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rassegna siciliana n.37

E’ uscito il numero 37, gennaio-aprile, della nuova e graficamente rinnovata, “Rassegna Siciliana di Storia e Cultura”, prestigiosa rivista quadrimestrale nata nel 1997 da un gruppo di studiosi tra cui Dino Grammatico, che avevano dato vita all’”Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici” (ISSPE). La rivista rinasce grazie allo sforzo appassionato di intellettuali come il professore Tommaso Romano che è il direttore e Umberto Balistreri, in funzione di condirettore.

A questo secondo numero della nuova veste della corposa rivista (160 pagine) hanno collaborato numerosi studiosi, tra cui il sottoscritto, nelle prime pagine, c’è la pubblicazione dell’intervento del cardinale di Palermo, Paolo Romeo, tenuto in occasione del Te Deum di ringraziamento per la beatificazione di Maria Cristina di Savoia Regina delle Due Sicilie. Il cardinale tratta della bellezza della vocazione cristiana alla santità. Tutti noi siamo chiamati alla santità, non solo i consacrati, o i religiosi, c’è anche una vocazione alla vita matrimoniale. “Pensate come diversa sarebbe la famiglia oggi e la testimonianza della famiglia – ha detto monsignor Romeo – e le leggi che stanno facendo sulla famiglia, che in definitiva servono soltanto a distruggerla, a privarla di un fondamento solido, a proporre dei modelli che non sono dei modelli, ma che vogliono sanzionare come fosse un modello tutte le debolezze umane, la fragilità umana”.

La beata Maria Cristina è stata una contemplativa in azione, spesso passava la sua giornata in orazione, come viene raffigurata nei quadri, ma aveva anche la sollecitudine premurosa verso i poveri, per questo “andava verso le periferie” della società. Infatti,“(…)Maria Cristina era vicina al suo popolo e si faceva un poco interprete dei bisogni di questo popolo, del suo sposo Re”.

Segue un articolo di Lucio Zinna su una probabile abolizione dell’insegnamento della Filosofia dalle scuole secondarie e dall’università. A marginalizzare le facoltà umanistiche, privilegiando quelle tecnico-scientifiche, per Zinna, sono certe tendenze politiche, i quali mirano a sopravvalutare gli aspetti economici e pragmatici a svantaggio di quelli con valenza teorica. Mentre Maria Patrizia Allotta, sottolinea l’importanza dello studio delle grandi figure appartenenti al mondo latino-greco e quindi dell’importanza degli studi filosofici, con una particolare rivalutazione del pensiero socratico. Soprattutto nel nostro mondo omologato, il metodo di Socrate potrebbe rappresentare un’efficace “antidoto contro l’incondizionata ipocrisia del falso dire-sapere che certamente trascura il ‘conosci te stesso’”.

A pagina 19 della rivista, Antonino Palazzolo, analizza “Il ruolo dei fonditori di artiglieria in Sicilia nel ‘500”. Un’attività poco nota quella delle armi da fuoco ed in particolare delle bombarde in ferro. Al testo segue un’appendice documentaria. Franco D’Angelo, tratta del “Quartiere della Loggia”, presumo della città di Palermo. Un quartiere circondato da monumentali palazzi abbandonati, degradati, murati, che ormai appare quasi spettrale, perché viene sempre più abbandonato dagli abitanti e soprattutto dalle botteghe. Anche perché di notte la musica ad alto volume di una certa movida, certamente non fa bene a renderlo più vivibile. D’Angelo nel servizio propone alle associazioni culturali e ambientaliste di dialogare con gli abitanti e con chi frequenta il quartiere per informarli del grande valore storico degli edifici che occupano e di coinvolgerli nelle iniziative per salvaguardare il patrimonio tramandatoci dai nostri padri.

“I Corsari del Canale di Sicilia nel secolo XVI”, è lo studio di Salvatore Bordonali, che prende lo spunto dal libro di Ferruccio Formentini, pubblicato alcuni anni orsono e che merita di essere rivisitato. “E’ un tentativo riuscito di rendere comprensibile, senza annoiare, quel triste fenomeno che fu la Pirateria, che per un lunghissimo arco di tempo infestò quello che orgogliosamente i Romani avevano chiamato il mare nostrum. Il testo indaga le cause prossime e remote del fenomeno e s’inquadra tra le tensioni crescenti tra Oriente musulmano e Occidente cristiano per il dominio del mare. Quello della pirateria sembrerebbe un fenomeno del passato remoto ma come sappiamo purtroppo per la vicenda dei nostri due poveri marò prigionieri in India, è un fenomeno molto attuale e difficile da debellare.

La Rassegna a pagina 50 propone l’ampio saggio di Gianfranco Romagnoli, “Il Legittimismo in Italia tra il Settecento e l’Ottocento: Monaldo Leopardi e il Principe di Canosa”. Dopo la premessa storica sul legittimismo, Romagnoli descrive la vita del padre del più noto Giacomo Leopardi, vissuto anche lui nel piccolo borgo di Recanati. Monaldo fu un grande legittimista e conservatore in massimo grado, divenendo un esponente di primo piano di questa cultura e della sua circolazione nell’intera penisola ma anche fuori. Era profondamente attaccato ai valori della nobiltà e della religione, che erano stati radicalmente negati dalla Rivoluzione francese e dall’ideologia illuminista che si era diffusa anche in Italia. Questo suo modo di essere si rifletteva anche nella sua vita di tutti i giorni: “andava infatti in giro per le vie di Recanati in costume completo di spada, talché divenne noto come l’ultimo nobile spadoforo d’Italia”. Tuttavia secondo Romagnoli non bisogna confondere il conservatorismo di Monaldo con una pregiudiziale, ottusa chiusura verso il progresso e le novità, anzi esso non vedeva nessuna inconciliabilità tra il cristianesimo e le ferrovie o le macchine a vapore. L’altro grande protagonista del legittimismo italiano fu Antonio Capece Minutolo Principe di Canosa (1768-1838) Uomo politico napoletano, intransigente e imparziale. Quando le truppe napoleoniche giunsero nel Regno di Napoli, si schierò con la resistenza dei “Lazzari”.

