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Gorbachev, l'uomo che voleva salvare il comunismo

La settimana scorsa, i giornali, le televisioni, tutti hanno fatto a gara a incensare ed elogiare l’ultimo presidente dell’Urss e segretario del PCUS Michail Gorbachev, morto il 30 Agosto sera all’età di 91 anni. Il suo nome rimane associato alle due parole con cui cercò, senza riuscirci, di riformare il sistema comunista: Glasnost e Perestroika, trasparenza e ricostruzione. Intorno a Gorbachev è nata una vulgata preconfezionata, scrive Enzo Reale su atlanticoquotidiano.it, che “l’Occidente ha comprato, impacchettato e diffuso in questi decenni. [...]La vicenda politica di Gorbachev è prigioniera di un paradosso che ne stravolge completamente il senso storico: osannato da una parte come un cavaliere alato che libera l’Europa dal giogo comunista, disprezzato dall’altra come un traditore che consegna l’esperienza sovietica alle grinfie del nemico capitalista. Non è stato né l’uno né l’altro(Enzo Reale, Gorbachev: non un democratico ma l’ultimo dittatore sovietico, 31.8.22, atlanticoquotidiano.it). A parte questo articolo non ho trovato altro di interessante sulla vera storia dell’ultimo segretario del Pcus.

Tuttavia per capire chi è stato Michail Gorbachev e l’implosione del sistema sovietico, c’è un interessante studio che ha fatto lo studioso e storico, Oscar Sanguinetti sulla rivista Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica (Cristianità, n. 294, 1999, “Nei sotterranei del secolo XX: ‘Gli Archivi segreti di Mosca’”) Lo studio prende in esame il corposo volume di ben 800 pagine, “Gli Archivi segreti di Mosca”, prodotto dall’esule russo anticomunista, Vladimir Kostantinovic Bukovskij, scomparso nell’ottobre del 2019. Nel 1991, quando il sistema sovietico collassa, Bukovskij torna in Russia, dove con diversi stratagemmi, approfittando del caos del periodo eltsiniano, riesce a fotocopiare e a portare all’estero migliaia di documenti riservati degli archivi del regime. Questi documenti, dopo un lavoro di due anni, diverranno un libro, pubblicato in Italia con il titolo Gli archivi segreti di Mosca, dal forte impatto politico che però i media e le autorità occidentali cercheranno, ahimè con successo, di attutire. Con molteplici iniziative in vari Paesi, inclusa l’Italia, Bukovskij si sforzerà di rompere la cortina di fumo stesa sulla memoria sanguinosa del comunismo dagli “orfani” dell’esperimento sovietico. Fra gli intellettuali e gli attivisti anti-comunisti egli ha svolto un ruolo di primo piano, non solo per l’instancabile impegno, ma anche per l’acutezza con cui ha “letto” il comunismo e soprattutto per la diffidenza sulla reale volontà di combattere il comunismo di molti apparati e ambienti anti-comunisti “democratici” occidentali.

Tra l’altro Bukovskij ha lottato prima di morire per coronare il sogno della sua vita, ossia istituire un tribunale sul modello di quello di Norimberga — che nel 1945-1946 giudicò i crimini contro l’umanità commessi dai gerarchi nazionalsocialisti tedeschi —, il quale sottoponesse a giudizio i vertici della «casa madre» del socialcomunismo internazionale e ne condannasse, almeno sul piano morale, i delitti compiuti nei settant’anni successivi alla Rivoluzione dell’ottobre del 1917.

Lo studio di Sanguinetti analizza i vari capitoli del testo di Vladimir Bukovskij. A partire dal primo capitolo dove si parla tra l’altro dei finanziamenti ai partiti “fratelli” in Occidente e nel mondo, compreso il Pci. A noi interessa il sesto capitolo dove si affronte l’era gorbacioviana dal 1985 al 1991.

“Si apre l’era Gorbacev”. Il primo attore dell’era della glasnot, “la trasparenza” è un personaggio che assomiglia a un primo attore (Cicikov) del capolavoro di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (1809-1852), il romanzo “Le anime morte” —, il perfetto mediocre, «[…] un signore piacevole sotto tutti gli aspetti! [… ] non bello, ma nemmeno di brutto aspetto, né troppo grasso né troppo magro; non potevi dire che fosse vecchio, e tuttavia nemmeno che fosse troppo giovane…» (p. 317). E Bukovskij si sofferma su quest’ultima fase del regime per smascherarne la natura profondamente «conservatrice», al di là delle parole d’ordine, come glasnost’ e perestrojka, e delle autentiche menzogne fatte circolare in Occidente.

Il lancio di Gorbacev, come «liberale», «giovane», «energico», «amico dell ‘Occidente», e della sua elegante consorte Raissa Maksimovna Titorenko (1932-1999) — già docente di storia delle religioni, di ateismo e di filosofia marxista- leninista  — era stato accuratamente pianificato e massicciamente attuato ancor prima del suo insediamento al vertice del PCUS. «Attorno a Gorbacev e alle sue “riforme” — esordisce Bukovskij — c’è stato un tale cumulo di menzogne (alimentate anche da lui stesso), e di dimensioni talmente fantastiche, che si può credere soltanto ai documenti. Va inoltre tenuto presente che i documenti riguardanti il suo periodo di governo hanno subito una sostanziale ripulita: dopo il fallimento del putsch dell’agosto 1991 i suoi informatori fecero sparire tutto quello che poterono» (p. 666). Al momento della sua nomina a segretario generale del PCUS Gorbacev ribadirà: «Non abbiamo bisogno di cambiare politica. È una politica vera, giusta, autenticamente leniniana» (p. 667). Come già con Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin (1870-1924) nel 1924 e con Chruscev nel 1956, il partito non esita a scuotere il regime dalle fondamenta per salvare il socialismo. Con la nuova leadership la disinformazione assume dimensioni enormi e realizza il suo capolavoro quando fa credere all’Occidente che nel partito sovietico esistano «falchi» e «colombe» o «conservatori» e «riformatori», forgiandosi così una leva potentissima per dialettizzare le situazioni.

