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Giovedì, 01 Maggio 2025

Personalmente, penso che stiamo rischiando di perdere la bellezza. E vi é il pericolo che, con questa, perderemo anche il senso della vita”. Così si esprime uno degli ultimi filosofi puri del Vecchio Continente, l’inglese Roger Scruton, il quale ha pubblicato un saggio assai impegnativo e molto politicamente scorretto su un tema di perenne attrazione – l’idea di bellezza – (R. Scruton, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, Vita & Pensiero, Milano, Euro 16,00) che pur partendo da orientamenti di partenza ‘altri’ (Scruton è anglicano) arriva, da non cattolico, a sposare i contenuti nella migliore tradizione estetica cattolica rispolverando classici d'annata e antiche lezioni d'autore. Il risultato è un testo formidabile, etichettato ovviamente già come fuori moda dalla cultura egemone, perchè vi compaiono – e anzi vi dettano letteralmente lo spartito – termini ormai scottanti come ‘verità’, ‘ragione’, ‘vita’ e ‘morte’. Già la premessa metodologica è quantomai provocatoria per un pubblico tendenzialmente relativista: il filosofo è convinto infatti che “la bontà e la verità non si contrappongono mai e la ricerca dell'una é sempre compatibile con il giusto rispetto dell'altra” (pag. 12) il che vuol dire essenzialmente due cose, tutt'altro che scontate al giorno d'oggi. Anzitutto che il bene e il vero esistono sul serio e non sono concetti filosofici immaginari o termini vuoti del vocabolario, quindi, in secondo luogo, che è possibile ad ognuno comprenderli e realizzarli personalmente. Riguardo alla bellezza, evocando sullo sfondo San Tommaso d'Aquino, l’Autore aggiunge che la sua esperienza, come il giudizio che essa determina, rappresentano “una prerogativa degli esseri razionali” (pag. 35) dal momento che solo gli esseri razionali nutrono interessi estetici: d'altra parte, un'osservazione attenta al reale non dovrebbe fare molta fatica a cogliere che la razionalità degli uomini “é coinvolta dalla bellezza [almeno] come lo é dal giudizio morale e dalla convinzione scientifica” (pag. 39). Se siamo onesti con noi stessi, riflettendo sulle scelte piccoli e grandi del nostro quotidiano, anche senza avere studiato tomi enciclopedici, ci accorgiamo immediatamente che “in una vita realmente vissuta il gusto é una componente fondamentale” (pag. 57). Insomma, checché ne pensi l'ultimo critico d'arte che va in tv ad elargire sciocche filastrocche prese per oro colato e condite da applausi in quantità (del tipo “non é bello ciò che é bello ma è bello ciò che piace”), l'argomentazione seria di Scruton si fonda sul fatto (un fatto, non un'idea) che la bellezza di per sé costituisca un valore reale e universale, profondamente radicato nella nostra natura razionale (solo l'uomo giudica il bello e ne prova piacere).

Inoltre, per il filosofo britannico “nella nostra esperienza il bello e il sacro sono contigui [e] i nostri sentimenti per l'uno si riversano costantemente sul territorio rivendicato dall'altro” (pag. 73). Questo é forse il punto più delicato in assoluto dello studio e il campo oggi più minato perché associare il bello direttamente al sacro é quanto di più anti-moderno e contemporaneamente contro-rivoluzionario si possa fare. Tuttavia, per il non-cattolico Scruton le cose stanno davvero così. Anzi, il fatto che il sacro sia stato di fatto espulso dall'arte contemporanea alla fine spiegherebbe logicamente anche come mai il brutto, l’osceno e persino l'orrido e l'indecente siano diventati così comuni nelle tele dei pittori e nelle rappresentazioni teatrali. Tuttavia, “il punto non é solo che gli artisti, i direttori, i musicisti e altre figure che hanno a che fare con l'arte sono in fuga dalla bellezza. Ci troviamo davanti al desiderio di sciupare la bellezza, con atti di iconoclastia estetica. Ovunque la bellezza ci tenda un agguato, può intervenire il desiderio di prevenirne l'attrattiva, facendo sì che la sua esile voce non sia udibile dietro le scene di dissacrazione” (pag. 148). Tutto questo è paradossale, se non proprio assurdo, dal momento che invece “l'esperienza della bellezza ci spinge anche ad andare al di là di questo mondo, in un 'regno di fini' in cui il nostro desiderio ardente di immortalità e di perfezione trova finalmente una risposta. Come affermavano sia Platone, sia Kant, quindi, il sentimento nei confronti della bellezza é prossimo alla mentalità religiosa, poiché emerge da un senso umile del vivere con imperfezioni pur aspirando all'unità suprema con il trascendente” (pag. 149). Illuminanti tal proposito le considerazioni senza peli sulla lingua rivolte all'irreligiosa cultura di massa postmoderna, talvolta violentemente anti-cristiana, e alla banalizzazione che essa veicola continuamente dell'amore umano e del suo fine. “La forma umana é sacra per noi perchè reca il segno dell'incarnazione. La profanazione intenzionale della forma umana, attraverso la pornografia del sesso o la pornografia della morte e della violenza, é diventata, per molti, una sorta di compulsione. E, questa profanazione, che sciupa l'esperienza della libertà, é anche una negazione dell'amore. Si tratta di un tentativo di rifare il mondo come se l'amore non ne facesse più parte. Questa é certamente la caratteristica più importante della cultura postmoderna [...] una cultura senza amore, che ha paura della bellezza perché é turbata dall'amore” (pagg. 151-152). Per questo, insiste Scruton, “chiunque abbia a cuore il futuro dell'umanità dovrebbe studiare il modo di infondere nuova vita nell''educazione estetica', come la definiva Schubert, che ha come scopo l'amore della bellezza” (pag. 158).

