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Nel 1808 Roma viene occupata dall’esercito francese. Dopo un anno la città è annessa e dichiarata, dopo Parigi, seconda città dell’Impero napoleonico. Al figlio dell’imperatore è dato il titolo di Re di Roma. Il papa è fatto prigioniero ed esiliato. Il Quirinale viene trasformato per accogliere Napoleone. Per cinque anni Roma rimane in attesa di un Imperatore che non arriverà mai.

La mostra Aspettando l’Imperatore. Monumenti Archeologia e Urbanistica nella Roma di Napoleone 1809-1814, dal 19 dicembre 2019 al 31 maggio 2020 al Museo Napoleonico, vuole ricostruire il volto, rimasto in buona parte solo a livello progettuale, della Roma napoleonica attraverso 50 opere – alcune poco conosciute, altre del tutto inedite, con significativi recuperi – provenienti dalle collezioni del Museo Napoleonico e del Museo di Roma a Palazzo Braschi.

L’esposizione, a cura di Marco Pupillo, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Organizzazione di Zètema Progetto Cultura.

Nel percorso espositivo che si articola in quattro sezioni: 1) La Roma di Napoleone; 2) Celebrazioni romane per la nascita del Re di Roma; 3) Scavi archeologici; 4) Il volto della città, sono esposti i progetti monumentali che, nel segno del recupero dell’antico, avrebbero dovuto caratterizzare la nuova Roma imperiale (statue, archi di trionfo, ponti, cimiteri extra-urbani e scavi archeologici). Accanto a questi, i progetti di rinnovamento urbanistico di ampie zone della città (passeggiate del Pincio, del Campidoglio e dell’area Flaminia – la “Villa Napoleone” –sistemazione degli argini del Tevere), che videro coinvolti architetti romani come Camporese, Valadier e Stern, e francesi come Berthault e Gisors.

Questi fogli di grande formato e di forte impatto visivo, realizzati con grande cura dei particolari e sinora mai esposti in mostra, testimoniano una breve stagione di grande effervescenza creativa, da ricondurre ai propositi francesi di modernizzare e laicizzare la città, valorizzando al tempo stesso la sua eredità millenaria di storia e arte, monumentale e simbolica.

In seguito all’inasprimento crescente dei rapporti tra il papato e l’imperatore Napoleone, il 2 febbraio 1808 l’esercito francese entra a Roma sotto il comando del generale Miollis. È la seconda occupazione in dieci anni, dopo quella del febbraio 1798 che aveva portato alla breve esperienza della Repubblica Romana. Sedici mesi più tardi, il 16 maggio 1809, all’apice del suo successo politico-militare Napoleone emana da Vienna, capitale conquistata dell’impero Asburgico, un decreto imperiale con cui annette gli Stati Romani all’Impero francese. Roma “è dichiarata città imperiale e libera”. Papa Pio VII Chiaramonti è arrestato nel Palazzo del Quirinale nella notte tra 5 e 6 luglio e viene trasferito prima a Grenoble e poi a Savona. Il 17 febbraio 1810 un senatoconsulto delibera che Roma sia “la seconda città dell’Impero” e che goda di “privilegi, ed esenzioni particolari” determinati dallo stesso Napoleone.

Il governo provvisorio è affidato a una Consulta straordinaria “incaricata di prendere possesso degli Stati del papa in nostro nome, e di fare le operazioni preparatorie per l’amministrazione del paese”. Attraverso un’intensa attività legislativa condotta fino al suo scioglimento, avvenuto il 31 dicembre 1810, la Consulta per gli Stati Romani predispone nuove istituzioni politiche, amministrative, giuridiche e militari.

Il Quirinale è rinnovato per ospitare la venuta di Napoleone, attesa nel 1812. I concitati eventi militari della guerra europea non gli permetteranno mai di raggiungere la città.

Nel gennaio 1814 un colpo di stato militare pone fine al governo francese. Entrano a Roma le truppe napoletane di Murat, il cognato di Napoleone passato al campo avverso. Il 24 maggio Pio VII rientra trionfalmente in città ristabilendo l’autorità pontificia sull’Urbe.

Il senatoconsulto del 17 febbraio 1810 decreta che il principe imperiale, e cioè il figlio dell’Imperatore, “porta il titolo, e riceve gli onori di Re di Roma”. Tredici mesi più tardi, il 20 marzo 1811, nasce a Parigi Napoléon-François-Joseph-Charles Bonaparte, l’atteso figlio di Napoleone e della sua seconda moglie Maria Luisa d’Austria. La notizia arriva a Roma dopo quattro giorni. Il mattino del 25 l’evento è festeggiato con 101 colpi di cannone da Castel Sant’Angelo e con le campane delle chiese di Roma a festa. Quella sera il Campidoglio e altri importanti edifici romani sono illuminati a giorno con fiaccole e laternoni. Al Teatro Valle si offre ai romani uno spettacolo gratuito. Il governo francese immediatamente promuove numerose cerimonie ufficiali e festeggiamenti popolari che coinvolgano l’intera cittadinanza. Tributi letterari e figurati si susseguono lungo la primavera di quell’anno.

Bartolomeo Pinelli è uno degli artisti maggiormente attivi in quei mesi nella creazione di allegorie figurate. Suo è il disegno per la medaglia che la Municipalità di Roma commissiona a Tommaso Mercandetti per celebrare l’avvenimento. Sua è anche la composizione che decora il Sonetto in onore del Re di Roma composto da Bartolomeo Sivoli. Anonimo è invece l’artista che da Napoli manda un disegno preparatorio all’incisore romano Giuseppe Girometti perché ne ricavi un cammeo. Due progetti documentano la decorazione del Campidoglio curata dagli architetti Giuseppe Valadier e Giuseppe Camporese in occasione di una fastosa cerimonia a inviti del 23 giugno 1811.

Così come il padre, anche il Re di Roma non riuscirà mai a venire nell’Urbe.
Con il decreto del 17 febbraio 1809 Napoleone stabilisce che i “monumenti della grandezza di Roma saranno custoditi e mantenuti a spese del nostro tesoro”. A giugno viene creata una Commissione per la tutela delle antichità, guidata dall’anno successivo dal prefetto de Tournon. Il Decreto imperale del 27 luglio 1811 istituisce un finanziamento annuale di un milione di franchi “sotto il titolo di fondo speciale per gli abbellimenti di Roma”, destinato tra le altre cose agli scavi archeologici e alla cura di monumenti rappresentativi come il Pantheon. I restauri sono in gran parte affidati all’Accademia di San Luca guidata da Antonio Canova.