A pagina 66, c’è il mio studio su Giacomo Margotti e Davide Albertario, due sacerdoti e giornalisti dell’800, grandi figure purtroppo poco conosciute anche nel mondo cattolico. Per questo lavoro ho utilizzato i libri di Oscar Sanguinetti, “Cattolici e Risorgimento. Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti, D’Ettoris Editori (Crotone 2012) e di Giuseppe Pecora, In prigione in nome di Gesù Cristo. Vita di don Davide Albertario, campione del giornalismo cattolico”, pubblicato dal “Centro Studi Davide Albertario” e dal “Centro Librario Sodalitium” (2002). I due sacerdoti hanno un destino comune e operano in un drammatico periodo della storia del nostro Paese. Oltre ad essere sacerdoti, furono entrambi giornalisti, politicamente intransigenti e polemisti al servizio della verità e della Chiesa. Don Margotti fondò e diresse, “L’Armonia” e “L’Unità Cattolica”. Mentre don Davide Albertario operò nel quotidiano “L’Osservatore Cattolico”, al quale ha consacrato la propria esistenza. Pertanto i due sacerdoti ci ricordano che si può fare apostolato anche con la penna, perché il giornalista, più di ogni altra professione, ha ottime possibilità di orientare le opinioni e formare le coscienze.

Da segnalare altri interventi interessanti come quelli di Michelangelo Ingrassia, sul “Riformismo tricolore. Il MSI e la nuova Repubblica”. A pagina 87 Luigi Antonio Fino, racconta una storia che nessuno ha mai raccontato: “Il bombardamento del Porto di Bari, 2 dicembre 1943”. Seguono altri interventi come “L’epopea di Dien Bien Phu. 20 novembre 1953-10 maggio 1954”, di Francesco Pasanisi. Mentre tra i profili viene tracciata la personalità di Francesco Brancato e la sua attività culturale di meridionalista attraverso i “Quaderni del Meridione”. Maria Antonietta Spadaro invece racconta “Panormus. La scuola adotta la città”, vent’anni di adozione di monumenti cittadini (1994-2014). Per la Letteratura e l’Arte, Domenico Passantino descrive il film, “La grande bellezza”. Segue l’intervista di Giuseppe La Russa allo sceneggiatore turco, Ferzan Ozpeteck. Infine la rivista presenta alcune recensioni e segnalazioni di libri. La rivista può essere consultata in versione ebook sul sito www.isspe.it.

 

 

Copertina del saggio storico

La collana “Biblioteca di studi conservatori” della D'Ettoris Editori, dopo l'inaugurazione dedicata al profilo del teologo intransigente don Giacomo Margotti, si arricchisce di un nuovo saggio: lo firma ancora lo storico Oscar Sanguinetti (cfr. Oscar Sanguinetti, Alle origini del conservatorismo americano. Orestes Augustus Brownson: la vita, le idee, Prefazione di Antonio Donno, Pp. 270, Euro 17,90) ma questa volta la scena si sposta dalla nostra penisola italica oltre l'Atlantico per conoscere meglio le premesse storiche e dottrinali di quell'autentico revival conservatore che – almeno a partire dalla lezione di Russell Kirk agli inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso – ha riportato temi, linee-guida e tendenze del conservatorismo e del tradizionalismo politico d'annata nel pieno dell'agenda politica e del dibattito pubblico del grande Paese a stelle e strisce. Un Paese, che – nonostante la crisi economico-finanziaria scoppiata proprio in casa nel 2008 e l'indubbia perdita di peso a livello geopolitico internazionale negli ultimissimi anni caratterizzati dalla disastrosa gestione 'disinvolta' dell'Amministrazione Obama – resta ancora la grande potenza mondiale di riferimento dell'intero Occidente. Nazione difficile da comprendere all'esterno perchè ab origine 'naturalmente' sfuggente ad ogni schema ed etichettatura tranchant, gli Stati Uniti vantano in effetti ancora oggi una diffusa cultura della libertà civica - alimentata da un'evidente sostrato virtuoso di derivazione religiosa - e persino una filiera tutt'altro che marginale di scuole, fondazioni e think tank di stampo apertamente conservatore, né può essere certo un caso – per fare un esempio fra i tanti – che da decenni la più grande marcia integralmente e tenacemente pro-life del mondo sia proprio quella statunitense che ogni anno in gennaio, a dispetto delle temperature rigide e persino delle bufere di neve, sfila indomita sotto il Campidoglio di Washington per ricordare al Cesare di turno che non ci sarà mai vera giustizia senza rispetto della verità e che nessuna legge umana potrà derogare a un comando divino. Che cosa c'è dietro questo mondo ritratto con tinte spesso folkloristiche dai mass-media mainstream e tutto sommato ancora poco conosciuto in Italia? Il professor Antonio Donno - docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento di Lecce - nella prefazione all'opera di Sanguinetti evidenzia una sorta di genealogia della cultura conservatrice nordamericana che lega appunto la vicenda del convertito cattolico Orestes Brownson (1803-1876) a Kirk passando per Edmund Burke (1729-1797) e disegnando così con dei volti concreti quelle radici dell'ordine americano – per citare un celebre riferimento testuale del secondo dei tre, appunto The Roots of American Order (1974) – che non poche volte, fattualmente, si sono poi rivelate la 'tradizione geograficamente interpretata' di un antico ordine europeo: “Brownson si ispirava al concetto politico della prudenza, che fu oggetto di uno studio di Russell Kirk, grande estimatore di Brown son, e che lo stesso Kirk giudicava uno dei princìpi-cardine del conservatorismo nel campo della politica, ma non solo. [Sanguinetti] considera Brownson il continuatore di quell'iniziale filone conservatore americano che si può riassumere nei seguenti punti: spirito religioso delle origini; diffidenza verso il progresso e le ideologie progressiste; difesa dell'impianto libertario-comunitario; primato della matrice cristiana e anglo-sassone. In definitiva, l'eredità del pensiero di Edmund Burke” (pag. 12).

