Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *
Captcha *
Reload Captcha
Giovedì, 02 Maggio 2024

Le opere di Bach: gli eff…

Mag 02, 2024 Hits:103 Crotone

In città l'ultima tappa d…

Apr 30, 2024 Hits:190 Crotone

Convegno Nazionale per la…

Apr 23, 2024 Hits:400 Crotone

L'Associazione "Pass…

Apr 05, 2024 Hits:849 Crotone

Ritorna Calabria Movie Fi…

Apr 03, 2024 Hits:888 Crotone

La serie evento internazi…

Mar 27, 2024 Hits:1111 Crotone

L'I.C. Papanice investe i…

Mar 01, 2024 Hits:1561 Crotone

Presentato il Premio Nazi…

Feb 21, 2024 Hits:1666 Crotone

Il Direttore SVIMEZ Luca Bianchi  presentato nella sala Bliblioteca della Stampa Estera il Rapporto SVIMEZ 2019 sull'Economia e la Società del Mezzogiorno. Presenti numerosi giornalisti e foto cine operatori della stampa straniera. Molte le domande sui recenti studi della SVIMEZ sull’impatto della crisi dell'ex Ilva sull'economia nazionale Ha moderato Gianfranco Nitti.

E questa sarebbe in sintesi quello che lui ha parlato con i colleghi della stampa estera

“Nel Sud gli emigrati sono il doppio degli immigrati. Se si va avanti così la Basilicata rischia di scomparire. Ma il problema riguarda tutto il Mezzogiorno. Il rischio è che la soluzione del Mezzogiorno avverrà per assenza dei meridionali”. Ad andare via sono soprattutto i giovani. “Serve un grande piano di investimenti in infrastrutture sociali”. Lo dice il direttore SVIMEZ, Luca Bianchi, alla stampa estera .

"Nel progressivo rallentamento dell'economia italiana, si è riaperta la frattura territoriale che arriverà a segnare un andamento opposto tra le aree, facendo ripiombare il Sud nella recessione da cui troppo lentamente era uscito". Così si legge nelle anticipazioni del rapporto Svimez secondo il quale nel 2019 "l'Italia farà registrare una sostanziale stagnazione, con incremento lievissimo del Pil del +0,1%. Al Centro-Nord dovrebbe crescere poco, di appena lo +0,3%. Nel Mezzogiorno, invece, l'andamento previsto è del -0,3%.

"Si riallarga il gap occupazionale tra Sud e Centro-Nord, nell'ultimo decennio è aumentato dal 19,6% al 21,6%: ciò comporta che i posti di lavoro da creare per raggiungere i livelli del Centro-Nord sono circa 3 milioni". E' quanto emerge dal Rapporto Svimez. "La crescita dell'occupazione nel primo semestre del 2019 riguarda solo il Centro-Nord (+137.000), cui si contrappone il calo nel Mezzogiorno (-27.000)", viene sottolineato.


La SVIMEZ riguardo l ilva ha valutato tale impatto, distinto per le diverse aree geografiche utilizzando il suo modello di previsione econometrico. L’esercizio di valutazione considera gli effetti diretti, indiretti, e indotti.


1)  Il primo riguarda la produzione realizzata e l’occupazione che si perderebbe direttamente nei tre impianti oggetto di valutazione.

2)  Il secondo effetto (indiretto) valuta conseguenza,in termini di minori input e servizi acquistati, che dai tre impianti si diffondono nei restanti comparti, e da questi ad altri ancora. Nell’effetto indiretto, ad esempio, è computato il valore (e l’occupazione) dell’energia elettrica prodotta in regione e/o altrove necessaria ad alimentare le acciaierie.

3)  Il terzo, l’indotto, riguarda la riduzione di consumo che deriva dai minori livelli di occupazione, diretta e indiretta.

L’impatto annuo sul PIL nazionale è stimato, considerando gli effetti diretti, indiretti e indotti, in 3,5 miliardi di euro, di cui 2,6 miliardi concentrata al Sud (in Puglia) e i restanti 0,9 miliardi nel Centro-Nord, pari allo 0,2% del PIL italiano. Se consideriamo l’impatto sul Pil del Mezzogiorno si sale allo 0,7%.