La serie di quattro incisioni di Bartolomeo Pinelli documenta l’importante intervento di scavo e ripristino al Foro Romano dei resti del tempio all’epoca ritenuto di Giove Tonante ma in realtà di Vespasiano. Sotterrate per due terzi dell’altezza, le tre colonne sono liberate e rimesse in asse nel 1811 grazie a un imponente macchinario progettato dall’architetto Giuseppe Camporese.

Anche il Colosseo è oggetto di una estesa campagna di restauro. Gli scavi all’interno dell’arena (1811-1813) riportano alla luce le sottostrutture, come si vede nell’incisione di Angelo Uggeri. La disputa erudita tra il Commissario alle antichità Carlo Fea, l’architetto Pietro Bianchi e l’archeologo Lorenzo Re sulla datazione degli ambienti sotterranei è raffigurata in una stampa satirica attribuibile allo stesso Pinelli.

Scavi e demolizioni di case ed edifici religiosi isolano e valorizzano la Colonna Traiana e permettono di rinvenire i resti della basilica Ulpia. Un’incisione di Uggeri raffigura in primo piano i salariati romani impiegati nell’opera, non solo uomini ma anche donne e bambini. Le altre due sue composizioni mostrano l’aspetto dell’area dopo la caduta di Napoleone, quando si completano i lavori con il cosiddetto “recinto di Pio VII”.

L’amministrazione francese predispone ingenti finanziamenti per la trasformazione della città. Si vuole modernizzare l’assetto urbano e rendere Roma una capitale europea. Accanto alla valorizzazione dei monumenti classici, da sottrarre all’incuria e al degrado, è prevista la realizzazione di ampie passeggiate pubbliche che integrino nel verde edifici antichi e moderni. I progetti sono inizialmente affidati ai maggiori architetti romani: Giuseppe Valadier, Giuseppe Camporese, Raffaele Stern e altri. Nel febbraio 1813 il Governo di Parigi invia a Roma Louis-Martin Berthault e Guy de Gisors che revisionano e modificano i progetti ritenuti insoddisfacenti. Alla caduta dell’Impero napoleonico gli ambiziosi propositi urbanistici risultano realizzati solo in piccola parte.

Nell’area Flaminia, tra Ponte Milvio e Piazza del Popolo, si prevede la creazione di un’ampia passeggiata pubblica chiamata Villa Napoleone. A Giuseppe Valadier è affidata nel 1809 la sistemazione della zona antistante al ponte. È dibattuta la datazione dei tre progetti con varianti per l’area, redatti da Camporesi, Stern e Giuseppe Palazzi. Gli studi potrebbero riferirsi a una precedente iniziativa di sistemazione urbanistica della zona presa nel 1805 dall’amministrazione pontificia.

Anche per l’area archeologica centrale, dal Campidoglio fino al Colosseo, è previsto un percorso denominato Giardino del Campidoglio. Per realizzare il Giardino del Grande Cesare si progetta di collegare tramite rampe la Piazza del Popolo al Pincio e di creare una passeggiata fino a Villa Medici.

Stern è incaricato di mettere in sicurezza le rive del Tevere, demolendo fabbricati e costruendo nuovi argini. Si prevede la creazione di un nuovo ponte dove era quello distrutto di Orazio Coclite (Ponte Sublicio).

L’editto napoleonico di Saint-Cloud del 1804 proibiva le sepolture dentro le mura cittadine. Per adeguarsi alle nuove norme a Roma si progetta la costruzione di due nuovi cimiteri extra-urbani, San Lorenzo e San Lazzaro al Pigneto Sacchetti, quest’ultimo mai terminato e presto abbandonato.

 

 

 

 

Il nuovo restauro della Basilica Sotterranea di Porta Maggiore, restituisce l’intera parete della navata sinistra, con la sua raffinata decorazione e il biancore di uno stucco nel cui impasto è stata miscelata anche la madreperla per renderlo luminescente.

L’intervento della Soprintendenza Speciale di Roma è avvenuto grazie a Evergète, Fondazione svizzera che ha scelto Roma e la Basilica Sotterranea: «La Basilica sotterranea di Porta Maggiore è uno dei luoghi più magici e intrisi di mistero di Roma. Negli anni passati la Soprintendenza è intervenuta con una serie di restauri per mantenere, e in alcuni casi svelare, la bellezza di questo straordinario manufatto architettonico – spiega il Soprintendente Speciale Daniela Porro – e sono già in programma nuovi lavori per il 2020. Con la Fondazione Evergète, che opera per la prima volta in Italia, abbiamo instaurato un virtuoso rapporto di collaborazione che speriamo non si concluderà con questo restauro, ma proseguirà negli anni a venire. Una dimostrazione del fatto che i privati possono essere partner preziosi nel processo di tutela e valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico della nostra città».

Scoperta nel 1917 durante i lavori per la linea ferroviaria Roma Cassino, la Basilica Sotterranea è un monumento unico nel suo genere, per la ricchezza delle decorazioni a stucco e a mosaico, per essere ipogea, cioè volutamente costruita sottoterra, e per la sua natura enigmatica. Costruita nel I secolo d.C., è stata interpretata come sede di culti misterici, o come luogo di sepoltura della gens cui apparteneva, cioè la famiglia degli Statili, legata a Ottaviano Augusto e agli imperatori della dinastia Giulio Claudia.

A proposito del progetto adottato nel 2017, Bertrand du Vignaud, Consigliere esecutivo di Evergète, ha dichiarato: «Sono molto lieto di vedere oggi la qualità dei lavori. Complimenti ai restauratori. Spero che questo bellissimo risultato permetterà alla Fondation di trovare nuovi finanziamenti per continuare a sostenere il progetto fin al suo completamento, nell’ambito della nostra partnership con la Soprintendenza Speciale di Roma».

L’intervento, realizzato tra aprile e novembre del 2019, è stato compiuto con le più moderne procedure, avvalendosi di tecnologie elettroniche, chimiche, meccaniche e manuali, e con questo restauro il 50% dell’edificio è stato restaurato. Nonostante i tanti interrogativi che circondano il monumento, è stato possibile identificare uno degli stuccatori al servizio della famiglia degli Statili, probabilmente tra gli autori della preziosa decorazione della Basilica Sotterranea di Porta Maggiore.

Un finanziamento della Fondation Evergète ha permesso di continuare il recupero conservativo della Basilica Sotterranea di Porta Maggiore con il restauro della parete nord della navata sinistra.

Per raggiungere un risultato di altissima qualità su un monumento che, per le sue vicende storiche e costruttive, è molto delicato, sono stati utilizzati le più recenti tecniche e i materiali all’avanguardia: composti chimici di ultima generazione, strumentazione Laser specifica, frese e micro frese di precisione.