Segue quindi la premessa dell'Autore al saggio vero e proprio che spiega perchè la scelta della vita e delle idee di Brownson (“la sua figura riveste un ruolo-chiave in relazione al primo coagularsi di un ambiente cattolico e conservatore negli Stati Uniti dell'Ottocento” (pagg. 18-19)) e quindi l'opera bio-bibliografica che si articola in quattro grandi capitoli (I. 'L'età di Brownson e l'idea conservatrice' (pagg. 23-75), II. 'Orestes Brownson: la vita' (pagg. 77-142), III. Orestes Brownson: le idee (pagg. 143-210), IV. 'Conclusioni' (pagg. 211-225)), una corposa bibliografia (pagg. 227-234) e infine un appendice in cui viene proposta al lettore la recensione redatta dallo stesso Brownson sulla sua rivista Quarterly Review nell'ottobre del 1847 del celebre saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche del conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821). Come in ogni indagine che si rispetti, l'incipit è dedicato alle tracce presenti e contemporanee della tematica oggetto di studio: “dobbiamo al rinnovatore della cultura conservatrice statunitense Russell Amos Kirk (1918-1994), studioso del Michigan e animatore della vita intellettuale americana, se di Brownson si tornerà a parlare non solo come curiosità accademica, ma come un riferimento di rilievo, come un pensatore dal quale era possibile trarre insegnamenti non banali, dalla politica all'educazione, dalla critica letteraria alla religione. A Brownson Kirk dedicherà un capitolo del suo libro The Conservative Mind. From Burke to Santayana, pubblicato nel 1953, che sarà considerato la Bibbia del conservatorismo americano. Kirk curerà due anni dopo anche una selezione di saggi (cinque) di Brownson di argomento politico, facendoli precedere nella nuova edizione del 1990 da una sua breve ma acuta introduzione” (pagg. 24-25). Eppure non è proprio moltissimo se si considera che ci troviamo probabilmente di fronte al “primo e più significativo opinionista cattolico conservatore della storia americana” (pag. 27). Si tratta ovviamente di una rimozione in parte voluta e anzi mirata, come quella che ha riguardato il cuore pulsante della cultura lato sensu antiprogressista del secolo XX, e tuttavia la spiegazione non conforta granchè, meno che mai nell'Anno di Grazia 2014, soprattutto quanti ritengono che quello che leghi Roma e Washington sia ancora – e nonostante tutto – di gran lunga superiore a quello che eventualmente le 'divida'. Sanguinetti si sofferma poi a lungo sulla caratterizzazione teoretico-pratica del conservatorismo in quanto tale affrontando un dibattito antico, che in passato ha attraversato anche momenti aspri, e che è tuttora lungi dall'essersi esaurito. Anzi, come questa rivista ha più volte messo in luce, il primo problema è forse proprio quello dell'accettabilità del termine nel discorso e nel linguaggio pubblico, anche in Italia, dove persino leader storici e guide carismatiche del popolo elettorale conservatore hanno fatto fatica (e talora non vi hanno nemmeno tentato) a dirsi e dichiararsi convintamente 'conservatori' sulla pubblica piazza, fosse anche quella di casa propria nel comizio di chiusura della campagna elettorale. Per l'Autore, “conservatore, in senso proprio e 'classico', è chi, persona o dottrina, è legato, in qualche misura e in maniera esplicita o implicita, a un retaggio di principi originari, universali e perenni che si mantiene immutato attraverso le generazioni. Che, in aggiunta, preferisce attingere – quindi, a sua volta, trasmettere – a tale retaggio piuttosto che reinventare tutto. E assume, altresì, che il retaggio pervenutogli abbia una valenza normativa nella propria vita o in quella della collettività, come pure nella progettazione e nello sviluppo della convivenza umana attuale e futura. Si tratta di una definizione [...] che implica tre cose: (a) il rimando a un preciso patrimonio di principi e di valori originari e immodificabili; (b) un'azione di trasmissione di tale patrimonio dal passato, prossimo o remoto, al presente; e (c) la sua accettazione e adozione, almeno in tesi, come criterio di vita e sostegno per lo sviluppo proprio e della società” (pag. 52). L'eclettico Brownson, 'yankee purosangue', essendo nativo del Vermont, e proveniente dalla variegata galassia del protestanesimo (dov'era stato presbiteriano in gioventù e poi persino ministro del culto universalista), rientra a pieno in questo ritratto, soprattutto dopo l'inattesa conversione al cattolicesimo – che avviene in età adulta, a quarant'anni compiuti, nel 1844 – dopo una ricerca interiore, anzitutto - ma non solo - di natura intellettuale, e sancisce di rimando anche l'adesione formale a un pensiero conservatore vero nomine. Pur se piuttosto frammentario e asistematico nell'esposizione delle ragioni che definiranno la sua tipica Weltaschauung (la curiositas insaziabile d'altronde lo porterà a leggere di tutto e di più ma in modo alquanto disordinato e spesso superficiale), il Nostro diventerà da allora un vero e proprio punto di riferimento culturale – oltre che un divulgatore, un apologeta e un militante generoso – di quel movimento complesso ed eterogeneo che fa comunque del supporto al principio di realtà in primis la ragione d'essere della sua identità politica e nazionale più profonda. Dopo la parentesi della drammatica Guerra Civile (1861-1865), che lo vede peraltro inaspettatamente sposare le motivazioni degli unionisti (soprattutto per la difesa dell'integrità territoriale nazionale, più che per motivi antischiavistici), gli ultimi anni vedranno la rielaborazione dei suoi principali scritti politico-filosofici, compendiati in The American Republic che esce nel 1865 e resterà in un certo senso il suo 'testamento spirituale'.