Il punto centrale è che in un'epoca in cui la fede va declinando (alcuni sociologi per la verità parlano già, abbastanza esplicitamente, di un Europa post-cristiana) l'arte con il suo semplice e silenzioso esserci “rende duratura testimonianza della fame spirituale e dell'ardente desiderio di immortalità della nostra specie [...] perciò, l'educazione estetica conta oggi più che in qualsiasi periodo storico precedente” (pag. 159). Eppure, ciononostante, il degrado dell'arte, sotto gli occhi di tutti, non é mai stato più evidente. Lontano da schematismi, interpretazioni di maniera, correnti e canoni manualistici, la battaglia decisiva, ancora una volta, pare allora giocarsi nel cuore umano di ognuno, attore o spettatore che sia. Viene in mente qui l'indimenticabile Fëdor Dostoevskij, la sua finissima metafisica in prosa e i Fratelli Karamazov quando lo scrittore russo fa dire a Dmitrij Karamazov quelle parole celebri, letterarie, insieme metaforiche e sempre valide: “La Bellezza é una cosa terribile. E' la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore”. Difficile ribattere che stesse parlando a vanvera uno che non se intendeva. D'altra parte, basta dare un'occhiata ai capolavori oggettivi di sempre dell'arte slava (e non solo) per comprendere come mai, a partire dall'artista stesso, realizzare un'opera d'arte volesse dire quasi sempre cercare d'illuminare con luci, riflessi e colori, conferendogli un'attrattiva inedita pro populo, le pagine più ardue della teologia cristiana.

Per concludere, insomma, “la vera arte é un appello alla nostra natura superiore, un tentativo di affermare l'altro regno, quello in cui prevale l'ordine morale e spirituale [...] Ecco perché l'arte conta. Senza la ricerca consapevole della bellezza, rischiamo di cadere in un mondo di abituale dissacrazione e di piaceri che generano dipendenza, un mondo in cui il valore dell'esistenza umana intesa come esperienza che vale la pena vivere non é più percepibile con chiarezza [...[ La bellezza sta scomparendo dal nostro mondo perchè viviamo come se fosse priva di importanza; e viviamo così perchè abbiamo perso l'abitudine al sacrificio e cerchiamo sempre, con ogni mezzo, di evitarlo. La falsa arte del nostro tempo, macchiata di kitsch e dissacrazione, ne é un segno. Fare riferimento a questo aspetto della nostra condizione non significa sollecitare la disperazione. E' un segno distintivo degli esseri razionali il fatto che essi non vivono solo – o nient'affatto – nel presente. Essi hanno la libertà di disprezzare il mondo che li circonda e di vivere in maniera diversa. L'arte, la letteratura e la musica della nostra civiltà ce lo ricordano, e, inoltre, indicano la strada che é sempre aperta davanti a loro: la strada che permette di uscire dalla dissacrazione alla volta di ciò che é sacro e sacrificale. E ciò, in poche parole, é quello che ci insegna la bellezza” (pagg. 162-164). La prossima pubblicazione di Scruton, in uscita per D’Ettoris, è la traduzione di ‘How to be a conservative’ un manifesto ragionato del conservatorismo come pensiero, gusto e modo di vivere. Da non perdere.

Un primo piano del filosofo inglese Roger Scruton

Con l’espressione “Gladio rossa” viene comunemente indicata una struttura paramilitare di natura clandestina, organizzata nel 1945 e sciolta nel 1974, costituita da ex partigiani e militanti del PCI. Il nome venne coniato dalla stampa presentando l'apparato come simmetrico ed opposto alla funzione anticomunista di “Gladio”, l’organizzazione segreta italiana inserita nella rete “Stay behind” coordinata dalla NATO, sorta nel secondo dopoguerra in quasi tutti i Paesi occidentali europei (inclusi paesi neutrali come Svizzera e Austria) allo scopo di contrastare un’eventuale invasione sovietica.

Sull’argomento negli ultimi anni vi sono state diverse pubblicazioni; fra queste possono essere ricordate il libro del Professore Gianni Donno, consulente della commissione Mitrokhin (e in precedenza della commissione stragi) e ordinario di Storia contemporanea presso l'Università di Lecce, La gladio rossa del PCI (1945-1967), edito da Rubbettino nel 2001, che presenta la prima documentazione organica sulla struttura paramilitare del PCI con ampio contributo in termini di documenti d’archivio.

Donno nella sua pubblicazione distingue due fasi, la prima delle quali tra gli anni 1945-1954, nella quale si determina la formazione dell'apparato paramilitare, sottolineando come al momento del disarmo delle disciolte formazioni partigiane le armi più moderne ed efficienti non furono restituite e venne invece creato un nucleo di azione clandestino (con base soprattutto nel centro e nel nord del paese), costituito in maggioranza di ex-membri delle brigate comuniste Garibaldi. Tale forza clandestina sarebbe stata direttamente dipendente dalle strutture dirigenti del Partito Comunista Italiano, in particolare da Pietro Secchia. Nelle intenzioni dei dirigenti del PCI tale forza poteva essere utilizzata con successo in un intervento armato volto alla costituzione di uno stato comunista in Italia, appoggiato da un sollevamento della popolazione.

