint Abi Bakr, figlia di Abu Bakr, primo califfo dell’islam. Ma Aisha è stata anche la più importante delle spose di Maometto. Secondo quanto riportato dal testo islamico, Aisha sposò Maometto per superare il lutto della amata moglie Khadija nel 619.

In arabo il nome di Aisha significa “Madre dei credenti”. E dopo la morte di Maometto, la donna divenne un punto di riferimento importante per tutto il mondo islamico. Quanto appreso da Mametto lo confidò al nipote Urwa ibn al-Zubayr. Insomma la scelta di Silvia Romano di farsi chiamare Aisha ha di certo un significato profondo che di fatto spiega anche il percorso di conversione affrontato durante la prigionia in Somalia.

Silvia Romano è stata liberata anche con il contributo dei servizi segreti turchi che sono “presenti in quell’area” ha riferito la viceministro agli Esteri Marina Sereni intervenendo a Omnibus. Gli 007 turchi sono stati determinanti “per identificare il luogo e agire al momento giusto” ha riferito Sereni.

Silvia Romano sta bene, anche la viceministro rassicura e la giovane cooperante rapita in Kenya il 20 novembre del 2018 dal villaggio di Chakama, e arrivata alle ore 14.00 a Ciampino con un volo speciale partito da Mogadiscio, dove la ragazza è stata condotta dopo la liberazione presso il compound delle forze internazionali di istanza nella capitale somala.

Da Ciampino, Silvia Romano sarebbe stata accompagnata in una caserma dei carabinieri del Ros per essere ascoltata dal pubblico ministero della procura di Roma, Sergio Colaiocco, e dagli ufficiali dell'antiterrorismo dei carabinieri che, in questi mesi, hanno indagato sul suo sequestro in Kenya, avvenuto il 20 novembre 2018, in un villaggio a 80 chilometri da Malindi. Fonti somale, contattate e citate da Adnkronos, la avrebbero confermato la conversione della volontaria, riferendo che potrebbe essere questa la ragione della "prudenza" usata dalla giovane nel rispondere alle domande degli investigatori locali al momento della liberazione, tutte circostanze da prendere con la dovuta cautela e che, infatti, dovranno trovare riscontro nell'interrogatorio della ragazza da parte proprio dei pm romani. La giovane dovrebbe fare rientro a Milano nelle prossime ore.

Silvia Romano aveva fatto sapere di stare bene e di essere stata forte durante la prigionia. 18 mesi inghiottiti nel nulla al confine tra il Kenya e la Somalia. Sparita dal povero villaggio di Chakama dove prestava servizio come volontaria, è stata a lungo ricercata nelle foreste del vicino parco nazionale di Tsavo ma senza successo.
Negli ultimi mesi era calato un certo riservato silenzio sulla vicenda, che ha portato alla sua liberazione a oltre mille chilometri dal luogo del rapimento.

Ieri il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha annunciato la liberazione di Silvia su Twitter. "Silvia Romano è stata liberata! Ringrazio le donne e gli uomini dei servizi di intelligence esterna. Silvia, ti aspettiamo in Italia!", ha scritto Conte.
 
 
 

L'ex pm antimafia di Palermo ora al Csm contro il ministro della Giustizia. Non in una sede istituzionale. Ma in una trasmissione televisiva. Poco prima di mezzanotte a Non è l'arena di Massimo Giletti. Tema: il posto di capo del Dipartimento delle carceri. In sintesi: Nino Di Matteo accusa Alfonso Bonafede di avergli prima proposto, nel 2018, quindi nel governo Lega-M5S, di fare il capo delle carceri. Ma dopo due giorni avrebbe fatto marcia indietro. La voce corre. La polizia penitenziaria registra la reazione di importanti boss che tra di loro in cella dicono "se arriva questo abbiamo chiuso", "faremo ammuina". Le telefonate diventano pubbliche con un articolo del Fatto quotidiano.  

Cosi Il magistrato Nino Di Matteo ha accusato il ministro Alfonso Bonafede di non averlo nominato nel 2018 alla guida dell’amministrazione penitenziaria dopo essere venuto a conoscenza del parere negativo di alcuni importantissimi boss mafiosi detenuti in carcere. I partiti di opposizione sono sul piede di guerra, Giorgia Meloni ha già parlato di dimissioni, mentre sull’argomento Matteo Renzi ha frenato, pur parlando del “più grande scandalo sulla giustizia negli ultimi anni”. L’ex premier vuole però vederci chiaro sulla vicenda prima di parlare di dimissioni

Il guardasigilli si è difeso con un post su Facebook e ha parlato di “vergognoso dibattito” dal quale è emersa “un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda”. Bonafede ha rivendicato di aver sempre agito “a viso aperto nella lotta alle mafie”, ma Di Matteo ha ribadito la sua versione ad affaritaliani.it, gettando ombre sul ministro grillino: “I fatti che ho riferito ieri li confermo - ha dichiarato il magistrato, che ha sollevato un polverone con l’ospitata a Non è l’Arena - e non voglio modificare o aggiungere alcunché né tanto meno commentarli”.