Le sue molteplici, 'problematiche' e contraddittorie passioni ondivaghe, effimere e intense, come si conviene a una personalità quasi naturaliter istintiva qual'è la sua - si vedano gli approfondimenti che Sanguinetti dedica al confronto con un Gioberti piuttosto che con un Lamennais - se pur non possono essere mai eluse del tutto e anzi ritornano in più frangenti della sua folta produzione, tuttavia non diminuiscono affatto la portata gigantesca della sua figura nel lungo perodo in termini d'influenza di idee, abiti e atteggiamenti su magna pars del movimento conservatore statunitense dalla seconda metà dell'Ottocento fino ad oggi e che anzi – anche grazie a lui – registrerà semmai nei suoi ambienti anche un nuovo interesse nei confronti della dottrina sociale cattolica e dei suoi fondamenti, trascendenti e non. Tutto ciò senza dimenticare l'attrazione esercitata lungamente pure su quel fenomeno trasversale che è il patriottismo statunitense. Per dirla ad esempio con un particolare aneddotico ma indicativo del personaggio, che l'Autore mutua da Russell Kirk: “il detto comunemente attribuito al Presidente John Kennedy 'Non chiedere che cosa il tuo Paese può fare per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo Paese' è stato in effetti enunciato per la prima volta da Orestes Brownson al Dartmouth College” (cit. a pag. 221), solo che mentre oggi JFK è diventato un mito mondiale – basta dare un'occhiata alla pubblicistica che continua ad uscire senza soluzione di continuità nei suoi confronti, oltre che alle pellicole cinematografiche – Brownson è rimasto dov'era 'recluso' allora, cioè nel dimenticatoio, come si suol dire popolarmente. Al lettore discernere se perchè cattolico, perchè conservatore o tutte e due le cose insieme.

Copertina_Le Insorgenze

 

La collana storica dei “Quaderni del Timone”, la più diffusa rivista di apologetica cattolica italiana diretta da Gianpaolo Barra, si impreziosisce con un nuovo fascicolo: lo firma Oscar Sanguinetti (Presentazione di Marco Invernizzi) e ha per tema uno degli argomenti più dimenticati – oltre che politicamente scorretti – dalla storiografia risorgimentalista imperante, ovvero le cosiddette ‘Insorgenze’ antigiacobine e antinapoleoniche, rectius ‘controrivoluzionarie’, che ebbero luogo un po' ovunque nella nostra Penisola tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX. Si trattò realmente di un avvenimento di popolo, come non fu invece il processo di unificazione coatta capeggiato da Casa Savoia decenni più tardi: eppure di quello che accadde in quei turbolenti anni che videro morire sul campo circa 100.000 italiani, di certo non meno italiani di quelli caduti al seguito dell'ubriacatura ideologica garibaldina o mazziniana, si é persa oggi quasi del tutto la memoria pubblica. Lo lamenta in apertura d'opera proprio Invernizzi quando scrive che “del ventennio napoleonico, nessuno sa niente. Nei programmi scolastici non viene ricordato, la letteratura non ne parla quasi mai, al contrario capita spesso di ascoltare intellettuali italiani parlare bene di Napoleone come il primo vero modernizzatore dell'Europa, e dunque dell'Italia” (pag. 7). All’interno poi del corpo sociale cattolico la situazione non di rado è ancora più sconfortante: il giudizio sul Bonaparte varia infatti sensibilmente di valore da un interlocutore ad un altro come se il fatto - ineguagliato nella storia della Cristianità - di aver tenuto prigionieri due Papi (rispettivamente Pio VI [1775-1799] e Pio VII [1800-1823], quest'ultimo peraltro morto in Francia durante la prigionia) fosse un dato neutrale come un altro, liberamente interpretabile a seconda dei punti di vista. Contro questa vera e propria deformazione dell'identità italiana più genuina e profonda va quindi riaffermato che – è sempre Invernizzi a scriverlo – durante il ventennio napoleonico “molti italiani insorsero contro la dominazione francese, non tanto perché straniera, ma in quanto cercava di cambiare il modo di vivere degli italiani, introducendo la leva di massa obbligatoria, aumentando le tasse, vietando processioni, chiudendo chiese e addirittura imprigionando i Pontefici perché avevano osato opporsi al potere dell'impero. Erano gli insorgenti e ne furono uccisi [decine di migliaia] nel corso delle diverse guerre di guerriglia che si svolsero lungo la penisola. Erano cattolici italiani, di diverse parti [...] Non se ne è mai occupato nessuno (o quasi), fino a tempi recenti” (ibidem).