Il fatto che Mosca fosse costantemente informata dell'esistenza della forza paramilitare è confermato in un rapporto dell'ambasciatore sovietico ai suoi superiori, 15 giugno 1945, il quale riferisce che «i partigiani del Nord continuano a nascondere le loro armi» e la circostanza è confermata anche da Victor Zaslavsky nel suo libro Lo stalinismo e la sinistra italiana (edito da Mondadori nel 2004) a proposito delle elezioni del 18 aprile 1948, alla vigilia delle quali il PCI riteneva che la DC non avrebbe riconosciuto un esito elettorale favorevole al Fronte popolare.

Zaslavsky sottolinea come l'apparato paramilitare fu tenuto in stato di allerta per tutta la durata della campagna elettorale, pronto ad intervenire in tale eventualità. Nell'imminenza delle elezioni il segretario del PCI Palmiro Togliatti chiese un incontro con l'ambasciatore sovietico Kostylev per chiedere «se si deve, nel caso di una o più provocazioni da parte dei democristiani, iniziare l’insurrezione armata delle forze del Fronte democratico popolare per prendere il potere». Nel corso del colloquio, che ebbe luogo il 23 marzo 1948 in un luogo segreto fuori Roma, riferì che i membri dell'apparato paramilitare erano stati allertati (soprattutto nell'Italia settentrionale), rassicurandolo sul fatto che prima di lanciare un'eventuale insurrezione armata avrebbe chiesto il consenso di Mosca. La risposta del governo sovietico giunse il successivo 26 marzo: Mosca fece sapere che soltanto in caso di attacco alle sedi del PCI i militanti avrebbero dovuto imbracciare le armi ma, «per quanto riguarda la presa del potere attraverso un'insurrezione armata, consideriamo che il PCI in questo momento non può attuarla in nessun modo».

La circostanza nella quale l’ipotesi di insurrezione generale fu prossima a realizzarsi si ebbe in occasione dell' attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. Zaslavsky indica che l'organizzazione paramilitare del partito ritenne che fosse giunto il momento di agire, indipendentemente dal consenso di Mosca e il Paese fu teatro di disordini, occupazioni di fabbriche ed edifici pubblici, blocchi stradali, scioperi, requisizioni di mezzi militari, assalti alle forze dell'ordine, con un bilancio di morti e feriti (come è noto il rischio di un’insurrezione generale fu scongiurato dall’intervento dello stesso Togliatti dall’ospedale). Nella riunione del Consiglio dei ministri del 19 luglio 1948 si affermò che «Il tentativo insurrezionale c'è stato, tanto che a Milano i carabinieri hanno fatto denunce per atto di insurrezione contro i poteri dello Stato. Dopo aver visto in un'ora assumere dai comunisti posizioni di battaglia, non si può negare l'esistenza di programmi prestabiliti» (riportato nel saggio, “I timori di guerra civile nelle discussioni dei governi De Gasperi», di Aldo G. Ricci, in AA.VV., a cura di Fabrizio Cicchitto, L’influenza del comunismo nella storia, Rubbettino 2008, p. 86).

Una interessante prospettiva sull’argomento è quella del libro di Salvatore Sechi Compagno cittadino – Il PCI tra via parlamentare e lotta armata, edito da Rubbettino nel 2006, che investiga il tema della struttura paramilitare del PCI alla luce delle fonti d’archivio dei rappresentanti statunitensi in Italia.

Sechi rende noto come la prima relazione "occidentale" conosciuta sull'articolazione dell'organizzazione venne redatta a Milano, nel febbraio 1947, dal console statunitense. Quest’ultimo riportò che, «A capo dell'apparato vi sarebbero Longo, Sereni e Grieco, a loro volta comandanti dalla sezione Comintern di Ginevra-Lisbona. Le operazioni militari sono gestite dall'ex-partigiano Cino Moscatelli. L'articolazione interna è suddivisa in vari nuclei e settori comandati dalla legazione sovietica in Milano di Via Filodrammatici 5» (S. Sechi, op. cit., p. 350).

Secondo le fonti americane la forza così costituita avrebbe contato tra i 130.000 e 160.000 miliziani, mentre altre stime ritenute più attendibili li valuterebbero in circa 77.000. L'organizzazione paramilitare comunista avrebbe ottenuto aiuti di uomini, armi e mezzi dalla Jugoslavia e sarebbe stata guidata da combattenti addestrati dai sovietici o da ex-comandanti partigiani. Secondo altre fonti l'apparato ebbe contatti anche con la Politická škola soudruha Synka (trad It.: “Scuola politica del compagno Synka”), la formazione armata attiva in Cecoslovacchia.

Che le strutture paramilitari del partito fossero finalizzate a compiti offensivi lo dimostra il fatto che i militanti comunisti italiani venivano militarmente addestrati oltre cortina a tre livelli, guerriglia, sabotaggio e intercettazione, del tutto sproporzionati se si accettasse l'ipotesi dei soli compiti difensivi. La struttura paramilitare del PCI fu predisposta al fine di sostenere una possibile insurrezione armata in Italia ed, alla bisogna, per operare come "quinta colonna" in caso d'attacco da parte dell'Unione Sovietica sul continente europeo.

Card. József Mindszenty (1892–1975)

«Ieri sera, quando seppi della sentenza, ebbi un sentimento di superbia di cui ho chiesto perdono a Dio. Mi sentii cioè vicino ai sacerdoti e ai laici che al di là della cortina di ferro vengono quotidianamente trascinati a pene orribili. Non sono degno però di baciare le catene del cardinale Mindszenty ed altri, ma sento, che, sia pure in piccolissima misura, Gesù mi ha associato a queste sante creature… Se qualcuno pensasse che il vostro vescovo si metterà a tacere, costui fortemente s’illude».