Il restauro appena concluso ha consentito il risanamento delle principali cause di deterioramento della decorazione della Basilica Sotterranea: la rimozione totale delle spesse e tenaci incrostazioni di calcare che, a causa della pregressa ed ormai risolta infiltrazione di acqua, si erano depositati sulle superfici impedendo la leggibilità delle raffinatissime decorazioni in stucco. L’intervento, inoltre, ha messo in sicurezza gli intonaci distaccati dal supporto murario e i rilievi in stucco poco coesi.

La presenza di acqua – tanto di infiltrazione, quanto di condensa – in passato aveva favorito l’insediamento di organismi biodeteriogeni (batteri, funghi, alghe) sulle pareti. Il problema è oggi risolto grazie all’installazione di un sistema di filtraggio con depuratori di altissima qualità che rimuove la più ampia gamma di inquinamento atmosferico e microbiologico.

IL RESTAURO

Alla iniziale verifica e documentazione sullo stato di conservazione della parete e della sua decorazione a stucco (tramite campagna fotografica e graficizzazione digitale), sono seguite alcune operazioni preliminari: abbassamento meccanico con strumenti di precisione degli spessori maggiori delle incrostazioni, rimozione delle stuccature di cemento eseguite in precedenti interventi. Il consolidamento dell’intonaco che presentava distacchi è avvenuto con una puntellatura di sicurezza nei casi più gravi e iniezione di malte idrauliche specifiche per ambienti sotterranei, mentre prodotti nano tecnologici sono stati utilizzati per ridare struttura alle raffinate figure a rilievo ed alle cornici.

Successivamente si è intervenuti con la strumentazione Laser che permette di avere un risultato molto preciso, controllato e omogeneo, calibrando opportunamente l’azione sulle differenti superfici, seppure degradate e fragili. In questo modo è stato possibile rimuovere in totale sicurezza l’ultimo tenace strato di calcare senza intaccare la superficie originale che ha potuto così mantenere inalterati tutti i segni di lavorazione dello stucco.

La fase più delicata, la pulitura, è stata compiuta seguendo una metodologia già sperimentata in precedenti restauri della Basilica, cioè adottando procedure ad alta tecnologia diversificate e sovrapposte, oppure alternate.

Le incrostazioni calcaree, soprattutto in corrispondenza di lesioni che partono dalla sommità della volta della navata e da cui era colata l’acqua per lungo tempo, sono state inizialmente assottigliate tramite l’uso di dispositivi meccanici quali bisturi, microfrese e microtrapani di precisione.

Per la presenza di colonie biologiche più o meno attive si è ricorsi ad appositi biocidi, mentre le macchie nere di origine organica, sono state trattate con impacchi ossido-riducenti.

Più complesso l’intervento sulla fascia scura, che testimonia ancora oggi il livello della terra all’interno della Basilica al momento del suo interramento: in questo caso si è attenuata la colorazione scura, al fine di ridurre il disturbo visivo ma conservando traccia delle vicende storiche e conservative del monumento. Sulle lacune presenti nelle pareti si è effettuato un intervento di risarcimento formale e cromatico, per armonizzarle con il resto della navata.

STORIA DEI RESTAURI STRUTTURALI E DECORATIVI

I successivi restauri hanno riguardato prima di tutto la statica dell’edificio, i danni causati dal dall’acqua e dall’umidità, l’inquinamento biologico. Al termine di questa complessa serie di interventi strutturali per stabilizzare le condizioni interne della Basilica sono seguite le attività di restauro, iniziate con il corridoio e il vestibolo.

Per la conservazione della Basilica nel 1951 è stato costruito un contenitore di cemento armato con una intercapedine per racchiudere completamente le strutture antiche, funzionale a evitare ulteriori danneggiamenti derivanti dalle vibrazioni dei treni e dalle infiltrazioni d’acqua.

e nuovo impianto di illuminazione con lampade a led

installazione di nuovi sensori per l'umidità.

 

LA BASILICA SOTTERRANEA E LA LOTTA PER IL POTERE A ROMA ASCESA E CADUTA DELLA GENS STATILIA

La gens Statilia si afferma nel I secolo a.C. grazie ai radicali cambiamenti compiuti a Roma da Ottaviano Augusto. Gli Statili facevano infatti parte degli homines novi, cioè erano membri di una famiglia che non aveva mai rivestito alcun ruolo pubblico -console, senatore, pretore o altra magistratura– e che, seguendo un cursus honorum e con l'aiuto di un mentore, in questo caso il futuro imperatore, arrivavano alle alte cariche dello Stato.

Il capostipite di questa gens fu Tito Statilio Tauro, nome che ricorre spesso nella famiglia dopo di lui, un homo novus proveniente forse dalla Lucania, da annoverare tra i più abili generali e governatori dell'età augustea.

Uomo di fiducia di Ottaviano fin dai tempi del secondo triumvirato, lo segue durante la lotta per la presa del potere: consul suffectus nel 37 a.C., nel 36 a.C. combatte e debella la pirateria organizzata in Sicilia da Sesto Pompeo che, bloccando le importazioni a Roma, aveva causato una carestia e pericolosi tumulti. Nominato proconsole in Africa nel 35 a.C., carica che ricoprirà fino al 34, gli venne affidata da Ottaviano la gestione di due province piuttosto turbolente e da lui pacificate a fil di spada. Tito Statilio Tauro si dimostrò però un abile amministratore, riuscendo a riorganizzare l'agricoltura così da far diventare l'Africa, durante il principato di Augusto, il “granaio” di Roma. Nel 31 a.C. lo ritroviamo al comando delle truppe di terra contro Antonio ad Azio, la decisiva battaglia per la presa del potere vinta da Ottaviano. Due anni dopo nominato consul ordinarius è in Spagna per una campagna militare.

Da allora Tito ebbe un ruolo di rilievo nella Pax Augustea, non a caso finanziando e donando alla città il primo anfiteatro permanente di Roma nella parte meridionale del Campo Marzio, andato distrutto durante l'incendio neroniano del 64 d.C. Ricoprì importantissime cariche dove spicca oltre a quella di console la nomina a prefectus urbis nel 16 a.C., segno della fiducia e della riconoscenza dell’imperatore. A partire dal 10 a.C. le fonti diventano mute a proposito di questo importante personaggio: si presume dunque che sia morto intorno a quella data. Le informazioni sul resto della sua famiglia e sui suoi discendenti sono piuttosto scarse: il nome di sua moglie era forse Cornelia.

Le fonti tuttavia tramandano memoria di altri Tito Statilio Tauro: c’è un triumvir monetalis (IIIvir monetalis) nell'8 a.C., un altro Tito Statilio Tauro, consul ordinarius nell'11 d.C. e marito di Valeria Messalina, figlia del famoso Marco Valerio Messalla Corvino, infine di un Tito Statilio Sisenna Tauro consul ordinarius nel 16 d.C.