Segue quindi un'introduzione dell'Autore (pp. 8-11) che inquadra opportunamente il contesto storico in cui si sviluppa il processo rivoluzionario francese e le prime vivaci reazioni popolari allo stesso, a cominciare dall'insurrezione della regione della Vandea nella Francia del 1793 e, a seguire, dall'epopea sanfedista nell'Italia del 1799. Sanguinetti ricorda poi i vari studiosi che negli ultimi anni si sono soffermati sulla tematica rimossa lasciando un metodo significativo, o almeno una traccia, da seguire: da Roger Dupuy e Reynald Secher in Francia a Francesco Mario Agnoli e Sandro Petrucci in Italia. E' anzitutto alle loro pagine che oggi bisogna guardare per “riscoprire momenti e figure [fino a poco tempo fa] ignoti o sottovalutati” (pag. 11). I successivi quattro capitoli (“L'Insorgenza”, pp. 12-19; “L'Insorgenza in Italia”, pp. 20-45; “Alcune questioni”, pp. 46-51 e “Come interpretare le Insorgenze”, pp. 52-57) illuminano più nel dettaglio il fenomeno storico vero nomine 'controrivoluzionario' presentando prima i protagonisti intellettuali della reazione 'colta', a livello di classi dirigenti, e poi le diverse epopee popolari. Sul primo versante Sanguinetti ricorda come fondamentali gli scritti polemici del conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821), il quale resta - con le sue inarrivate Considerazioni sulla Francia (1796) - probabilmente il più grande pensatore totalmente e radicalmente controrivoluzionario del suo tempo, quindi il francese Louis de Bonald (1754-1840), passando per lo svizzero Karl Ludwig von Haller (1768-1854), fino al prussiano Friedrich von Gentz (1764-1832): tutti comunque, in un modo o nell’altro, parzialmente debitori di quell'analisi antiveggente messa nero su bianco per la prima volta dal britannico Edmund Burke (1729-1797) con le sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia uscite nel 1790.

Relativamente al secondo versante, invece, l'Autore pone in evidenza gli elementi – spesso mistificati – che portano obiettivamente a considerare le Insorgenze come una realtà nient'affatto episodica o casuale, ma al contrario, come un fenomeno unitario e - a livello di masse - assolutamente consapevole. Insomma quelle che scoppiano allora numerose in gran parte d'Italia non sono delle rivolte marginali orchestrate da qualche esagitato capo-popolo in cerca d'avventure ma, proprio come avvenne oltre Oceano da parte delle colonie nordamericane verso la Madrepatria britannica, delle reazioni mirate e coscienti contro un tentativo arbitrario di usurpazione delle proprie libertà naturali, oltre che di negazione violenta della propria storia. Avviene così che “fra il 1796 e il 1814, più o meno ovunque si levi uno stendardo francese, ovunque vengano abbattuti l'aquila bicipite, il leone di San Marco, le chiavi di san Pietro, la croce sabauda e i gigli borbonici, il popolo italiano rifiuta di sottomettersi al nuovo potere, si ribella, si avventa nei modi più svariati contro l'invasore empio e rapace, libera, ove può, il territorio del municipio o del contado o del principato dall'invasore, restaura, magari con qualche variante, l'ordine antico” (pag. 26). L’episodio più significativo di questa vera e propria battaglia identitaria al Nord resta l’insorgenza di Verona veneta, le cosiddette ‘Pasque veronesi’, scoppiate nell’aprile del 1797. Tuttavia, “il maggior numero d'insorgenze, in questi anni di fine secolo, si addensa nelle regioni centrali della Penisola. [Infatti] il primo soggetto con il quale la Repubblica Francese entra in frizione è Papa Pio VI” (pag. 31) che vedrà i suoi territori invasi dagli occupanti stranieri e, quindi, l'instaurazione della prima Repubblica Romana (1798). Arrestato e deportato in Francia, come accennato, il Pontefice vi morirà in solitudine l'anno successivo, proprio quando poco più a Sud si svolge l’epopea dell’esercito della Santa Fede guidato dall'indomito cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello (1744-1827).