Sono le parole di mons. Pietro Fiordelli (1916-2004), vescovo degno di nota del quale è appena uscita una interessante biografia a cura di Giuseppe Brienza, intitolata La difesa sociale della famiglia. Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, pronunciate in una data destinata a rimanere nella storia, non solo di Prato, ma anche dell'Italia. Era il 1° marzo 1958 e il Vescovo di Prato era stato appena condannato, in primo grado, dal tribunale di Firenze per diffamazione nei confronti dei coniugi Bellandi. Era il famoso caso «dei pubblici concubini». Quel giorno la comunità ecclesiale di Prato si strinse attorno al suo pastore e alle 18, venne celebrata in duomo una messa, su richiesta dei sacerdoti della diocesi toscana e della locale Azione cattolica.

Nel suo discorso, mons. Fiordelli, si riferiva alla gloriosa vicenda del primate di Ungheria, il Servo di Dio József Mindszenty(1892-1975), arrestato prima nel 1944 dal governo filo-nazista del suo Paese con l’accusa di alto tradimento e, poi, nel 1948, da quello comunista a causa della sua Fede in Cristo e della sua ferma obbedienza al Santo Padre. Anche per questo, Papa Pio XII, nella lettera apostolica Dum maerenti animo, del 29 giugno 1956, rivolgendosi alla Chiesa perseguitata nell’Europa dell’Est, scrisse: «Ci rivolgiamo anzitutto a voi, diletti figli Nostri, cardinali di santa romana Chiesa, Giuseppe Mindszenty, Luigi Stepinac e Stefano Wyszynski, che noi stessi abbiamo rivestiti della dignità della romana porpora per gli insigni meriti da voi acquistati nel disimpegno dei doveri pastorali e nella difesa della libertà della Chiesa». «All’animo nostro addolorato – continuava l’ora Venerabile Pio XII – è sempre presente quanto voi, ingiustamente allontanati dalle vostre sedi e dal vostro sacro ministero, avete sofferto e continuate a soffrire con fortezza per Gesù Cristo».

Mons. Fiordelli, nella “cattolica Italia” (o, meglio, “democristiana Italia”) degli anni Cinquanta, come ricorda Brienza, era querelato e condannato in primo grado per aver denunciato dal pulpito come «pubblici peccatori e concubini»una coppia di coniugi della diocesi, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, perché sposati con il solo rito civile. I fatti risalgono al 1956 e causarono al giovane vescovo un processo per diffamazione intentato dalla coppia di cittadini pratesi (lui era un noto militante comunista)ed una condanna in primo grado al pagamento disanzione pecunaria. Dopo molteplici interrogatori e deposizioni, Fiordelli venne, a distanza di anni, assolto in appelloper l’«insindacabilità dell’atto» a lui imputato. Il fatto che, per così dire, accese la miccia fu la lettera da lui indirizzata ad un sacerdote della diocesi di Prato, don Danilo Aiazzi, responsabile della parrocchia alla quale appartenevano i sopra menzionati coniugi Bellandi, pubblicata il 12 agosto 1956 sul giornale parrocchiale. Intrisa di una fermezza alla quale alcuninon erano più abituati, dopo che fu resa nota fu intrapresa, da parte degli ambienti comunisti e laicisti, una campagna stampa internazionale per screditare, assieme al vescovo Fiordelli, quello stesso Papa che lo aveva nominato e lo appoggiava convintamente, cioè Pio XII. Persino la rivista americana Life contribuì, con grandi fotografie pubblicate della famiglia Bellandi al completo, comprese alcune della neo-mamma“scomunicata” con il proprio bebè in braccio, ad amplificare la vicenda.

Dopo discussioni sul diritto canonico e concordatario,i giudici condannarono il vescovo di Prato ad una ammenda di 40.000 lire, una condanna simbolica anche se moralmente grave, che suscitò le vivaci proteste della Santa Sede e del mondo cattolico internazionale. La segreteria di Stato vaticana denunciò la sentenza come un atto illegale della magistratura che avrebbe favorito in futuro ogni abuso laicista, e condannò la debolezza dimostrata nella vicenda dal Governo italiano.

Fra gli altri messaggi di solidarietà pervenuti a mons. Fiordelli e che sono stati riportati nel volume biografico appena pubblicato dalla casa editrice diretta da Mons. Antonio Livi (il quale ne firma anche una accurata Postfazione), sono di particolare interesse storico anche quelli inviati da personalità di notorietà internazionale, perseguitate dalle autorità comuniste al potere, come quello dello scrittore rumeno Vintilă Horia (1915-1992).

Mons. Pietro Fiordelli, per 37 anni vescovo di Prato (dal 1954 al 1991), è da considerarsi fra i più intrepidi difensori della vita e della famiglia in un’ Italia, come quella del post-Concilio e del Sessantotto, nella quale anche molti cattolici si sono adeguati al liberalismo ed al marxismo imperanti. Fra i suoi meriti vi sono quello di aver promosso, nei primi anni Settanta, l’organizzazione capillare di “Centri” e “Servizi di aiuto alla vita” che, ancora oggi, cercano di scongiurare l’aborto e, nel 1979, di essersi inventato quella “Giornata nazionale per la vita”, doverosamente celebrata ogni anno in tutte le parrocchie d’Italia, a partire dell’approvazione della legge che ha introdotto l’uccisione volontaria dei nascituri nel nostro Paese (la famigerata l. n. 194 del 1978).