Alla generazione successiva appartengono poi un Tito Statilio Tauro consul ordinarius nel 44 d.C. e un Tito Statilio Tauro Corvino, consul ordinarius nel 45 d.C., figli del Tito Statilio Tauro consul ordinarius 11 d.C. e di Valeria Messalina: entrambi i fratelli subirono una fine tragica. Tito Statilio Tauro Corvino organizzò nel 46 d.C. una congiura ai danni dell'imperatore Claudio e, scoperto, venne molto probabilmente giustiziato; Tito Statilio Tauro venne invece denunciato per empietà e superstizione e coinvolto, nel 53 d.C., in un processo diffamatorio che lo costrinse al suicidio, pur di non essere macchiato da un'accusa così infamante: mandante fu Agrippina, interessata probabilmente alla confisca dei terreni degli Statilii.

Coloro che hanno interpretato la Basilica Sotterranea come il luogo di ritrovo di un gruppo di iniziati ai culti misterici, hanno pensato che fosse proprio quest’ultimo Tito Statilio Tauro, vicino agli ambienti del Neopitagorismo romano, a essere stato il costruttore del monumento. Claudio nel 52 d.C. volle esiliare i cosiddetti mathematici, e tra questi i neopitagorici: da questo clima di intolleranza giunse allora il pretesto per la denuncia di superstizione a Tito e il suo conseguente suicidio. L'ipogeo di Porta Maggiore venne immediatamente abbandonato perché le pratiche che lì si volevano celebrare erano ormai considerate fuorilegge.

L'ipotesi è affascinante ma, come emerge dall'esame dello stile degli stucchi, la datazione dell'ipogeo di Porta Maggiore deve essere probabilmente anticipata di qualche decennio: è possibile allora che il monumento, costruito durante l'età augustea, sia stato modificato in un'epoca successiva, che non dovrebbe andare oltre il principato di Claudio. L'ipogeo potrebbe allora essere stato edificato dal Tito Statilio Tauro triumvir monetalis, o da uno dei consoli suoi omonimi del 11 e del 16 d.C., e ritoccato in seguito durante il periodo del Tito Statilio Tauro consul ordinarius 44 d.C. e di Tito Statilio Tauro Corvino.

Se l'ipotesi fosse corretta, il periodo di attività dell'ipogeo andrebbe collocato tra il primo ventennio del I sec. d.C. e l'inizio della seconda metà del I d.C.: l'abbandono sarebbe dunque contemporaneo al suicidio, nel 53 d.C., di Tito Statilio Tauro consul ordinarius 44 d.C.

In quest'ottica, si potrebbe pensare l'abbandono del monumento, più che dalla proibizione dei culti che lì si praticavano, dipenda dagli intrighi e dalle lotte per il potere diffuse all'epoca: la fine di Tito Statilio Tauro Corvino dimostra come egli fosse un nemico di Claudio; e l'accusa fatta a Tito Statilio Tauro potrebbe essere vista come un pretesto per sbarazzarsi di un avversario pericoloso, rappresentante di una gens molto, forse troppo, influente.

Effettivamente dopo il 53 d.C., anno del suicidio di Tito Statilio Tauro, non incontriamo più rappresentanti maschi degli Statili: la fine del periodo di attività della Basilica Sotterranea corrisponderebbe alla decadenza della gens Statilia, che forse costituì per il potere imperiale una minaccia concreta, durante il regno di Claudio, e al mantenimento del suo status.

LA BASILICA SOTTERRANEA STORIA E MITO

La Basilica è venuta alla luce il 23 aprile 1917, in seguito a un cedimento del terreno lungo la linea ferroviaria Roma-Cassino, a circa 9 metri sotto il livello dell’attuale via Prenestina, non molto diverso da quello antico.

L’edificio risale all’inizio del I secolo d.C. e, per come ci è pervenuto, è un esempio eccezionale se non unico al mondo. Non avendo avuto i pesanti rimaneggiamenti tipici della maggior parte degli edifici dell’antichità romana, si è conservata così come era stata progettata e realizzata, con una sontuosa decorazione musiva, pittorica e a stucco.

Altrettanto straordinario è il complesso sistema di costruzione dell’edificio sotterraneo, rivelato dalle indagini della Soprintendenza Speciale di Roma. La struttura è stata infatti realizzata già sotterranea per fasi successive: scavo, riempimento con getti di cementizio di calce e pozzolana con blocchetti di selce, infine gli ambienti furono svuotati dalla terra.

Il complesso della Basilica si compone di un corridoio, di un vestibolo e di una sala principale a tre navate con abside centrale: il più antico esempio di pianta basilicale rivenuto a Roma.

Il corridoio costituiva in origine l’accesso dall’antica via Prenestina: dal piano stradale una lunga galleria coperta con volta a botte scendeva con una forte pendenza lungo il lato settentrionale della basilica per poi piegare ad angolo retto.

Del corridoio si conserva solo l’ultimo tratto di collegamento al vestibolo a pianta quadrangolare (di 3,60 x 3,60 metri), con volta a padiglione traforata da un lucernario che riproduce la forma dell’aula basilicale.

In questo ambiente l’apparato decorativo è caratterizzato dall’uso della policromia sulla volta, ripartita in quadretti figurati, sulle pareti decorate a stucco invece si ripetono i temi paesaggistici con presenza di uccelli e ghirlande floreali.

L’ambiente principale (di 12 x 9 metri per complessivi metri quadrati 108) è rettangolare suddiviso da sei pilastri in tre navate coperte con volte a botte. La navata centrale, più ampia rispetto alle navate laterali, presenta sul fondo un’abside semicircolare. Al momento della sua costruzione la Basilica si trovava in un’area suburbana, denominata Horti Tauriani: l’area figurava tra le vaste proprietà terriere della gens Statilia, cui appartiene anche il Colombario dei liberti della famiglia ancora oggi visibile a circa duecento metri dall’edificio sotterraneo.

LA STRUTTURA

I pavimenti sono a mosaico in bianco e nero, mentre le pareti, al di sopra dello zoccolo affrescato in rosso morellone, e le volte presentano stucchi figurati.

Nell’aula basilicale predomina il colore bianco della decorazione a stucco. Nel catino dell’abside è raffigurata Saffo nell’atto di lanciarsi dalla rupe di Leucade. Le rappresentazioni figurate della volta riconducono alla mitologia classica (come Ganimede rapito da un genio alato, il ratto di una delle figlie di Leucippo, Orfeo ed Euridice, Medea e Giasone), al rituale mistico o a scene di vita quotidiana.