Ma l’Autore ricorda anche il 'Viva Maria' aretino (come venne chiamato dal grido ossessivo degl'insorti), “forse il movimento popolare antifrancese e antirivoluzionario italiano più ampio e più completo, sì da configurarsi addirittura – come la Vandea per la Francia – quale modello d'insorgenza 'italiana'” (pag. 35), ancora la ‘Massa Cristiana’ in Piemonte, e molti altri episodi minori in Romagna, come in Garfagnana, in Valtellina e in Venezia Giulia tra gli altri, oggi pressochè tutti rimossi da ogni atto di culto civile. Da ultimo, non manca un ricordo dell'indimenticabile insorgenza tirolese guidata da quell’Andreas Hofer (1767-1810) che pagherà con la sua stessa vita la sua eroica testimonianza di libertà e, insieme, di attaccamento radicato alla millenaria fede. Ecco, se oggi si vuol tornare a parlare di federalismo e di identità con realismo sarà bene tornare a guardare e a meditare anzitutto queste pagine e queste figure reali che spiegano il carattere e la memoria delle nostre diverse, e variegate, realtà locali più e molto meglio dei (politicamente corretti) libri di testo scolastici o anche (talvolta) dei discorsi colmi di retorica di alcune delle cariche (in tesi) più rappresentative dello Stato. Volendo stendere un bilancio finale, Sanguinetti calcola infine che “i combattenti dell'insorgenza - i dati sono molto approssimati per difetto - sono almeno trecentomila e le vittime un numero straordinariamente elevato: fra le sessantamila [...] e le centomila [...]. Un numero impressionante, se si confronta con la popolazione allora residente nel territorio dell'odierna Italia, che ammontava a circa quindici milioni di abitanti. La storia d'Italia non ha mai conosciuto un numero così elevato di caduti: se si pensa che le vittime di tutte le guerre del Risorgimento, a detta dello storico Gaetano Salvemini (1873-1957), sono state poco più di seimila [...] si comprende che ci si trova davanti a un evento immane, che suscita interrogativi pesanti sul perchè nessuno lo conosca, anzi si continui a celebrare i loro uccisori come liberatori” (pag. 50). Insomma, l'Insorgenza di fine Settecento e inizio Ottocento, osservata senza pre-giudizi e passioni partigiane rivela lucidamente che qui, “per la prima volta nella storia [...] esiste una nazione italiana” (pag. 56), orgogliosa di esserlo e pronta a combattere pur di continuare a esserlo. Lo aveva intuito già peraltro – come suggerisce la quarta di copertina del fascicolo – lo storico Niccolò Rodolico (1873-1969) ai suoi tempi: oggi, a oltre quarant'anni dalla sua scomparsa, e molta altra acqua passata sotto i ponti, si spera che ne prendano finalmente atto anche i suoi successori sulle cattedre universitarie.

Copertina_Cattolici e Risorgimento

 

Con questo vivace profilo biografico del sacerdote e teologo ligure 'intransigente' Giacomo Margotti (1823-1887) viene inaugurata presso l'editore crotonese D'Ettoris una nuova collana, intitolata opportunamente “Biblioteca di studi conservatori” e diretta dal professor Oscar Sanguinetti (cfr. O. Sanguinetti, Cattolici e Risorgimento. Appunti per una biografia di don Giacomo Margotti, D'Ettoris Editori, Crotone, pp. 160, Euro 15,90). Il progetto nasce dal desiderio di far conoscere ad un pubblico il più ampio possibile – e non solo di nicchia – temi, contenuti e figure di riferimento che sarebbero distintivi di una qualsiasi cultura politica che si richiami, anche vagamente, al 'conservatorismo', ma che per vari motivi nel nostro Paese non sono finora mai stati coltivati. In questo senso Margotti rappresenta un modello e un autentico precursore, ancora tutto da scoprire. La sua vicenda biografica, infatti, s'incrocia con gli anni tormentati del cosiddetto 'Risorgimento' o, rectius, Rivoluzione italiana d'importazione illuminata francese, attraversandone - come cattolico impegnato nella società, oltre che come prete consacrato - da raro protagonista tutte le premesse, i conflitti e le conseguenze. Come spiega nella “Prefazione” Marco Invernizzi, in effetti, Margotti “ligure trapiantato a Torino, cattolico militante, sacerdote e teologo, giornalista per obbedienza e vocazione, ha diretto per decenni uno dei maggiori quotidiani nazionali, L'Armonia Cattolica” (pag. 9) combattendo “vis-à-vis la Rivoluzione” (ibidem) al pari di quanto fecero altri cattolici intransigenti della sua epoca a cominciare dallo stesso Papa Pio IX (1846-1878) e don Bosco (1815-1888), suo amico ed estimatore. E proprio gl'intransigenti – prima 'vinti' dalle vicende politiche e culturali e poi umiliati da una storiografia dominante impunemente partigiana – costituiscono qui l'interesse primario dell'Autore: essi, osservati ex post, rappresentano infatti non solo, né 'semplicemente', i cattolici tradizionalmente più fedeli al Papa (che ritenevano ingiusta l'abolizione del potere temporale) ma anche quelli che allora avevano compreso di più e meglio il carattere fondamentalmente anticristiano del 'Risorgimento' che fuori dalla retorica nazionalista e sabauda si qualificava sempre più per essere una vera e propria rivoluzione culturale e sociale con l'obiettivo ambizioso di creare un nuovo ethos e una nuova anima (da qui il culto patriottardo della 'religione civile' laica), totalmente in antitesi con il glorioso passato che univa dal Nord al Sud il variegato corpo sociale della Penisola e riposava invece anzitutto sulla plurisecolare tradizione religiosa cattolica e quindi per sua natura universale.