Quella di mons. Pietro Fiordelli presentata in questo saggio biografico pubblicato nel decimo anniversario della sua morte (2004-2014), corrisponde esattamente alla visione di vescovo che, secondo Papa Francesco, la Chiesa “vuole avere” (Discorso alla Congregazione per i vescovi, 27 febbraio 2014). Determinato a compiere scelte libere da «[…] condizionamenti di scuderie, consorterie o egemonie», ed annoverabile fra quei pastori santi che, ha indicato l’attuale Pontefice, vivono come «[…] seminatori umili e fiduciosi della verità», questo vescovo si è adoperato in un’opera indefessa per la restaurazione della dignità del matrimonio e contro il comunismo. Noncurante delle calunnie e delle accuse mossegli da coloro che avversavano la sua concezione sociale cristiana, Fiordelli si è fatto senza compromessi araldo dei valori morali e familiari, coniando fra l’altro durante il Concilio Vaticano II una delle espressioni che è oggi comunemente utilizzata, cioè la famiglia “Chiesa domestica”, destinata ad edificare, in chiave civica, quella famiglia di famiglie sicuro ancoraggio di Tradizione e di futuro.

Foto di mons. Fiordelli grande

Mons. Fiordelli e gli operai

«Nella città che, al momento del suo insediamento, contavanei vari rami economici oltre 45.000 lavoratori occupati, ilvescovo Fiordelli impostò una capillare pastorale nelmondo degli operai e degli imprenditori. Promosse adesempio, fin dal 1957, la “Pasqua nelle fabbriche”, istituendocontestualmente in diocesi una delle più attive sezioniterritoriali di quell’Opera Nazionale di AssistenzaReligiosa e Morale degli Operai (onarmo), che era stata fondatanel 1926 in seno alla Sacra Congregazione Concistoriale,oggi Congregazione per i vescovi, proprio per cercare di ispirareil movimento operaio ai principi della dottrina sociale della Chiesa e, così, sottrarlo alle pericolose e fallaci “esche” delsocial-comunismo. Si trattava di un’opera che Mons. Fiordelli seguì sempre con grande attenzione, sull’esempio di quantopromosso e fatto personalmente nella sua diocesi a Genovadal card. Giuseppe Siri (1906-1989), un pastoreche emerge come uno dei maggiori protagonisti e teologidella Chiesa del XX secolo» (Giuseppe Brienza, La difesa sociale della famiglia. Diritto naturale e dottrina cristiana nella pastorale di Pietro Fiordelli, Vescovo di Prato, con Invito alla lettura di mons. Luigi Negri, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2014, pp. 21-22 - € 15, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.-).

Fiordelli (copertina)

«Mi chiedo se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione che mira a cancellare la differenza perché non sa più confrontarsi con essa». Queste ferme parole di Papa Francesco, pronunciate nell’udienza pubblica di mercoledì 15 aprile 2015, incoraggiano a non farsi intimidire dalla «colonizzazione ideologica» che i fautori della teoria del gender stanno tentando in Italia e in tutto il mondo occidentale. «Abolire la differenza tra il maschile e il femminile- ha commentato in proposito il direttore della rivista mensile “Studi Cattolici” - auspicando una sorta di neutralità sessuale è una guida all’infelicità, oltre che un’aberrante contorsione mentale.È bene attrezzarsi culturalmente per non farsi intimidire da questa pervasiva campagna d’opinione» (Cesare Cavalleri, Consiglio per chi parla di gender: imparate dall’uomo selvatico, inAvvenire, 22 aprile 2015). Un ottimo sussidio bibliografico da quest’ultimo punto di vista è “Il maschio selvatico/2” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2015, pp. 288, euro 14,50), nuovissima edizione, aggiornata e ampliata, di un libro di grande successo pubblicato nella sua prima ed originaria versione, ben ventidue anni fa, dallo psicologo e psicoterapeuta Claudio Risé. Il saggio spiega come l’ideologia del gendermetta oggi «sotto scacco non solo la natura, cui si cerca di sostituire un mondo totalmente “fabbricato”, costruito da strumenti e processi meccanici e tecnici, ma anche l’uomo e la donna, l’essere umano sessuato».Riséraccoglie quindi la sfida che l’ideologia del gender, contrastata anche dagli omosessuali che non si sentono rappresentati dalla lobby LGBT (cioè di Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali),sta lanciando con grandi risorse mediatiche. Egli denuncia come nell’attuale società mediatica, sradicata e dominata dalla pseudo-cultura di massa, «all’uomo si chiede, e spesso si impone con forza, di rinunciare a essere maschio. Questo diktat è oggi all’origine di buona parte dei disturbi presenti nel mondo maschile».

 

Il maschio, il vero Eroe

Con l’Isis sull’altra costa, la natalità a zero, gli aborti tanti quanti gli immigrati, i “matrimoni” gay, l’ideologia del “gender”, i giornali che rilanciano le pretese di vecchie e nuove lobbies, non è più possibile continuare così! Continuare cioè a indebolire se non a demolire la famiglia demonizzando l’uomo, il suo ruolo paterno e l’identità maschile in generale. Il libro di Risérappresenta unpotente invito a tornare al senso profondo della natura del maschio che salva, come accennato, anche dall’ideologia della “neutralità sessuale” (il “genere” che vorrebbe prendere il posto del sesso biologico).