Un impatto negativo si avrebbe soprattutto sulle esportazioni (-2,2 mld) ma anche sui consumi delle famiglie (-1,4 mld), considerando il significativo impatto del venir meno degli stipendi degli addetti dello stabilimento, dell’indotto diretto e degli effetti occupazionali del rallentamento dell’economia. Si ricorda infatti che l’occupazione impegnata da ILVA è di quasi 10 mila addetti (di cui oltre l’80% a Taranto), di circa 3 mila dipendenti nell’indotto e di altri 3 mila addetti legati all’economia attivata dall’azienda. Parliamo di un bacino complessivo di oltre 15 mila persone che rischierebbe di perdere il salario.

Un ulteriore esercizio, più completo, è stato svolto inoltro al fine di valutare non soltanto l’effetto immediato della chiusura rispetto all’attuale situazione che, come detto, è già molto al disotto del potenziale produttivo, ma valutando quanto l’Italia perde dal non portare a termine il piano industriale che l’azienda si era impegnata a realizzare.

Il piano industriale proposto da AM Investimenti prevedeva di portare la produzione di Taranto e dei due siti del Nord a otto milioni di tonnellate, pari a circa il 35% della produzione nazionale di acciaio. Dopo il 2023, con la messa nuovamente in funzione dell’altoforno numero cinque, l’output realizzato a Taranto sarebbe dovuto salire a otto milioni di tonnellate annue (cui si aggiungerebbero i due milioni realizzati nel Nord) e la quota sul totale nazionale sarebbe destinata a salire a oltre il 40%. Nell’arco temporale di implementazione del piano industriale la nuova società avrebbe inoltre realizzato 2,4 mld. di euro di nuovi investimenti, cui si aggiungevano i circa 1,1 mld. di spese destinate alla bonifica del sito oggetto di transazione con la precedente proprietà.

Nel periodo di attuazione del piano industriale (2019-2023), il Pil complessivamente attivato dalla produzione realizzata nel sito di Taranto e negli altri due del Nord sarebbe stato pari a 19 mld. di euro nell’intero arco temporale coperto dal piano industriale.  per avere un termine di paragone, si tratta nel complesso di 1,1% del Pil italiano; nel Sud l’impatto sale al 3,7% del Pil dell’area.

Sotto il profilo occupazionale, nell’intero periodo di attuazione del piano industriale si valuta che la produzione complessivamente realizzata avrebbe creato circa 51,000 posizioni lavorative, di cui 41,000 in puglia e le restanti altrove (anche in questo caso: la gran parte nel Centro-Nord).......

 

Intanto la SVIMEZ esprime apprezzamento, ma anche qualche perplessità, sulla legge quadro recante «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata» presentata dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Nel corso di un’audizione presso la Commissione (VI) Finanze della Camera dei Deputati, il Presidente e il Direttore SVIMEZ, Adriano Giannola e Luca Bianchi, hanno spiegato che si tratta di «un’importante iniziativa da parte del Governo perché opportunamente orientata a colmare un rilevante vuoto normativo con una leggequadro di attuazione del dettato costituzionale». 

 

E giudicano un notevole passo in avanti i riferimenti ai LEP, agli obiettivi di servizio e ai fabbisogni standard rispetto alle bozze di intesa di Emilia Romagna, Veneto e Lombardia che evitavano ogni riferimento alla legge 42 del 2009 e al D. Lgs. 68/2011. Oltre al fatto di riconoscere un maggior, anche se ancora insufficiente, protagonismo del Parlamento. Tra le note positive, SVIMEZ ha anche evidenziato che quanto previsto dalla legge quadro in tema di contributo delle Regioni richiedenti al risanamento delle finanze pubbliche consente di scongiurare i rischi di equità territoriale e di tenuta unitaria del sistema unitario dei conti pubblici sottesi alle richieste fin qui avanzate. 