Sulle pareti si moltiplicano le figure femminili di offerenti, le immagini di oggetti come vasi, candelabri, strumenti musicali e grandi pannelli con raffigurazioni paesaggistiche stilizzate.

STORIA E MITO

Il fascino della Basilica è anche dovuto al mistero sulla sua funzione: è stata infatti interpretata come luogo di culto oppure come edificio funerario. Una interpretazione cultuale è stata avanzata da Jerome Carcopino che attribuisce il complesso alle proprietà di Tito Statilio Tauro, accusato di pratiche magiche da Agrippina, la madre di Nerone, e che, per non subire l’onta del processo, si tolse la vita nel 53 d.C.

Tito Statilio Tauro avrebbe fatto parte di una setta misterica che fornì il pretesto per le accuse di stregoneria, e Carcopino identifica la basilica con la sede di un culto neopitagorico per la scelta del sito, per l’impianto planimetrico e per la decorazione. L’edificio è stato interpretato anche come luogo di culti orfici.

Un altro storico, Gilles Sauron, confermando la proprietà alla famiglia degli Statili, identifica l’edificio come la tomba di un altro Tito Statilio Tauro, vissuto trenta anni prima, collaboratore di Augusto e console nel 11 d.C. insieme a Marco Emilio Lepido.

I recenti restauri e studi hanno fatto ipotizzare due momenti nella realizzazione decorativa della Basilica, una riferibile all’età augustea e l’altra all’età neroniana, che potrebbero rimandare ai due personaggi omonimi della gens Statilia, e suggerire forse un cambio d’uso del complesso nella prima metà del I secolo d.C. Anche se le due funzioni, monumento funerario e luogo di culto misterico, potrebbero non essere alternative, ma aver convissuto.

Al di là delle ipotesi sulla funzione della Basilica, l’organicità e l’eleganza della decorazione permettono di datare il monumento all’inizio del I secolo d.C., sia per la scelta dei soggetti che per lo stile della realizzazione, i cui confronti più stringenti si ritrovano, sempre a Roma, nei coevi esempi del Colombario degli Statili, del criptoportico sul Palatino e della Sala dalla volta dorata nella Domus Aurea.

MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI E PER IL TURISMO

SOPRINTENDENZA SPECIALE DI ROMA ARCHEOLOGIA BELLE ARTI PAESAGGIO

COLOPHON

Daniela Porro, Soprintendente Speciale di Roma

Anna De Santis, Direttore del monumento

Giovanna Bandini e Chiara Scioscia Santoro, Responsabili scientifiche del restauro

Bertrand du Vignaud, Conseiller Exécutif della Fondation Evergète

Mariangela Santella, restauratrice Valentina Gerosa, restauratrice Chiara Di Marco, restauratrice Claudia Ranieri, restauratore Corinna Ranzi, restauratrice Laura Lippi, restauratrice

Fotografie Maurizio Mecci - Azimuth

La Basilica Sotterranea di Porta Maggiore è aperta al pubblico con visite guidate su prenotazione la seconda, la terza e la quarta domenica del mese.

Informazioni e prenotazioni www.coopculture.it - +39 0639967702

La mostra La rivoluzione della visione. Verso il Bauhaus. Moholy-Nagy e i suoi contemporanei ungheresi è dedicata all'arte e alla memoria di László Moholy-Nagy, artista d'origine ungherese e figura chiave del movimento Bauhaus nel mondo, in occasione delle celebrazioni per i 125 anni dalla sua nascita e in contemporanea con le grandi manifestazioni internazionali per i cento anni dello stesso Bauhaus, nato a Weimar nel 1919.

Ospitata alla Galleria d’Arte Moderna di Roma dal 28 novembre 2019 al 15 marzo 2020, l’esposizione, a cura di Katalin Nagy T., è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, l’Accademia d’Ungheria in Roma e realizzata in collaborazione con il Museo Déri di Debrecen, il Museo della Fotografia Ungherese di Kecskemét e l’Istituto Luce-Cinecittà.

In mostra, in esclusiva per l’Italia, una selezione di dipinti, fotografie e grafiche originali a cui si aggiungono tre film dell'artista, opere che attraversano la produzione di Moholy-Nagy nell’arco di tempo che va dagli anni Dieci agli anni Quaranta del Novecento, fra Espressionismo e Bauhaus, e raccontano i molteplici aspetti del suo lavoro e delle sue teorie costruttive così da offrire un panorama vasto ed esauriente del suo laboratorio creativo. Un percorso fra l’Ungheria e la Germania dove, nel 1923, incontra Walter Gropius il quale, profondamente colpito dalle sue opere, lo invita a collaborare al Bauhaus di Weimar. Sarà, questo, il periodo più significativo della sua attività e l’inizio di quel personale “segno grafico”, svolto in pittura così come nella fotografia e nel video, che sarà anche l’origine della sua fama come rappresentante per eccellenza della fotografia del Bauhaus europeo, a cui contribuì certamente anche la pubblicazione di Pittura Fotografia Film (1925), ottavo volume dei Libri del Bauhaus e primo testo fondamentale della tecnica fotografica contemporanea d’avanguardia.

L’esposizione è arricchita da un’importante sezione di dipinti e fotografie di artisti dell'Avanguardia ungherese, sempre fra Espressionismo e Bauhaus, per la maggior parte mai presentati prima in Italia e provenienti dal Museo Déri di Debrecen (collezione Antal-Lusztig) e dal Museo della Fotografia Ungherese di Kecskemét. Presenti opere di Róbert Berény, Ede Bohacsek, Sándor Bortnyik, Lajos Kassák, Ödön Márffy, János Mattis Teutsch, József Nemes Lampérth, Lajos Tihanyi, Béla Uitz. Tutti artisti che, fra l’Ungheria e la Germania, hanno definito la cultura visiva dell’Europa centrale fra anni Venti e Quaranta.

La sezione della mostra Budapest a Roma. Artisti ungheresi nella Capitale fra le due guerre, a cura di Arianna Angelelli e Claudio Crescentini, allestita con opere della collezione della Galleria d’Arte Moderna, è dedicata agli artisti magiari attivi nella Capitale fra gli anni Dieci e l’inizio dei Quaranta del Novecento. Questa parte dell’esposizione racconta in modo approfondito il particolare rapporto di collaborazione creativa e interscambio artistico fra l’Italia e l’Ungheria nel momento di più alta espressione dell’Avanguardia europea del Novecento. Fra gli artisti esposti, Istvan Csók, Ferenc Sidló, Béla Iványi Grünwald, Aba Novák, Paolo Molnár, István Réti, insieme a video (biennio 1932-33) provenienti dall’archivio dell’Istituto Luce-Cinecittà e girati durante le mostre degli artisti ungheresi a Roma. A rafforzare l’identificazione di una forte presenza ungherese in Italia fra le due guerre e i continui rapporti fra gli artisti dei due paesi, con particolare riferimento all’ “ondata” Bauhaus europea, contribuiranno anche alcuni rarissimi documenti provenienti dal Fondo Prampolini del CRDAV, il Centro Ricerche Documentazione Arti Visive della Sovrintendenza Capitolina. Tra questi, due lettere autografe inviate da Gropius, in quel periodo presente a Weimar, a Prampolini nel 1922 e 1923 e una lettera autografa inviata dallo stesso Moholy-Nagy all’artista futurista, sempre da Weimar, nel 1924.