Quando Charles Péguy (1873-1914) parlava del padre di famiglia come del vero eroe del mondo moderno, sentiamo allora dal più profondo del cuore che aveva, e che ha, del tutto ragione. Basta del resto guardarsi intorno per vedere gli attacchi, le difficoltà e i drammi che si trova a fronteggiare ogni famiglia.

Claudio Riséparla diun vero «“characterassassination”del genere maschile», e di «una vasta campagna di denigrazione tesa a distruggere credibilità e reputazione di un intero gruppo sociale». Come se ne può uscire?

 

Il ritorno alla natura

Innanzitutto con il ritorno alla natura. Il “maschio selvatico” è infatti l’uomo che conosce la natura profonda e incontaminata, è il tipo umano capace di “salvarsi” sia fisicamente sia spiritualmente, insegna Risé. Proprio la natura è «lo scenario simbolico dell’incontro tra maschile e femminile»: «l’amore profondo tra uomo e donna è un profondissimo evento naturale, non un prodotto culturale. Anche se la cultura lo racconta e lo arricchisce».

È affascinante seguire questo studioso di formazione e orientamento psicoanalitico junghiano nelle sue incursioni nei miti celtici, accompagnarlo mentre ripercorre l’iniziazione di Parsifal, ascoltarlo quando commenta le Elegie duinesi del poeta RainerRilke(1875-1926). E le sue argomentazioni sono suffragate dagli esempi attinti dalla sua esperienza di analista: un sogno può rivelare molto di più di ciò che percepiamo a livello di coscienza.

Di particolare interesse sono le sue pagine in cui mette a confronto due antropologi contemporanei tedeschi, le cui ricerche hanno valore anche per gli psicologi: Norbert Elias(1897-1990), «studioso della civiltà delle buone maniere», e Peter Hans Duerr(1929-2014), conoscitore della Wildnis,cioè «la condizione selvaggia». Risé, come facilmente si deduce dalle cose fin qui dette, propende per Duerr, dato che la civiltà delle buone maniere «produce solo un sistema di inibizioni altamente sofisticato, che allontana l’uomo dai suoi contenuti originari e dai suoi più profondi orientamenti morali». Non si tratta, certamente, di vagheggiare un ritorno alla foresta, ma di prendere coscienza che la riduzione della natura a mero spazio di piacere, come impone l’ideologia egemone, esprime un’immagine di uomo «regredito a un’imitazione dell’infanzia, incapace di partecipare alla realtà se non in termini di godimento protetto».

Invece, «nella natura selvaggia, e nella ricerca di essa dentro di sé, l’uomo cerca e trova la non eludibile contiguità tra vita e morte, tra gentilezza e ferocia, la conoscenza della realtà propria dell’istinto, cacciato lontano da ogni civiltà delle buone maniere».

Tutto questo, sostiene Risé, è molto lontano da qualsiasi romantico «smarrirsi nel primitivo». Duerr insiste molto sul ritorno, dopo un’arcaica esperienza di pienezza, alla dimensione abituale.

 

5 domande e risposte

“Il maschio selvatico 2” è un cult book che, ora che il “delitto”della svirilizzazione dell’uomo e della società è sotto gli occhi di tutti, pone nuove domande e offre nuoverisposte. Di seguito, in estrema sintesi, ne riportiamo cinque.

1. Perché rimpiangere il maschio selvatico? L’uomo ha cominciato a star male, fisicamente e psicologicamente, dice Risé, quando si è allontanato dalla natura, sposando uno stile di vita robotico. Il “selvatico” teorizzato dallo studioso è invece capace di un appassionato rapporto con l’ambienteincontaminato, «non per ragioni estetiche o di performance sportiva» ma perché vi trova «pienezza ebenessere fisico, spirituale e creativo». L’allontanamento dalla Wildnisintesa anche come luogo selvaggio,avrebbe minatoanche i rapporti fra i sessi: «Nelle antiche saghe, il selvatico vede la fanciulla in una radura, se ne innamora e la prende sul suo carro: questa immediatezza oggi è aborrita dentro relazioni costruite dalla A alla Z, intellettualizzate, mentre l’amore è la scoperta dell’altro dentro di te, è il bosco dove scopri la bambina a cui vuoi bene».

2. Perché parlare del maschile è diventato “politicamente scorretto”? Quando nel 1992 Risépensò il suo primo Maschio Selvatico, molti provarono a dissuaderlo. Ma qual è lo specifico maschile che disturba? La risposta fa riflettere: «I moderni sistemi economici e politici hanno spinto le donne nel mondo del lavoro per poterle sfruttare e pagare poco. Per indurle all’affermazione, era necessario costruire l’immagine di un uomo predatore e distruttivo, da demolire. In quest’ottica, il maschio selvatico imbarazza perché non è aggressivo e cade innamorato delle donne».

3. Perché il maschio contemporaneo è insicuro e debole? Oggi l’uomo è “il colpevole”, deve chiederescusa, è un mostro o un cretino, a prescindere. I ragazzi non scrivono più sui muri “Jessica ti amo”ma “Jessica ti chiedo perdono”. «La cultura della colpa» spiega Risé«è comoda anche per i maschi, i quali, chiedendo scusa, possono dirsi che è tutto a posto e accantonare la responsabilità di mettere a fuoco il loro progetto di vita e di relazione».