 Così come viene valutato favorevolmente il richiamo che viene fatto, tra gli obiettivi e le previsioni alle quali lo Stato dovrà conformarsi nella sottoscrizione delle Intese, all’esigenza del rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza delle funzioni decentrate sanciti dall’art. 118 della Costituzione. Accanto ai pregi della bozza di legge, l’Associazione ha esposto alla Commissione Parlamentare alcune perplessità ribadendo la necessità di inquadrare la discussione in tema di autonomia differenziata nel contesto «allargato» di un’attuazione organica, completa ed equilibrata del Titolo V riformato nel 2001 e in conformità della legge 42 di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Il primo punto che rischia di indebolire fortemente l’impostazione (corretta) della legge-quadro come tassello della riforma complessiva del Titolo V della Costituzione, è quello in cui è previsto che, qualora entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa che attribuisce per la prima volta la funzione, non siano stati definiti i LEP e i fabbisogni standard, le funzioni siano attribuite e le relative risorse siano assegnate «sulla base delle risorse a carattere permanente iscritte nel bilancio dello Stato a legislazione vigente». 

 L’utilizzo sia pur transitorio della spesa storica, lascia aperto il rischio di una cristallizzazione dei divari di spesa, cui è imputabile una parte non trascurabile della crescita dei divari dell’ultimo decennio denunciata da questa Associazione. Del resto, lo stesso Ministro Boccia, in sede di audizione a questa Commissione, il 23 ottobre 2019 ha confermato che, in carenza di LEP, costi e fabbisogni standard, il criterio di assegnazione della spesa storica ha determinato la sistematica penalizzazione delle aree meno sviluppate e, in particolare, delle regioni meridionali. Nonostante sia comunque da valutare positivamente il tentativo di fornire un ancoraggio «cooperativo» all’autonomia differenziata, il disegno di legge è poi migliorabile con riferimento ad ulteriori due aspetti «sostanziali» tra loro connessi. 

 Il primo riguarda l’assenza della individuazione puntuale di criteri di accesso al regionalismo differenziato «da verificare sulla base di analisi e valutazione accurate e adeguatamente documentate» secondo quanto suggerisce anche l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Il secondo riguarda il fatto che il d.l. non esplicita tra i principi ai quali deve conformarsi l’Intesa Stato-Regione che le concessioni di autonomia rafforzata su singole funzioni vadano motivate dall’interesse nazionale, non da quello particolare delle singole Regioni richiedenti. Non intervenendo su questi due aspetti, il disegno di legge lascia sostanzialmente inevasi due quesiti: le richieste di autonomia rafforzata che verranno accolte, saranno motivate adeguatamente da giustificazioni economiche nell’interesse pubblico nazionale? E, parimenti rilevante, come e quanto verrà valutato il fatto ampiamente certificato di aver fruito dal 2009 di un improprio privilegio nel riparto di risorse pubbliche erariali di conto corrente ed in conto capitale sottratte ad altri territori? La legge Boccia, infine, interviene sul vulnus della perequazione infrastrutturale, in particolare sull’indifferibile esigenza di colmare i divari, soprattutto ma non solo tra Sud e Nord, nelle dotazioni e nella qualità dei servizi erogati.

E a tal fine prevede l’istituzione di un Fondo perequativo con una dotazione iniziale di 100 milioni per il 2022, 200 per il 2023 e 300 per ciascuno degli anni dal 2024 al 2034, al fine di assicurare il recupero del deficit infrastrutturale delle diverse aree geografiche del territorio nazionale, anche infra-regionali. Quanto previsto dall’art. 3 del d.l. può contribuire all’accelerazione del processo di ricognizione dei divari di dotazioni esistenti, ma emergono rilevanti criticità in ordine alla costituzione di un apposito Fondo, che peraltro si aggiungerebbe alle diverse programmazioni già esistenti della spesa ordinaria e aggiuntiva, i cui obiettivi sono chiaramente sproporzionati rispetto alla modesta dimensione finanziaria. Il maggiore rischio è soprattutto quello di costituire un ulteriore fondo di riserva per le aree a ritardo infrastrutturale, rinunciando all’obiettivo di riuscire ad orientare l’intera politica infrastrutturale del Paese all’obiettivo di rimozione di tali deficit, in coerenza con i vincoli di finanza pubblica.