Così, “gl'intransigenti rappresentano una posizione culturale che unisce la maggioranza dei cattolici militanti del XIX secolo, riuniti nell'Opera dei Congressi, il nome ufficiale del movimento cattolico dal 1874 al 1904”, tuttavia, proprio in ragione delle loro scelte e della loro visione integralmente contro-rivoluzionaria “non potevano piacere a quei cattolici che fino a pochi anni fa hanno monopolizzato l'interpretazione della storia del movimento cattolico in un senso 'democratico', cioè di accettazione e di subordinazione alle interpretazioni ideologiche prevalenti, crociana, gentiliana o gramsciana” (pag. 10). Ecco perchè, citando ancora Invernizzi, “è importante riscoprire queste figure [...] perchè senza di loro il mondo cattolico oggi non sarebbe così come è” (pag. 11). Un esempio? “Senza gl'intransigenti non ci sarebbero state le banche cattoliche, le casse rurali e le società di mutuo soccorso, quella rete sociale nata attorno alle parrocchie che ha resistito fino ai nostri giorni, le opere di cui spesso si parla a proposito del principio di sussidiarietà della dottrina sociale della Chiesa. Senza gl'intransigenti, che hanno segnato soprattutto alcune regioni con la loro azione di costruzione delle opere sociali, non riusciremmo a capire perchè proprio la Lombardia e il Veneto sono fra le zone dove il cattolicesimo sociale ha realizzato una rete che ha profondamente inciso sulla cultura di queste popolazioni preservandole più di altre da penetrazioni ideologiche anticristiane” (ibidem).

Nei successivi tredici capitoli che compongono l'opera vera e propria, Sanguinetti tratteggia il profilo a tutto tondo di questo singolare - quanto oggettivamente eroico - prete-giornalista, coraggioso e brillante animatore delle battaglia delle idee a mezzo stampa che mise tutte le sue forze al servizio della causa della Chiesa perseguitata e della difesa del Vangelo ad maiorem Dei Gloriam. Di lui, annota l'autore in esordio, oggi si ricordano poche cose, tra cui il fatto che fu l'inventore dell'appello “'né eletti, né elettori' in occasione delle prime elezioni politiche unitarie nel 1861” (pag. 13) e che sarà poi di fatto confermato dalla Santa Sede (tramite il Santo Uffizio) come 'linea ufficiale' nel 1876. In realtà, Margotti fu molto di più: uno studioso colto (leggeva - e citava - frequentemente pensatori come Joseph de Maistre (1763-1821) e Juan Donoso Cortés (1809-1853)) e un osservatore attento dei fatti non solo ecclesiastici ma anche e soprattutto civili e sociali che si svolgevano quotidianamente tutt'intorno a lui tanto da interessarsi in prima persona alla 'cosa pubblica' e farsi eleggere come deputato (1857) presso il Parlamento del Regno di Sardegna (elezione peraltro prima congelata e poi invalidata dal governo per supposto – in realtà inesistente – conflitto con una legge che vietava l'elezione di ecclesiastici in cura d'anime). Quindi, sarà il direttore e l'organizzatore di due delle più importanti testate del mondo cattolico dell'Ottocento, ovvero L'Armonia (1848-1863), il primo quotidiano cattolico 'intransigente' che farà parlare di sé attirando la repressione governativa 'liberale' per le sue critiche dirette all'esecutivo piemontese (e registrando una serie impressionante di multe e sequestri) passando, a seguire, a L'Unità Cattolica (1863-1929) che diventerà al tempo “una delle più autorevoli e seguite testate della stampa italiana” (pag. 121), esattamente la terza per diffusione nazionale dopo Il Secolo di Milano e L'epoca di Genova, nonchè un organo di 'rappresentanza ufficiosa' delle posizioni papali (“coerentemente con la difesa a oltranza del potere temporale, dopo la breccia di Porta Pia il giornale uscirà a lungo - addirittura fino al 25 maggio 1898 - listato a lutto in segno di cordoglio e di protesta” (pag. 122)). Il tutto sullo sfondo drammatico - e in gran parte rimosso, purtroppo, anche dalle ultime commemorazioni pubbliche 'meno istituzionali' e retoriche - del più grande conflitto mai accaduto tra Stato e Chiesa nel nostro Paese (Sanguinetti, tra gli altri dati, ricorda che all'indomani dell'unità politica, causa arresti e 'confini' vari di numerosi Vescovi, ben 108 diocesi della Penisola rimasero senza pastore: se non è un unicum e un vulnus ineguagliato questo, confessiamo che ci resta difficile comprendere quale altro possa essere).

Ripubblicata l’amplissima inchiesta condotta nel 1918-’19

per indagare cause e responsabilità di Caporetto

caporetto

L’impressione è poderosa. Due volumoni, un Cd, 50 pagine d’introduzione, quasi mille pagine fra testo, tavole, carte geografiche. Il titolo parla da solo: Dall’Isonzo al Piave. È la relazione della commissione d’inchiesta che fu istituita con regio decreto nel gennaio 1918, per indagare su “Le cause e le responsabilità degli avvenimenti dall’Isonzo al Piave”, ossia dallo sfondamento austro-germanico verso Caporetto, alla difesa a oltranza attuata sulla riva destra del Piave. Tutto, fra il 24 ottobre e il 9 novembre 1917. Fu allora, e permane nell’immaginario collettivo, la più grave sconfitta patita dall’Italia unita. Venne, però, una formidabile capacità di tenuta prima, di ripresa poi: un anno di conflitto, e si giunse all’armistizio segnante la vittoria, dopo che era stato palese che avrebbe vinto colui che più dell’avversario fosse durato.

La commissione d’inchiesta lavorò fino al giugno 1919, tenendo quasi 250 sedute. Produsse una relazione finale, pubblicata in due volumi, il primo dedicato a un “Cenno schematico degli avvenimenti”, il secondo a “Le cause e le responsabilità degli avvenimenti”. Sono i due tomi che, meritoriamente, l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito oggi ripropone, fornendo uno strumento prezioso agli studiosi (o anche ai semplici interessati) di storia, e di storia militare in ispecie,.