In contemporanea, nel chiostro/giardino della Galleria d’Arte Moderna, sarà realizzata una mostra/installazione dell’artista Sándor Vály (Budapest 1968), dal titolo “Ologrammi gotici”. Vály, artista figurativo e visivo ungherese che vive in Finlandia, pratica un’arte caratterizzata da una dimensione concettuale e filosofica che non si limita solo alla pittura, ma si estende anche alla scultura, alla musica, al cinema e alla letteratura, portando alla creazione di opere d'arte basate su un pensiero globale.

L’installazione riflette sulla prospettiva della rappresentazione gotica nello spazio tramite il sistema relazionale di spazio e tempo delle luci. La prospettiva gotica ha portato una novità riguardo ai concetti tradizionali del tempo e dello spazio: gli eventi che si verificano in diversi piani temporali qui vengono rappresentati in una sequenza spaziale parallela all’interno di una singola immagine. Dopo l'atemporalità bidimensionale dell'arte bizantina, il gotico infatti, pur raffigurando storie nella loro sequenza spaziale, presenta al contempo un piano temporale lineare. L'eternità cede il posto alla narrazione, alla sequenza spazio-temporale degli eventi. Le relazioni spaziali dell'installazione, nonostante la loro simultaneità spaziale, rappresentano la struttura temporale della memoria. I frammenti spaziali (statue), racchiusi in contenitori polverosi o vetrine, nonostante sembrino contemporanei, grazie alla particolare illuminazione rivelano forme a volte disegnate con maggior cura, altre volte sfumate, dando vita a immagini che evocano corpi antropomorfi non meglio definiti. “L’ologramma gotico”, dunque, altro non è che la trasformazione della percezione visiva di un oggetto determinata da diverse illuminazioni. Nel caso dell’installazione, tuttavia, la luce è più di una semplice visione. Si stabilisce un continuo cambiamento di aspetto tra spazio e tempo: il primo è un contenitore che, una volta rimosso, crea una sorta di spazio interno e forma un'unità con le opere d'arte. L'aspetto del tempo è invece duplice: da una parte i contenitori polverosi rimandano al passato, dall’altra il tempo della natura che appare nelle installazioni video è il contrappunto del tempo circoscritto dell'uomo.

SÁNDOR VÁLY studia arte in Ungheria dal 1982 al 1988 e dal ‘90 vive in Finlandia, dove è membro dell’Unione Finlandese dei Pittori nonché dell’Accademia di Tarihstan ed è considerato una figura rilevante della scena internazionale dell’arte intermediale. Espone sin dal 1985 (mostre personali e collettive) in Austria, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Inghilterra, Russia, Svezia, Turchia, Ungheria. Tra i suoi premi si ricordano: Il Premio della Critica Finlandese 2000, il Premio Fondazione E.K. Ponkala - Associazione dei critici finlandesi 2015. Le sue opere attualmente sono conservate presso le collezioni pubbliche di HAM Helsinki Art Museum, Kemi Art Museum (Kemi, Finland), Pori Art Museum (Pori, Finland), Lönnström Art Museum (Rauma, Finland), RikArt (Helsinki, Finland), Lars Swanljung collection, Helsingin Kaupunginkirjasto. Vály è anche autore di numerose pubblicazioni (libri, studi, cataloghi).

 

Intanto la ricerca artistica passa anche attraverso la storia degli spazi che materialmente hanno ospitato mostre e dibattiti, artisti e gruppi, e che hanno costituito il luogo di propulsione e diffusione di teorie, idee, tendenze. In tal senso il gallerista svolge non di rado un vero e proprio ruolo di animatore culturale, alimentando e orientando, attraverso le proprie scelte, il dibattito artistico.

Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la mostra Spazi d’arte a Roma. Documenti dal Centro Ricerca e Documentazione Arti Visive (1940-1990) è una riflessione sugli spazi romani dedicati all’arte, una storia ricostruita e illustrata a partire dalle collezioni archivistiche e documentarie del CRDAV (Centro Ricerca e Documentazione Arti Visive della Sovrintendenza Capitolina), di cui quest’anno ricorre l’importante anniversario dei 40 anni. La mostra è a cura di Alessandra Cappella, Claudio Crescentini, Daniela Vasta.

Il CRDAV, istituito dal Comune di Roma nel 1979 grazie a una cospicua donazione del critico d’arte Francesco Vincitorio, è una collezione documentaria di grande rilevanza sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo.

In occasione del lavoro di digitalizzazione del Fondo Gallerie Storiche del CRDAV e per i 40 anni di attività del Centro, ha preso il via il progetto di una mostra documentaria di approfondimento sul ruolo che le gallerie storiche romane e altri “spazi dell’arte” hanno avuto nella divulgazione di stili e teorie della contemporaneità, partendo dal secondo dopoguerra agli anni Novanta del Novecento.

Il CRDAV prosegue da anni un’attività di raccolta e schedatura di cataloghi, monografie, letteratura grigia (inviti, comunicati stampa, dépliant, ecc.), periodici, video e materiale fotografico. Si tratta di materiale storico unico nel suo genere che, proprio attraverso questa mostra, può offrire spunti per nuovi approfondimenti scientifici, per ricostruire, attraverso documenti originali, la storia di gallerie, spazi d’arte e associazioni nonché percorsi individuali e collettivi che hanno definito il volto di Roma come capitale del contemporaneo, anche in ambito internazionale.

Specifiche sezioni cronologico-tematiche, attraverso una selezione ragionata di materiali documentari, tratteggeranno dunque un percorso storico lungo circa cinquant’anni, evidenziando alcune tra le più significative tendenze delle arti visive a Roma e soprattutto il ruolo fondamentale di incubazione, elaborazione e diffusione di ricerche e riflessioni che i vari spazi hanno rivestito. Un’occasione per approfondire scientificamente temi e problematiche dell’arte nazionale e internazionale a Roma dalla ricostruzione post-bellica fino agli ultimi decenni del XX secolo, passando per il rinnovamento intellettuale e stilistico degli anni Sessanta e Settanta.