Sono mesi sempre più problematici per l’economia della Germania, sempre più fiacca e intrappolata nel circolo vizioso della stagnazione produttiva e dell’assenza di vere prospettive di rilancio.

L’Italia, priva di una politica industriale degna di questo nome, rischia di essere la grande sconfitta della crisi tedesca. I dati di alcuni settori dell’Italia del Nord sono indicativi in tal senso: tra settembre e novembre, ad esempio, l’economia della provincia di Brescia, tra le più integrate con la Germania, ha conosciuto un rallentamento del 4,5% nel campo della produzione industriale, ancora più accentuata in quei settori funzionali all’export, come metallurgia (-6,7%), meccanica tradizionale (-5,9%) e componentistica (-4,9%). In Lombardia, oltre al caso bresciano, il Messaggero segnala che i distretti più in crisi nell’ultimo scorcio di 2019 sono alcuni tra quelli più legati alla catena del valore tedesca, specie nel settore auto: la gomma del Sebino Bergamasco (-9,7%), la metalmeccanica di Lecco (-7%) e la meccanica strumentale di Bergamo (-14%). La crisi della Germania è una crisi europea. E l’Italia deve impegnarsi politicamente per contenerne le conseguenze interne: non sapendo per quanto a lungo si potrà protrarre, un’azione incisiva in materia di politica commerciale ed industriale non è solo desiderabile ma anche necessaria.

“L’industria dell’auto più di ogni altra branca, ma anche il resto del vasto comparto manifatturiero tedesco, soffre della crisi mondiale del mercato delle quattro ruote”, fa notare Repubblica. Tale situazione problematica è “aggravata poi dai ritardi delle scelte di conversione produttiva di ogni marchio tedesco dalle auto a motori a combustione interna a modelli ibridi o elettrici, rispetto ai concorrenti asiatici, francesi, o nel comparto premium anche a confronto con Volvo”. La flessione è stata del 5,6% su base mensile e addirittura del 14,4% su base annua.

I campanelli d’allarme della Germania devono preoccupare tutta l’Europa. Intenta a serrate discussioni sul “fondo salva-Stati” (il Mes) che non devono contribuire a spostare l’attenzione dal quadro generale: la complessiva rigidità della governance economica europea avente al suo centro la Germania della Merkel. Il mercantilismo tedesco è la risultante della somma dell’austerità europea alla svalutazione interna, ma l’integrazione delle catene del valore ha portato molte industrie europee, tra cui quella dell’Italia del Nord, a essere integrate nei processi produttivi delle case madri di Berlino.

Ma la soluzione del problema economico Italiano potrebbe arrivare dal Giappone ..
Secondo quanto riportato da Bloomberg, per attuare le misure previste, il governo nipponico è pronto a stanziare un budget dal valore di 216 miliardi di euro, 121 miliardi dei quali saranno destinati al taglio delle tasse. In altre parole, per limitare i danni di un’imminente recessione globale, il Giappone pensa che non basti supportare le banche centrali, ma che occorra invece sostenere la crescita dello Stato mediante un’iniziativa politica.

A limitare l’Italia dall’adottare la ricetta del Giappone, oltre all’euro, sono anche vari trattati che inchiodano il nostro Paese a un destino nefasto. L’Unione europea marca a uomo il governo italiano ed è pronta a farsi sentire quando Roma prova, anche solo lontanamente, a imboccare la strada della diminuzione del deficit. Guai a far aumentare il deficit, che deve essere ancorato ai diktat di Bruxelles e non alle esigenze del Paese. Secondo "inside Over" la situazione è alquanto paradossale se pensiamo che l’Ue, attenta a sorvegliare i nostri conti, pretende il pagamento di 110 miliardi di euro per salvare le banche tedesche e francesi nell’ambito della riforma del Mes. Non potendo spendere un euro senza l’ok di Bruxelles, a uno “Stato senza moneta” non resta che recuperare la somma richiesta dai conti correnti dei cittadini. Ma questi, per i tecnocrati dell’Ue, sono evidentemente dei dettagli secondari.