Di Matteo afferma adesso di essere tornato da Bonafede per accettare il posto al Dap, ma a quel punto il Guardasigilli gli avrebbe detto di aver scelto Francesco Basentini, mentre per lui era disponibile la poltrona di direttore degli Affari penali. Dopo la telefonata di Di Matteo ecco quella di Bonafede che si dichiara "esterrefatto" e propone una versione del tutto opposta nella ricostruzione della proposta e dei tempi. Avrebbe ipotizzato subito con Di Matteo le due soluzioni, la direzione del Dap o quella degli Affari penali, dicendogli però di preferire la seconda strada, perché quello era il posto che fu di Giovanni Falcone ed era più importante nella lotta contro la mafia.

Il caso Di Matteo-Bonafede esplode in Parlamento e diventa l'argomento top della giornata. Fdl e Lega chiedono le dimissioni del ministro. Forza Italia vuole il Guardasigilli subito in Parlamento. Stessa richiesta dal Pd che però mostra cautela sulle dichiarazioni di Di Matteo. Tant'è che l'ex Guardasigilli e oggi vice segretario del Pd Andrea Orlando, che pure ha avuto momenti di tensione con Bonafede sia sulle intercettazioni che sulla prescrizione, e certo sulle carceri è da sempre più garantista, lo difende. E dice che "sarebbe gravissimo se un ministro si dovesse dimettere per i sospetti di un magistrato".

E motiva le sue ragioni: "So che Bonafede forse non ragionerebbe così, ma si creerebbe un precedente gravissimo. Il sospetto non è l'anticamera della verità, sinché non verificato resta un sospetto". Il Pd conferma la linea con il responsabile Giustizia Walter Verini e il capogruppo in commissione Antimafia Franco Mirabelli che chiedono al Guardasigilli di riferire subito in Parlamento perché "nella lotta alla mafia la confusione non è ammessa". Verini e Mirabelli definiscono "irresponsabile l'atteggiamento di chi usa un tema come questo per giustificare l'ennesima richiesta di dimissioni di un ministro".

È il fucile nelle mani di chi nel Movimento spinge per il passo indietro del Guardasigilli. La tensione è alle stelle. Il caso Bonafede diventa l'occasione per regolare i conti tra le anime del Movimento. È una faida tra chi contesta la deriva e chi rimane fedele ai valori dell'origini

«Al minimo dubbio, nessun dubbio»: da domenica sera (dopo le rivelazioni del magistrato Nino Di Matteo a Non è l'Arena sulla trattativa con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per la scelta del capo del Dap) nelle chat dei parlamentari grillini rimbalza la citazione di Gianroberto Casaleggio

Scorrendo le agenzie non c'è traccia, fino alle 18 e 30 di ieri, delle dichiarazioni (in difesa del Guardasigilli) scrive il quotidiano il Giornale da parte di ministri e parlamentari dei Cinque stelle. Solo dopo la replica (balbettante) del ministro, c'è chi esce allo scoperto. Un vuoto di venti ore che certifica la spaccatura. Il Movimento si interroga (e litiga) sulla strada da imboccare: scaricare Bonafede o aprire il fuoco contro il magistrato simbolo dell'ala giustizialista dei Cinque stelle. I gruppi whatsapp dei grillini sono una polveriera. La discussione si infiamma subito. Quasi in tempo reale, con l'intervento in diretta di Bonafede al programma condotto da Massimo Giletti, si accende lo scontro. Nel privato delle chat c'è chi avanza la richiesta di dimissioni. «Bonafede è indifendibile», «onestà onestà solo slogan»: è' questo il tono dei messaggi che si scambiano deputati e senatori del M5s. Il silenzio stampa (anche del capo reggente del Movimento Vito Crimi) è lo specchio dell'imbarazzo. La tentazione di mollare il ministro, chiedendo un passo indietro, c'è. Ma i vertici (da Luigi Di Maio e Riccardo Fraccaro) frenano: «Bonafede è anche il capodelegazione dei Cinque stelle al governo. Se salta il ministro della Giustizia è a rischio la tenuta del governo Conte». Prevale, dunque, la linea del silenzio. Nessuna fuga. Niente attacchi dall'interno. Non manca chi sollecita un intervento di Alessandro Di Battista.

Entra nella polemica l'ex senatore grillino scrive il Giornale Gianluigi Paragone per chiedere le dimissioni del ministro. Lo scontro Bonafede-Di Matteo manda in tilt lo staff comunicazione dei Cinque stelle. Nessuno è in grado di attivare (fino alle 18 e 30) la macchina della propaganda per alzare uno scudo in difesa di Bonafede. Per tutta la giornata i parlamentari incassano l'offensiva delle opposizioni. C'è chi chiede al ministro di assumere una posizione chiara. Di ricostruire con un post (che poi arriva) tutta la vicenda. Non manca chi invece suggerisce di aspettare l'editoriale del direttore de Il Fatto Quotidiano Marco Travaglio per capire la strategia da seguire. È un susseguirsi di accuse, veleni e timori. Alla fine si opta per il salvataggio (della poltrona) di Bonafede. Il viceministro dell'Economia Laura Castelli tira un sospiro di sollievo e si lancia nella difesa: «Sulla linearità d'azione e correttezza, morale e professionale del nostro ministro nessun deve alimentare congetture». Anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà sceglie la difesa pubblica del ministro. I duri e puri battono in ritirata. Ma lo scontro resta aperto.