Parte del materiale non esposto verrà successivamente proposto ai visitatori attraverso un archivio digitale mentre sarà trasmesso, come parte integrante del percorso di mostra, il film d’arte di Franco Angeli, Opprimente (1968 / 26'), per Il teatro delle mostre presso la Galleria La Tartaruga. In collaborazione con l’Archivio Franco Angeli.

Il progetto espositivo Spazi d’arte a Roma. Documenti dal Centro di Ricerca e Documentazione Arti Visive (1940-1990) sarà accompagnato da un volume di approfondimento, di prossima pubblicazione, che – attraverso alcuni saggi introduttivi e schede sulle singole gallerie e spazi d’arte – offrirà a studiosi e appassionati un utile strumento di indagine a partire dalle collezioni del CRDAV.

Da dicembre 2019 ad aprile 2020, inoltre, si svolgeranno numerosi workshop e alcuni incontri dal titolo “Testimoni dell’arte a Roma”. Attraverso il contributo di studiosi, artisti e galleristi, si ricostruiranno e racconteranno le storie “particolari” di alcune delle principali gallerie storiche romane e degli altri spazi d’arte esplorati dalla mostra. Agli incontri parteciperanno storici dell’arte ed esperti del settore, provenienti da varie realtà accademiche romane, insieme a galleristi storici della Capitale, testimoni “diretti” del fermento artistico capitolino. Importante sarà anche la partecipazione degli artisti che hanno dato vita direttamente a propri spazi espositivi e culturali, rispondendo a un’urgenza di autonomia e indipendenza rispetto al sistema istituzionale dell’arte. Parteciperanno anche gli studenti universitari, grazie alla collaborazione con alcuni docenti delle cattedre di “Storia dell’arte contemporanea” delle Università romane.


 

 

108 opere sequestrate dai Nuclei del Comando TPC e analizzate dal Laboratorio del falso di Roma Tre
Proiezioni in 3D di una selezione di falsi presenti in mostra
Mostra-omaggio al Comando TPC in occasione del cinquantennale. Consegnata targa al merito per l’alto ruolo svolto

Capolavori del Novecento sì, ma falsi. E allora come fare a distinguerli dagli originali senza essere un esperto d’arte? Quali sono gli artisti più contraffatti? Quanto vale il mercato nero del falso nell’arte? A queste e altre domande risponde la mostra In difesa della bellezza allestita presso il foyer dell’Aula Magna della Scuola di Lettere Filosofia Lingue dell’Università Roma Tre e visitabile gratuitamente da oggi e fino al 18 dicembre.

L’arte materica di Burri con il suo Sacco, quella tecnologia e multimediale di Schifano, quella espressionista di Sironi, quella futurista e rivoluzionaria di Balla e quella del macchiaiolo Fattori con la sua Maremma toscana. Sono alcune delle 108 opere sequestrate dai Nuclei del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) ed analizzate da studenti, docenti ed esperti del Laboratorio del falso dell’Università Roma Tre ed esposte in mostra assieme ai primi risultati dello studio condotto sulle stesse.

“Una mostra – ha dichiarato il Rettore Luca Pietromarchi - prodotta dal Laboratorio del falso che esalta le attività dei nostri master dedicati alla tutela del patrimonio culturale, che sono a loro volta dei modelli di dialogo tra scienze umanistiche e scienze applicate, nonché di collaborazione tra l’istituzione universitaria e l’Arma dei Carabinieri”.

In occasione del cinquantennale d’istituzione del Comando Carabinieri per la Tutela Patrimonio Culturale il Rettore Pietromarchi ha consegnato al Comandante dei Carabinieri TPC la targa al merito per l’alto ruolo svolto dal Comando stesso nella formazione universitaria.

“L’arte – ha sottolineato il Gen.B. Roberto Riccardi, Comandante dei Carabinieri per la Tutela Patrimonio Culturale - ha un valore che trascende qualunque stima economica, è l’espressione della creatività umana, un sentiero luminoso che illumina il cammino della Storia. Alterare quel valore è gettare il buio sulla luce.  Perciò ritengo che il “Laboratorio del falso” sia uno strumento prezioso, un’iniziativa lodevole e intelligente che va portata avanti con il massimo impegno”.

Non solo dipinti su tavola, tela, carta, ricami e opere polimateriche d’arte contemporanea, ma anche sculture ispirate al sacro e alla cultura giapponese, insieme a proiezioni in 3D in una sezione multimediale ad hoc, curata dal Laboratorio geocartografico “Giuseppe Caraci” del Dipartimento di Studi Umanistici di Roma Tre.

La diversa tipologia dei materiali falsificati, allusivi ad epoche ed aree geografiche diverse (avori, superfici dipinte, leghe metalliche, pietre dure), ha richiesto approcci differenziati e propri sia della diagnostica umanistica che di quella tecnologico-scientifica. Dalla falsificazione di reperti archeologici (ceramiche, bronzetti, monete, affreschi) a quella di famosi artisti contemporanei, che rimandano allo sviluppo storico della cultura euro-mediterranea, fino alla più problematica valutazione della contraffazione di oggetti pertinenti all’area asiatica, il percorso della mostra propone 7 sezioni tematiche: 1) Un fenomeno da contrastare ad ampio raggio; 2) Autentici, falsi, pasticci; 3) Oltre i confini disciplinari: lo sguardo sull’opera e dentro l’opera; 4) La difficoltà di distinguere tra vero e falso; 5) Simulare cronologie, materiali e tecniche; 6) Danni culturali e danni economici del falso nell’arte: casi di studio; 7) Il “peggio” e il “meglio” tra i falsi in mostra.

La presenza di nuclei consistenti di opere a firma dello stesso artista, ha permesso un’analisi comparata dei dati. Una particolare attenzione è stata dedicata allo studio delle tecniche di esecuzione, compreso l’esame grafologico delle firme e di altre iscrizioni presenti sul retro di alcune opere, nonché alle ricerche d’archivio. Attraverso la sintesi degli apparati didattici e la visione delle opere in mostra il visitatore potrà quindi cogliere gli aspetti principali di un fenomeno, complesso e insidioso, che bisogna conoscere per non farsi ingannare.

Il “Laboratorio del falso”, istituito presso il Dipartimento di Studi Umanistici (DSU) – Università degli Studi Roma Tre, opera in sinergia con Laboratori del Dipartimento di Scienze (Spettroscopia Raman, LIME, LASR3) dello stesso Ateneo, con enti esterni (INFN – Laboratori Nazionali di Frascati, Roma, e Laboratori Nazionali del Sud, Catania; ArsMensurae), con Uffici del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e nell’ambito del Distretto Tecnologico beni e attività Culturali (DTC) della Regione Lazio.