Quanto intende mettere in campo il Giappone – e che per certi versi ha già fatto Trump negli Stati Uniti con buoni risultati – potrebbe fungere da interessante spunto anche per l’Europa, Italia compresa. Il nostro Paese avrebbe proprio bisogno della medicina adottata da Tokyo: uno stimolo alla crescita in grado, allo stesso tempo, di abbattere le tasse e far ripartire l’economia. Investimenti pubblici, ad esempio sarebbero richiesti con una certa impellenza nel campo dell’innovazione così come delle infrastrutture.

Uno stimolo enorme all’economia affiancato da uno stimolo alla domanda interna, sottolinea inside over così da assicurare da eventuali crisi estere: sono queste le due armi che dovrebbe imbracciare l’Italia seguendo l’esempio giapponese. Tra l’altro, imitare i samurai nipponici ci costerebbe circa 40 miliardi di euro, ovvero una cifra più che dignitosa per far ripartire un’economia congelata da una ventina di anni abbondanti. Certo, bisogna fare i conti con una differenza non da poco: è vero che il Giappone ha un debito pubblico che si aggira intorno al 240% del Pil – a fronte del 130% italiano – ma è altrettanto vero che, a differenza di Roma, Tokyo può contare su una sovranità monetaria.

 

Intanto in caso di elezioni, Meloni ricorda che il centrodestra avrebbe già un suo programma scritto nel 2018, che andrebbe comunque aggiornato. Secondo l’ex ministro, Lega, Fi e Fdi hanno una visione comune che è sicuramente più solida di quella dell’attuale maggioranza. L’ex vicepresidente della Camera ribadisce però che non ci sarebbe un’uscita dell’Italia dall’euro, se il suo partito andasse al governo. “Ma non penso che per stare in Europa si possa accettare tutto quello che fa male all’Italia - precisa Meloni scrive il Giornale -. Vanno valutati vantaggi e svantaggi. Alcuni Paesi, come la Germania, si sono avvantaggiati, altri, come l’Italia, si sono impoveriti”.  

il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha accusato l’opposizione di fare terrorismo sul Mes a scopi elettorali e in questo Meloni è convinta delle sue idee. Tanto è vero che oggi sarà a Bruxelles con tutti i parlamentari di Fdi per sottolineare con forza che il partito non è disposto a farsi prendere in giro su una questione così importante. In un'intervista alla Stampa, l’ex ministro auspica che qualcuno risponda alle sue osservazioni, riassumibili in alcune domande. “È vero o non è vero che con la riforma il Mes diventa sempre più un fondo salva-banche? - chiede la deputata -. È vero o no che chi accede a fondo potrebbe essere costretto a ristrutturare il suo debito? È vero o no che questa ipotesi potrebbe rendere meno appetibili i titoli di Stato italiani?”. Meloni va poi all’attacco di Luigi Di Maio che in passato aveva espresso i suoi dubbi sul Mes. E ricorda che i pentastellati sostenevano nel loro programma il superamento del Meccanismo, mentre oggi stanno per votare la sua riforma.

Kyriakos Mitsotakis .. Nel suo albero genealogico è il quarto primo ministro greco: suo padre Konstantinos fu terzo, sua sorella Dora Bakoyannis è stata ministra degli Esteri. Essere venuto al mondo in una famiglia così non è stato solo un privilegio per quest’uomo di 51 anni, con diplomi a Harvard e Stanford e una carriera a McKinsey nel curriculum. Quand’era neonato, i suoi vivevano relegati agli arresti domiciliari dalla giunta dei colonnelli; quand’era studente, suo cognato fu trucidato da un gruppo armato comunista. Dev’essere anche per questo che Mitsotakis nel Maximou, la residenza dei premier, non mostra affatto la noncuranza di uno che sente di esercitare un diritto naturale; è motivatissimo, carico di energia quando dice: «Darò alla Grecia una direzione nuova dopo l’era della crisi».  