4. Le pratiche sessuali definiscono davvero l’identità di una persona? Mentre avanzano nuove teorie digenere e lo scientistaUmberto Veronesiha sostenuto che saremo tutti bisessuali, in molte scuoleitaliane si è eliminata dai moduli la dicitura “madre e padre” a favore di pseudo-identità come“genitore 1 e genitore 2”. «Si fa confusione tra identità e orientamento sessuale», accusa Risé, «il genere è fondativo dell’identità della persona, le pratiche sessuali sono una cosa diversa».Nell’azzerare le differenze, a partire dal linguaggio, stiamo ingabbiando le identità in schemiche escludono la ricchezza espressiva, affettiva e spirituale, dei maschi in particolare.

5. Potremo davvero fare a meno dei maschi? Qualcuna teorizza che presto la donna gestirà totalmente la maternità con la fecondazione artificiale e sarà la disfatta totaledel maschio, relegato a facchino, giardiniere, uomo di fatica. Ma siamo sicuri che il mondofunzionerà meglio? «Il maschile e il femminile sono aspetti presenti dentro di noi, non possiamo distruggerli senza creare un disastro nella psiche. E non è vero che i figli senza padre stanno benissimo, gli studi in proposito affrontano archi temporali brevi, sono organizzati su base volontaristica e non sono attendibili» assicura Risé.«Buona parte della propaganda sulla maternità senza padri è spinta dagli interessi delle società di ingegneria genetica e biotecnologica».

Infine, una postilla sulle donne. Oltre al “maschio selvatico” si sono perdute anche «Le donne selvatiche», titolo di un libro scritto dal prof. Risé con la moglie MoidiParegger,sempre per le EdizioniSan Paolo. «Le donne che seguo in analisi non sono gratificate, né rinfrancate dal sistematico assassinio del maschile» osservano. Insomma, gli studi di Risé ci confermano che l’identità maschile e quella femminile sono complementari. Rimangono e quindi non potranno che rimanere sempre l’una indispensabile e, diremmo, “indissolubile”, all’altra.

 

San Josemaría Escrivá de Balaguer

«Comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro»,è il titolo del primoMessaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Socialiche, il 4 marzo, Papa Francescoha pubblicato in occasione della XLVIIIedizione di questa iniziativa, istituitanel 1967 da Paolo VI per valorizzarel’impegno della Chiesa nei mass media. Fin dal 1964, fra gli altri, è stato il fondatore dell’Opus Deimons. Josemaría Escriváde Balaguer(1902-1975),a promuoveresempre maggiori attività in tale strategicocampo formando e sensibilizzando al proposito i membri dell’Opera e scegliendo quale intercessore per l’apostolato dell’opinione pubblica una santa della quale era molto devoto come Caterina da Siena (1347-1380).

In considerazione della pubblicazione sulla rivista ufficiale dell’Istituto Storico San Josemaría Escrivádi un saggio che ricostruisce le circostanze cheindussero il sacerdote spagnolo,canonizzato nel 2002da Giovanni Paolo II, a sceglierela figlia di Giacomo di Benincasa come modello e patrono dell’apostolato della comunicazione (cfr. Johannes Grohe, Santa Caterina da Siena,san Josemaría Escrivá e l’“apostolato dell’opinione pubblica”, in Studia et Documenta, n. 8-2014, pp. 126-145), sembra utile presentarne i principali passaggi, anche per rispondere all’invito di Papa Bergoglio che, nel citato Messaggio per le Comunicazioni Sociali, ha invitato gli operatori dei media «a farci sentire più prossimi gliuni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa» (Francesco, Comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro, Città del Vaticano,24 gennaio 2014).

Santa Caterina, elevata all’onore degli altari daPio II nel1461e designata patrona d’Italia da Pio XII (è anche dottore della Chiesa e co-patrona d’Europa), rappresentò per san Josemaría un modello di apostolaanzitutto perché, con l’infaticabilededizione alla carità ed il suo carisma nella trasmissione della Fede, indussemoltissime persone, rappresentanti di tutti i ceti della società del tempo, a convertirsi nel più profondo dell’anima. E’ nota la sua consuetudine di scriverelettere –in effetti dettate -, dirette non solo a laici e religiosi delle terre a lei vicine ma anche a vescovi,abati, cardinali e papi dell’epoca il cui stile, annota il prof. Grohe, appare del tutto sorprendente perché,«pur esprimendosi congrande forza e tenacia, Caterina riesce nel contempo a condurre il destinatario dellalettera, usando parole dolci e convincenti, a ciò che ella − che “scrive nelsangue di Cristo” e termina molte delle sue lettere con l’esclamazione “Gesùdolce, Gesù amore” − ritiene essere la volontà del Signore» (art. cit., p. 127).

Don Johannes Grohe

In particolare dal suo carteggiocon i pontefici emerge come la santa riesca ad unire all’amore filiale ed obbediente per il successore di Pietro − è caratteristica la sua espressione «il dolce Cristo in terra» - l’affermazione ferma e decisa delle istanze che credenecessarie nella Chiesa dell’epoca, dall’esigenza di una vita personale esemplare da parte di tutto il clero, all’urgenza di una riforma dei costumi nella Curia, per finire con la ricerca di rapporti di pace ed armonia nel governo degli Stati Pontifici edi un comune sforzoper liberare i cristiani ed i Luoghi Santi.

Il capolavoro di Caterina è il Dialogo della divina Provvidenza, operadettata ai discepoli sulle visioni della santa negli ultimi anni della sua vita, che mons. Escrivàlesse e meditò più volte. Anche per questo san Josemaría usavachiamare Catalinas(Caterine) i suoi Appuntipersonali, nei quali metteva per iscritto delle considerazioni che meditava poi nell’orazione. In una lettera indirizzata ai membri dell’OpusDeidel 1932, egli così descriveva una regola fondamentale per santificare la comunicazione pubblica: «I santi sono sempre delle persone scomode, uomini o donne – la mia santa Caterina da Siena! −, perché con il loro esempio e laloro parola sono un continuo motivo di disagio per le coscienze che sonoimmerse nel peccato».