Sono stati coinvolti nello studio dei materiali, nella redazione degli apparati didattici e nella comunicazione dei contenuti della mostra, studenti e docenti di Master di secondo livello attivi presso l’Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Studi Umanistici (“Esperti nelle attività di valutazione e di tutela del patrimonio culturale” e “Strumenti scientifici di supporto alla conoscenza e alla tutela del patrimonio culturale”), di Corsi di Alta Formazione attivi presso l’Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Scienze (“Diagnostica per i beni culturali”) e presso l’Università della Tuscia, Dipartimento di Scienze Umanistiche, della Comunicazione e del Turismo (“Storyteller e content curator. Strategie narrative per la valorizzazione del patrimonio culturale”).

 

E’ una Roma ‘formato ridotto’ quella raccontata nell’originale dialogo fra i dipinti di Diego Angeli e le fotografie in polaroid di Simona Filippini, due autori lontani per contesto e forma linguistica ma accomunati dal fascino della città. Tra suggestioni, scorci e “appunti” insoliti, circa 150 dei loro lavori s’incontrano nella mostra “TACCUINI ROMANI. Vedute di Diego Angeli. Visioni di Simona Filippini”, ospitata al Museo di Roma in Trastevere dal 1 novembre al 23 febbraio 2020.

L’esposizione è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. E’ curata da Silvana Bonfilicon il coordinamento tecnico-scientifico di Roberta Perfetti e Silvia Telmon. Organizzazione Zètema Progetto Cultura. Ricerche biobibliografiche di Francesca Lombardi. Cura del progetto Rome LOVE, Chiara Capodici.

La mostra “TACCUINI ROMANI” nasce nella prospettiva di valorizzazione della produzione pittorica di Diego Angeli e in particolare della serie di 76 vedute del Museo di Roma in Trastevere, un nucleo acquisito negli anni 1991/1992 per la collezione del museo (allora denominato “Museo del Folklore”). L’intero fondo viene esposto per la prima volta in questa mostra e, in vista di un più attuale approfondimento del rapporto che da secoli coinvolge gli artisti nella rappresentazione della città, viene messo a confronto con altrettante immagini fotografiche scattate con la polaroid da Simona Filippini, a partire dal 1993, nel suo progettoRome LOVE su Roma e le sue periferie.

Il corpus di dipinti a olio e su carta, cartone e legno, eseguiti fra il 1885 e il 1936 e dal particolare formato non più grande di una cartolina, costituisce l’unica testimonianza nota della produzione pittorica di Diego Angeli, brillante elzevirista, ritrattista elegante e raffinato degli ambienti aristocratici della Roma fine secolo XIX. Il prezioso nucleo di dipinti si compone di piccole vedute, “delicate impressioni paesistiche”, ambientate per la maggior parte a Roma, con alcune eccezioni in Sabina, nella città di Firenze e Parigi.

Si tratta di una produzione che, pur segnata da una dimensione privata e amatoriale, evidenzia una specifica sensibilità nei confronti di una pittura ispirata dalla diretta osservazione della natura e in profonda sintonia con quella nuova concezione della “pittura di paesaggio” diffusa negli ultimi decenni del XIX secolo.

Nel percorso espositivo le immagini di Angeli sono messe a confronto, fuori da schemi cronologici e linguistici, con la raccolta di istantanee di Simona Filippini: se nei loro personalissimi lavori risalta la diversità del mezzo artistico e del contesto storico-sociale di realizzazione, il fil rouge - che rende l’accostamento armonico - resta nella ricerca di suggestioni e di particolari atmosfere, “visioni” che Roma e la sua campagna.

Cosi, nei suoi piccoli dipinti Diego Angeli predilige scorci inconsueti, quasi “appunti in forma pittorica” per un’ideale taccuino delle sue passeggiate romane. Rispetto alla monumentalità di Roma, l’artista sceglie di privilegiare spazi più nascosti, quasi invisibili agli altri, intravisti percorrendo le vicine campagne romane o le maestose ville storiche.

Scelta che tradisce una delle cifre profonde della sua pittura, un’originalità di sguardo che connota profondamente, ad esempio, le vedute dedicate ai luoghi maggiormente segnati dal glorioso passato della città, resi nella maggior parte dei casi secondo angolature inaspettate. A titolo d’esempio appaiono, così, Villa Ludovisi (settembre ’88), prossima a scomparire sotto i colpi del piccone demolitore, o Rovine dei Gordiani fuori Porta Maggiore (1897) In queste opere le emergenze monumentali rimangono appena accennate e confinate sullo sfondo e l’elemento dominate è costituito dalle macchie scure dei prati in primo piano e da quelle chiare dei cieli striati di nubi.

E un’analoga impaginatura caratterizza anche altri dipinti - pure questi esemplificativi della consuetudine di Angeli di dipingere en plei air – dedicati ad angoli di ville storiche e della città entro le mura: anche qui rovine e cupole, sinteticamente schizzate, sono relegate ancora una volta sullo sfondo di una vasta distesa verdeggiante.

Anche Simona Filippini, come Angeli, ama i parchi e le vie consolari. Eppure il suo obiettivo, che scatta di preferenza al tramonto e nelle ore più tarde, cattura particolarità quotidiane e apparentemente banali, come una sedia vuota tra le colonne di uno storico palazzo del centro e le scritte luminose di un bar o di un albergo. Tutti dettagli narrativi che potrebbero trovarsi in ogni città del mondo ma che, invece, caratterizzano e identificano Roma, propria per la sua vocazione di essere unica e contemporaneamente “contenere molte città diverse.

E proprio dalla scritta di un hotel gestito da cinesi nella zona di Piazza Vittorio “Rome LOVE”, parte l’omonimo progetto fotografico sulla città: se Rome Love è una visione notturna che sembra un fotogramma rubato al cinema asiatico, l’intero lavoro della Filippini è costituito da visioni che passano come le immagini di molti film in un racconto corale.

Lo sguardo della fotografa romana ritrae uno spazio in mutazione, quasi inafferrabile, come lo scorrere del fiume Tevere che attraversa la città, uguale ma sempre diverso.

Uno sguardo affidato all’automatismo di apparecchi Polaroid. “Lavorare con la Polaroid” scrive Chiara Capodici “significa provare ad afferrare lo scorrere di un fiume, fermarlo per vederlo subito emergere, a volte quasi come pura astrazione, in una visione ampia che respira avvicinando l'antico, il monumentale, il contemporaneo e i dettagli che fanno la vita quotidiana, il familiare e quanto ancora sembra sconosciuto”.

 

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