Non c’è solo la vicinanza geografica, o la comune appartenenza all’Unione europea o all’Alleanza Atlantica. Tra Italia e Grecia l’interscambio commerciale, dopo aver registrato un calo a causa della crisi economica, si è attestato su valori pressoché costanti negli ultimi anni (intorno ai 6,5 miliardi di euro, secondo i dati Istat), con il saldo commerciale sempre a favore dell’Italia. E proprio il tema dei rapporti tra i due paesi e stato sul tavolo dell’incontro a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis. L’incontro e avvenuto a poche ore dal sisma che ha colpito l’Albania.

L’Italia è il secondo fornitore della Grecia dopo la Germania ma prima della Cina, mentre sul lato delle importazioni il paese è il primo mercato di destinazione dei beni ellenici seguito da Germania e Cipro. Le esportazioni greche verso l’Italia sono soprattutto di prodotti agricoli (olio di oliva, frumento, tabacco), alimentari, prodotti ittici e silvicoli, metallurgici (acciaio, laminati, alluminio) e prodotti chimici e petroliferi raffinati. Il grado di penetrazione dei prodotti italiani è considerevole. I comparti in cui maggiore è il flusso proveniente dall’Italia sono quelli delle attrezzature industriali, delle macchine utensili, dei prodotti chimici e farmaceutici, dei mezzi di trasporto, dell’agro-alimentare, dei prodotti in gomma, plastica e carta, dei mobili, a cui si aggiungono i settori dei materiali da costruzione, delle telecomunicazioni, del tessile (abbigliamento e accessori) e dei prodotti di largo consumo.

La Grecia mantiene la sua posizione dichiara al Corriere della sera il Primo Ministro Greco come partner commerciale importante dell’Italia. Siete la destinazione più importante del nostro export e il nostro secondo maggior fornitore. Abbiamo visto importanti investimenti di imprese italiane nell’energia, nei trasporti e nelle costruzioni e invito le aziende del vostro Paese a investire ancora di più da noi, per approfittare dell’ambiente favorevole alle imprese che stiamo creando. Oltre al programma Hercules Aps (per le banche, ndr), sono stati sbloccati grossi progetti d’investimento nelle costruzioni come l’Hellinikon e l’ampliamento del porto del Pireo. Sono ripartite le privatizzazioni, inclusa quella del aeroporto internazionale di Atene. Ed è stato messo in piedi un progetto credibile per rafforzare l’azienda più grande del Paese, la Public Power Corporation». 

Lo stato e la dinamica delle relazioni bilaterali tra Italia e Grecia, i progetti energetici come il gasdotto transadriatico (Tap) e l’East-Med, fino alla questione della gestione dei flussi migratori per i paesi di primo approdo. Secondo la stampa di Atene, uno spazio particolare sarà dedicato proprio alla crisi dei migranti e al coordinamento richiesto a livello europeo e quindi ad una politica comune per trovare una soluzione al problema.

«Abbiamo accelerato le procedure di asilo e stiamo mettendo su centri di detenzione pre-ritorno in Turchia dichiara il Primo Ministro al Corriere della sera ... Ora, poiché la situazione è chiaramente molto difficile, abbiamo preso una decisione politica anch’essa delicata: spostare 20 mila persone dalle isole alla terraferma. Ma l’Europa deve smettere di nascondere la testa nella sabbia e fingere che questo sia solo un problema greco, italiano o spagnolo. È una questione europea».

In virtù del nuovo aumento degli sbarchi, il governo greco guidato da Mitsotakis ha promesso un giro di vite per aumentare l’efficienza delle guardie di frontiera e prevenire nuovi ingressi. Da dicembre, il numero di militari addetti alla prevenzione di nuovi ingressi aumenterà di 1.200 unità, sia lungo le coste che lungo i confini terrestri. Qui il governo ellenico sta pensando a fortificare anche fisicamente le frontiere con la Turchia e con la Bulgaria. Più a nord, i Paesi balcanici hanno già stanziato ingenti risorse e mezzi per fronteggiare l’aumento del flusso migratorio. Militari ungheresi presidiano le barriere di filo spinato lungo il confine con la Serbia, soldati della Macedonia del Nord guardano con costante attenzione le frontiere sempre più fortificate con la Grecia. 