La cura dell’opera è stata affidata al Capo dell’Ufficio storico, il colonnello Antonino Zarcone, e allo storico Aldo A. Mola. Il primo studioso stende la sezione della prefazione intitolata “Da Caporetto a Vittorio Veneto”, il secondo l’altra sezione, “Come una grande battaglia perduta nella Grande Guerra infine vinta divenne sinonimo di morbo congenito”. Al prof. Mola abbiamo posto alcune domande.

 

Era necessario riprodurre due simili corposi tomi, che a qualche maligno darebbero l’impressione di un poderoso mattone?

Da tempo l'Inchiesta su Caporetto era irreperibile anche nelle biblioteche pubbliche meglio fornite. Però viene spesso citata, di seconda e terza mano, da “studiosi” che la menzionano come capo d'accusa contro i militari, la monarchia, lo Stato. Nel centenario della Grande Guerra sono pubblicate cartoline, lettere, cianfrusaglie. Meglio riportare all'attenzione opere che hanno fatto la Storia, documenti frutto di lunghe indagini, com'è appunto l'Inchiesta.

 

Ci fu un responsabile unico di Caporetto?

In guerra si perdono battaglie. L'importante è la vittoria finale. Nella Grande Guerra l'Italia infine vinse. A Caporetto persero in molti, a partire da Cadorna, che non impose a Capello e a Badoglio di arretrare le difese e non capì che gli austro-germanici, liberi sul fianco della Russia, stavano davvero per scatenare l'inferno. Travolgere l'Italia prima dell'inverno voleva dire chiudere la partita prima che gli Stati Uniti gettassero sulla bilancia il peso della loro immensa forza economico-militare. Ma chi si rivelò al di sotto della sua parte fu il governo: il presidente Paolo Boselli e soprattutto il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, il quale del corso della guerra comprese poco. Ancora nel 1918 era convinto che l'Impero asburgico sarebbe sopravvissuto alla sconfitta.

Fu un errore avviare l’inchiesta?

Fu una tragedia. Non si mette sotto inchiesta l'Esercito mentre combatte. L'8 novembre 1917, quando la ritirata si era già mutata in “battaglia d'arresto” sul Piave, re Vittorio Emanuele III spiegò a Peschiera quel che l'Italia aveva e avrebbe fatto, con Armando Diaz al Comando supremo. L'Inchiesta fu una follia, come la condanna a morte degli ammiragli che avevano perso la battaglia navale alle Arginuse: Socrate votò contro. Un Paese serio non mette sotto inchiesta chi combatte. Fa quadrato, come indicò Giovanni Giolitti (dipinto come neutralista o addirittura pacifista dai male informati) nel suo intervento alla Camera dopo Caporetto.

Le conclusioni erano sbagliate?

Sì, perché misero alla gogna i “militari” ed elusero le responsabilità gravissime dei governi (Salandra e Boselli), che non contrastarono il pacifismo peloso né dei cattolici, avallati da papa Benedetto XV (che definì la guerra “inutile strage”), né dei socialisti (“non un altro inverno in trincea”), come deplorato da Cadorna in ben quattro lettere al Governo, rimaste senza risposta. Ma il vero assente fu il Parlamento. Il primo eletto a suffragio universale maschile, a conferma che il diritto di voto non è tutto.

Chi ringraziare per quest’opera, prima confinata in biblioteche, e di difficile reperibilità antiquaria?

Anzitutto, l'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'Esercito, che si sta prodigando per documentare la Grande Guerra. In secondo luogo, alcune realtà “di provincia” ma molto sensibili alla “grande storia”. È il caso della Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo, presieduta dal professor Giovanni Rabbia, che già ha sorretto la pubblicazione dei cinque volumi Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio e di Mussolini a pieni voti. E poi il Centro Giolitti di Dronero/Cavour e l'Associazione di Studi sul Saluzzese.

Quali novità propone questa edizione per la storia militare?

Il Capo dell'Ufficio Storico dello SME, colonnello Antonino Zarcone, esamina con maestria l'anno dalla “rotta di Caporetto” alla battaglia del Solstizio e all'offensiva italiana conclusa con Vittorio Veneto e la resa dell'Impero austro-ungarico. Documenta che l'Italia fece quasi tutto da sola. Vinse per sé e per gli “alleati”, che però non mostrarono molta gratitudine. Mentre dilagava la polemica sulla “vittoria mutilata”, l'Inchiesta buttò benzina sul fuoco. Il col. Zarcone lo spiega anche nell’importante, documentatissima biografia del generale Roberto Segre, ora edita dall'Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito. L'Inchiesta fu un'opera per molti versi agghiacciante (vi si dà conto dell'azione dei tribunali militari, di condanne a morte, esecuzioni, decimazioni, repressione sanguinosa di ammutinamenti), ma è anche “pedagogica”. Bisogna leggerla per capire che cosa fu la “Guerra della Nazione”: formula di Aldo G. Ricci. Sia pure a caro prezzo, l'Italia ne uscì vittoriosa, mentre quattro imperi sprofondarono. Auspico che la ripubblicazione dell'Inchiesta stimoli gli studiosi ad affrontare l'ingente documentazione raccolta dalla Commissione quasi un secolo addietro ma tuttora pressoché inesplorata.

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