Tutto il centro-destra chiede le sue dimissioni, mentre a sua difesa si schiera il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che fa sapere di avere "piena fiducia" in lui. Motivo: lo scontro a distanza con un'icona dell'antimafia, il consigliere del Csm Nino Di Matteo, che lo accusa di avergli prima offerto nel 2018 la guida delle carceri e poi aver fatto marcia indietro, dopo che alcune intercettazioni avevano rivelato le preoccupazioni dei boss per una simile prospettiva. "Respingo con convinzione gli attacchi politici o le congetture prive di fondamento rispetto a scelte compiute da Bonafede in piena autonomia", reagisce il capo politico del M5S Vito Crimi, ribadendo la "fiducia" sua e del movimento nei confronti del ministro. Sulla stessa linea Luigi Di Maio, per il quale "Bonafede ha sempre dimostrato di avere la schiena dritta" ricordando che "siamo entrati in Parlamento con il chiaro intento di fermare il malaffare e debellare le mafie".

Gli altri partiti della maggioranza frenano sulle richiesta dell'opposizione ("sarebbe gravissimo se un ministro si dovesse dimettere per i sospetti di un magistrato", avverte il vice segretario del Pd Andrea Orlando), ma chiedono al Guardasigilli di chiarire.

Bonafede, che già ieri si era detto "esterrefatto" da una simile ricostruzione, con un post su Facebook ribadisce la sua verità e soprattutto definisce "infamante e assurda" l'idea che si sarebbe lasciato "condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso". Così come rivendica di aver "sempre agito a viso aperto nella lotta alle mafie", come testimoniato dalle riforme sostenute e dai 686 provvedimenti di carcere duro che ha firmato. Dopo le dimissioni del capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, legate alle polemiche sulle scarcerazioni dei boss (in tutto sono 376 i detenuti mandati ai domiciliari per ragioni di salute) e la sua sostituzione in corsa con il Pg di Reggio Calabria Dino Patralia, un nuovo terremoto torna a scuotere la politica sulle carceri. Il botta e risposta tra l'ex pm di Palermo e il ministro va in scena a "Non è l'arena". Di Matteo racconta che due anni fa Bonafede gli aveva proposto di dirigere il Dap o in alternativa gli Affari penali. Ma quando 48 ore dopo lui gli comunicò che accettava la direzione delle carceri, il Guardasigilli ci aveva ripensato. E queste avvenne dopo la reazione di alcuni "importantissimi capimafia", intercettati in carcere: "se nominano Di Matteo, per noi è la fine, questo butta la chiave".

La replica di Bonafede arriva con un'accesa telefonata in diretta: quella intercettazione "era già stata pubblicata". E "il fatto che avrei ritrattato, in virtù di non so quale paura sopravvenuta, non sta né in cielo né in terra", dice il ministro spiegando anche che l'incarico di capo degli Affari Penali che Di Matteo ha poi rifiutato, "non era un ruolo minore", era "lo stesso che ricoprì Giovanni Falcone".

L'effetto dello scontro è immediato. Giorgia Meloni già al termine della trasmissione invoca le dimissioni perchè "ai disastri si aggiungono le ombre". "Bonafede venga immediatamente in Parlamento", dice Mariastella Gelmini, capogruppo Fi alla Camera, che non vede alternative: "o Di Matteo lascia la magistratura o Bonafede lascia il ministero della Giustizia".

Anche la Lega sollecita il passo indietro: "Bonafede non può più essere il ministro della Giustizia", tuonano i parlamentari del partito di Salvini in Commissione Antimafia. Via Bonafede, ma non per Di Matteo, è invece la posizione del Partito radicale.

Chiarimenti al Guardasigilli vengono chiesti anche dalla maggioranza. "Siamo certi che il ministro al più presto verrà a riferire in commissione e in parlamento sull'impegno del governo contro le mafie", dicono il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini, e il capogruppo in commissione antimafia Franco Mirabelli, che giudicano comunque "irresponsabile" usare un tema come la lotta alle mafie "per giustificare l'ennesima richiesta di dimissioni". Invoca "la verità" Matteo Renzi, "prima di parlare di mozioni di sfiducia". "Voglio vedere se è un regolamento di conti" insiste il leader di Italia Viva, secondo cui la vicenda "rischia di essere il più grave scandalo giudiziario degli ultimi anni".
 
Pubblicità laterale

  1. Più visti
  2. Rilevanti
  3. Commenti

Per favorire una maggiore navigabilità del sito si fa uso di cookie, anche di terze parti. Scrollando, cliccando e navigando il sito si accettano tali cookie. LEGGI