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Quale futuro per il Collegio Nazareno? A Roma una giornata di studi

La-facciata-della-scuola

Nel giorno in cui tutte le scuole popolari cristiane del mondo ricordano la memoria di San Giuseppe Calasanzio (1557-1648), che con un’intuizione straordinaria primo fra tutte le istituì quattro secoli or sono, si è svolta a Roma, presso il centrale oratorio dell’arciconfraternita di Sant’Eligio de' Ferrari, a due passi dal Campidoglio, la prima giornata di studi su quel Collegio Nazareno che dell’opera educativa del religioso aragonese rappresenta ancora oggi, tanto per prestigio (vi hanno studiato fior di scienziati, giuristi e cardinali) quanto per tradizione (fu inaugurato nel 1630, Rettore lo stesso fondatore degli scolopi), il lascito in assoluto più importante. Da tempo, infatti, la scuola è al centro di un’incredibile vicenda di malagestione che ha fatto sì che il cinquecentesco Palazzo Tonti – un tempo identificato tout-court con il Collegio – venisse prima in parte affittato a privati (su tutti, un celebre partito politico che ha aperto la sua sede centrale giusto accanto) e poi promesso ad immobiliaristi spregiudicati attivi nel ramo alberghiero: per fare il punto sulla complicata situazione un gruppo di studiosi ed ex-alunni si è quindi ritrovato per cercare di richiamare l’attenzione distratta delle istituzioni locali e sensibilizzare l’opinione pubblica capitolina rispetto a un bene popolare che ha fatto comunque la storia di Roma (giacché il Collegio originariamente nasce come scuola pubblica aperta a tutti, in effetti la prima nell’urbe di questo tipo). Dopo i saluti iniziali di monsignor Sandro Corradini, primicerio dell’arciconfraternita ospitante, è intervenuto l’architetto Claudio Merli che ripercorrendo la storia del palazzo (ceduto dal cardinale Michelangelo Tonti (1566-1622), Arcivescovo di Nazareth, appositamente per farne una scuola popolare, non altro) ha messo in luce come le tante bellezze del Collegio (dal pregiato salone settecentesco alla colorata, per quanto semplice, cappella ottocentesca) siano state col tempo progressivamente oscurate, vuoi per operazioni di rifacimento semi-artigianale di dubbio gusto, vuoi per la semplice incuria di chi avrebbe dovuto provvedere a un’opportuna manutenzione artistica, con il risultato che oggi, nonostante le sempre nuove possibilità offerte dalla tecnica, l’immobile si trova in condizioni visibili di obiettiva decadenza. Questo, tuttavia, è forse ancora il meno se si passa a considerare i travagli giuridici che il Collegio ha dovuto subire nel corso del tempo, mutando più volte status e modalità di gestione, come ha spiegato l’intervento dell'avvocato Roberto Accivile. Risparmiato dalle vicende più efferate della giacobina Repubblica Romana (1849) e quindi posto al riparo dall’incameramento dei beni decretato dalle leggi dell’eversione dell’asse ecclesiastico (1866-1867) del nuovo Stato unitario durante il turbolento periodo risorgimentale, il Collegio avrebbe dovuto essere in concreto un’opera pia al cui servizio, educativo e amministrativo, si ponevano – in tesi – gli stessi religiosi scolopi chiamati a dirigerlo pro tempore. Il nodo problematico è da rinvenirsi probabilmente nel processo di privatizzazione che interessa tutte le Ipab, come poi si chiameranno, di fine Ottocento, in particolare con la cosiddetta ‘legge Crispi’ – dal nome dell’allora Presidente del Consiglio, Francesco Crispi – del 17 luglio 1890 che cambia sostanzialmente la gestione delle opere pie dando luogo a una logica di progressiva commercializzazione degli enti che da allora in poi cambiano tanto spirito quanto composizione dirigenziale, fino ad arrivare alla situazione odierna di matrice aziendalista per cui la tutela della dimensione pubblica dell’opera viene de facto completamente stralciata e persino le finalità statutarie fondative possono cambiare repentinamente a seconda di sopravvenute decisioni arbitrarie di questo o quel consiglio di amministrazione in un’ottica di mero conseguimento di utili e profitti. Comunque sia, se nel XIX secolo lo scrittore Niccolò Tommaseo (1802-1874), autore di uno dei primi dizionari della lingua italiana, poteva ancora scrivere che “l'Italia deve essere debitrice al Calasanzio per l'istruzione” fotografando a suo modo per i posteri il portato sociale della rivoluzione educativa calasanziana (nessuno Stato aveva mai fatto tanto per i figli delle famiglie meno fortunate), che poneva le basi pratiche anche della pedagogia moderna favorendo sul territorio la nascita di una rete di alleanza e assistenza che dalle famiglie andava agli educatori fino alla scuola nel suo insieme, oggi si rischia di assistere senza colpo ferire, anche per il disinteresse di non poche autorità preposte, alla chiusura definitiva di una pagina tra le più gloriose della storia educativa (non solo, o tanto, cristiana) del nostro Paese. La speranza, come hanno ricordato gli ultimi interventi, è quella che almeno i vincoli morali di coscienza, se non più quelli archeologici o architettonici, restituiscano a Roma la sua scuola prima come luogo di crescita per le famiglie romane di oggi, che pure lamentano la mancanza di autorevoli strutture di fiducia a cui affidare l'educazione dei loro figli, e di fondamentale memoria per le generazioni che verranno.

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