Nei giorni scorsi in Croazia i militari hanno sparato verso un gruppo di persone entrate irregolarmente per cacciarle indietro, in Slovenia si invoca l’utilizzo di sensori lungo le frontiere. I colloqui si sono concentrati su progetti energetici condivisi dai due paesi. Il Tap, gasdotto in costruzione che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per trasportare il gas sino in Italia, e l’East-Med, altro progetto rilevante a livello regionale che dovrebbe essere completato e attivato entro il 2025 per trasportare gas naturale da Israele all'Italia attraverso Cipro e Grecia. Infine i due capi di governo hanno discusso sulla  prospettiva di adesione all’Unione europea per i paesi dei Balcani occidentali.    

Da Cenerentola d’Europa a paradiso dei ricchi investitori stranieri grazie a una politica di generosi incentivi fiscali. È questo il piano della Grecia pro-business del premier Kyriakos Mitsotakis, pronta a introdurre una flat tax da 100 mila euro sui redditi globali dei grandi investitori che trasferiscano la residenza fiscale in Grecia (il cosiddetto programma non-dom) e ad alleggerire le imposte societarie pagate nel Paese ellenico e quelle su dividendi ed esercizio delle opzioni su azioni.

L’obiettivo del governo, a un anno dall’uscita dall’ultimo piano di salvataggio internazionale, è chiaro: attrarre soprattutto investimenti che creino lavoro. per sostenere una ripresa che anche le ultime previsioni di autunno della Commissione europea confermano robusta: +1,8% la crescita del Pil quest’anno, 2,3% l’anno prossimo. Meno del 2,8% auspicato dall’esecutivo, ma pur sempre il doppio della media dell’Eurozona.  

Stiamo legiferando sui tagli alle tasse proprio ora dichiara al Corriere della sera il Primo Ministro Ellenico. Abbiamo appena presentato un nuovo pacchetto fiscale che taglia l’aliquota sulle imprese dal 28% al 24%, i dividendi dal 10% al 5% e taglia notevolmente il carico sul settore immobiliare. In più, creiamo un sistema di vantaggio per gli stranieri che fanno della Grecia la loro residenza fiscale e rendiamo fiscalmente conveniente la spesa in ricerca e sviluppo. È tutto concordato con l’Europa e riteniamo che non metta a rischio il surplus primario di bilancio al 3,5% nel 2020. Quest’anno e il prossimo lo rispettiamo, anche se abbiamo già ridotto la pressione fiscale». 


Le misure sono parte della legge fiscale che sarà sottoposta al Parlamento. Più in dettaglio, stando alla bozza resa pubblica per consultazione, è previsto un taglio della corporate tax dal 28 al 24% e un dimezzamento della tassa sui dividendi, dal 10 al 5 per cento.

Per quanto riguarda l’esercizio delle opzioni, anziché tassare il ricavato come reddito, si pensa ad una tassa una tantum del 15 per cento.

La misura più interesante appare però proprio il programma non-dom che - ispirandosi tra l’altro, almeno in parte, al regime introdotto anche in Italia con la Legge di bilancio 2017 - offre ai soggetti non residenti la possibilità di pagare una tassa annuale da 100mila euro sui redditi guadagnati fuori dalla Grecia, più 20mila euro per ogni membro della famiglia.

Per poterne beneficiare occorre però rispettare due requisiti fondamentali: prendere la residenza in Grecia e risiedervi effettivamente almeno 183 giorni all’anno, investire 500mila euro nell’economia nazionale (immobiliare, mercato azionario e obbligazionario gli ambiti interessati) nei primi tre anni da residenti. Il beneficio fiscale sarà ancora maggiore per chi è disposto a spendere di più: la tassa scende infatti a 50mila euro con investimenti pari a 1,5 milioni, a 25mila se gli investimenti sono pari a tre milioni.

Il programma ha una durata di 15 anni e garantisce chi decida di beneficiarne contro eventuali cambiamenti futuri nelle politiche governative.






Pubblicità laterale

  1. Più visti
  2. Rilevanti
  3. Commenti

Per favorire una maggiore navigabilità del sito si fa uso di cookie, anche di terze parti. Scrollando, cliccando e navigando il sito si accettano tali cookie. LEGGI