San Josemaría ammirava la franchezza con cui Caterina difendeva laverità, per sua indole e perché considerava questa sincerità una virtù fondamentale:«Sono sicuro − scriveva in un’altra lettera diretta nel 1957 ai suoi figli spirituali − che ci saranno alcuniche non mi perdoneranno facilmente il mio parlar chiaro, ma devo farloin coscienza e davanti a Dio, per amore verso la Chiesa, per lealtà verso la Chiesa Santa e per l’affetto che ho per voi. Nutro una particolare devozioneper Santa Caterina − quella ‘grande brontolona’! − che diceva grandi veritàper amore di Gesù Cristo, della Chiesa di Dio e del Romano Pontefice».

In uno scritto del 1964, il fondatore dell’Opus Dei torna a trattare il tema della verità che bisogna affermare senza timore, soprattutto quando c’è in ballo il retto discernimento della coscienza: «le controversie, gli errori, gli eccessi o gli atteggiamenti esaltati sono sempreesistiti in tutte le epoche: e la voce che ha superato queste barriere è semprestata la voce della verità unta dalla carità. La voce dei sapienti, la voce del Magistero; la voce, figli miei, dei santi, che hanno saputo parlare in tutti i modi per chiarire, per esortare, per richiamare ad un autentico rinnovamento».

L’invito di san Josemaría agli “apostoli dell’opinione pubblica”, quindi, è quello ad innamorarsi come lui della fortezza di Santa Caterina che, con i mezzi di comunicazione del tempo, ha sempre detto la verità anche allepiù alte personalità con ardente amore e chiarezza senza preoccuparsi delle ricadute temporali che potevano conseguirne per lei o la sua famiglia spirituale.

Nel corso di una conversazione familiare con alcuni membri dell’Opus Dei avvenuta nel 1964, nel giorno della ricorrenza liturgica di santa Caterina, mons. Escrivà appunto notava: «Desideroche si celebri la festa di questa santa nella vita spirituale di ciascuno di noi enella vita delle nostre case o centri. Ho sempre avuto una grande devozioneper santa Caterina: per il suo amore alla Chiesa e al papa e per il coraggiodimostrato nel parlare con chiarezza quando era necessario, mossa precisamenteda quello stesso amore […]. Prima era considerato eroico tacere, e così fecero i vostri fratelli. Ma adesso è eroico parlare, per evitare che sioffenda Dio Nostro Signore. Parlare, cercando di non ferire, con carità, maanche con chiarezza».

Il 13 maggio 1964 san Josemaría decise di mettere in pratica i concetti che, da ultimo, aveva espresso nel corso di quest’ultima tertuliae, senza troppe formalità, decretò che l’apostolato che i membri dell’Opus Dei svolgono in tutto il mondo al fine d’informare rettamente l’opinione pubblica, sia raccomandato alla speciale intercessione di questa santa, «considerando conquanta chiarezza di parola e con quanta rettitudine di cuore rivelò con coraggio e senza eccezione alcuna per nessuno le vie dellaverità agli uomini del suo tempo».

Particolare dell'Estasi_di_s._Caterina_da_Siena (1743), Pompeo Batoni, Museo Nazionale Lucca

 

L’Istituto Storico San Josemaría Escrivá

La vita di san JosemaríaEscrivà e lo sviluppo dell’Opus Dei, che è una prelatura personale, in pratica una “diocesi senza territorio” istituita per attuare peculiari opere pastorali della Chiesa, stanno suscitando, negli ultimi decenni, l’interesse di sempre più storici, sociologi, giuristi e persone comuni, affascinate dalla storia e dallo spirito dell’Opera.

L’Istituto San Josemaría Escrivá (ISJE), creato il 9 gennaio 2001 daMons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, ha come finalità la promozione degli studi storici sul santo spagnolo e l’Opera da lui fondata in Spagna il 2 ottobre 1928, nonché l’elaborazione di pubblicazioni scientifiche, di carattere teologico, canonistico e pedagogico, sugli aspetti concernenti lo spirito, gli insegnamenti e le attività di apostolato promosse da mons. Escrivà.L’ISJE cura la pubblicazione delle opere complete del fondatore dell’Opus Dei, offrendoa studentie ricercatori la più vasta informazione documentaria e bibliografica su san Josemaría, nonché sulle attività, passate e presenti, della Prelatura dell’Opera.

Per promuovere la ricerca su questi temi, l’Istituto ha avviato nel 2007 la pubblicazione di una rivista specializzata, Studia et Documenta che, con cadenza annuale, accoglie studi storici e di attualità sui principali aspetti ed eventi culturali e scientifici riguardanti san Josemaría o l’Opus Dei.

L’ISJE ha la sua sede a Roma, nell’edificio della biblioteca della Pontificia Università della Santa Croce (via dei Farnesi, 83), e si avvale della collaborazione del Centro di Documentazione e Studi Josemaría Escrivá (CEDEJ), sezione dell’Istituto presso l’Università di Navarra.Edita anche il sito www.isje.org/, costantemente aggiornato in lingua spagnola, portoghese ed italiana, che ne presenta le principali attività e pubblicazioni.

Omar Ebrahime

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