L’idillio fra Gorbacev e l’«establishment» occidentale.

Mentre il regime non molla di un palmo in Afghanistan e rimane più repressivo che mai all’interno, ogni vago accenno al cambiamento viene subito interpretato all’estero come una riforma già realizzata. Anche il disastro nucleare di Cernobyl, avvenuto nel 1986 in Ucraina, non scalfisce Michail Sergeevič, mentre si ritorce paradossalmente ai danni del potenziale nucleare occidentale. Il credito di fiducia che l’establishment occidentale faceva nei confronti di un uomo del tutto sconosciuto e in quanto alto funzionario di carriera del partito — e, aggiungo, responsabile per alcuni anni di un settore delicatissimo del partito, gli organi amministrativi, una sorta di ufficio del personale dell’organizzazione comunista — implicato fino al collo nei crimini del regime, avveniva del tutto al buio. Le parole d’ordine e i contenuti del piano di perestrojka elaborato per uscire dalla crisi e per riprendere la rimpianta politica di distensione con l’Ovest erano frutto non del caso o di un soprassalto di buona volontà del carismatico leader o del regime, ma dello sforzo coordinato di cervelli di prim’ordine per salvare il comunismo: «[…] fin da prima del 1985 ben 110 ricerche e lavori erano stati presentati al CC dai vari trust di cervelli» (p. 679). Anzi, in un’opera «controcorrente», un ex collaboratore della Sezione Internazionale del CC del PCUS, Eugen Novikov (27), sostiene che la preparazione era già cominciata all’inizio degli anni 1970, sotto Andropov, fra i «pensatori» di professione e grazie all’«[…] attività [di] tutta una serie di istituti accademici. Fra i loro compiti rientrava la revisione dell’ideologia, l’elaborazione di modelli alternativi e la ricerca di vie per trasformare il modello esistente in qualcosa di più razionale» (p. 680). Riforme nate sotto la regìa di Andropov e coordinate dalla sezione esteri del CC non potevano uscire dai «[…] confini del marxismo: si trattava soltanto di una revisione della sua variante “leniniana che lo avvicinava alla social-democrazia”» (ibidem).

Gli eventi del 1989

«Gli impressionanti avvenimenti verificatisi nel 1989 nel mondo comunista rimangono tuttora un enigma che per qualche ragione nessuno sembra interessato a sciogliere. Sotto i nostri occhi è accaduto apparentemente qualcosa di grandioso e di incredibile: nell’Europa Orientale, senza spargimento di sangue e senza particolari conflitti, è crollato il potente blocco sovietico. Tuttavia nessun governo occidentale e nessuna organizzazione internazionale […] ha analizzato come e perché ciò sia potuto accadere» (p. 694). Le spiegazioni che si trovano nelle più recenti enciclopedie risultano futili o si limitano a registrare puramente i fatti. La mano dei servizi segreti sovietici emerge evidente nell’orchestrazione delle false rivolte del 1989 e, in particolare, di quella monstre di Bucarest, conclusasi con successo ma al prezzo dell’eccidio della famiglia comunista «regnante», i Ceausescu — Nicolae (1918-1989) ed Elena (1919-1989) —, solo perché non accettava supinamente le disposizioni moscovite. Non mi soffermo sull’analisi di Sanguinetti, che tratta poi del periodo dell’URSS fra il 1989 e il «putsch» di agosto del 1991, del “golpe” di agosto del 1991 e dello scenario del dopo-golpe.

Infine propongo qualche riflessione finale sulla figura di Gorbacev.

Il giudizio di Bukovskij su Gorbacev è come sempre sferzante. «Gorby» era un manichino a uso dell’Occidente, era lo «zar-riformatore» liberale da lungo tempo atteso per addolcire ulteriormente l’ormai accettata coesistenza pacifica. Avevano tentato di crearne uno ancora prima, con Andropov, ma costui era morto troppo presto…

Lo scopo era «fare business» con lui, come si espresse, apprezzando il fatto, il premier britannico Margaret Hilda Roberts Thatcher (1925-2013), e per salvare il socialismo in Russia d’accordo con i mondialisti americani, desiderosi di salvare a tutti i costi l’esperimento sovietico, e con l’«altro» socialismo, quello «democratico» dei paesi occidentali, anch’esso interessato a non subire delegittimazioni di riflesso. Questo minuetto dell’Occidente della Thatcher, di George Herbert Walker Bush e perfino di Reagan — che recede a un certo punto dalla sua politica di logoramento economico dell’avversario e dà il via al fantastico finanziamento dei «riformisti» sovietici sulla base di prestiti, di facilitazioni commerciali, di rifornimenti alimentari, di trasferimenti o di mancato impedimento ai trasferimenti di tecnologia — con Gorbacev sarebbe costato almeno sette anni di ritardo nella caduta del comunismo sovietico e una situazione di uscita dallo stesso così ambigua e dolorosa.

Naturalmente il discorso continua chi è interessato può approfondire leggendo l’interessante studio di Sanguinetti pubblicato da Cristianità.

 

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