La scrittrice e poetessa Francesca Farina il prossimo venerdì 6 novembre 2015 alle ore 17.30 presenterà il suo ultimo, straordinario libro “Casa di morti” (2015,GPS Editore-Roma) presso lo spazio “Aleph” sito in Vicolo del Bologna 72 (Roma Trastevere) di Giulia Perroni, che leggerà alcuni significativi passi, e Luigi Celi.
La lettura critica del romanzo sarà a cura di Plinio Perilli, Claudia Pagan e Roberto Piperno.
L’autrice di questa avvincente opera mito-biografica ha saputo raccogliere, con aulica capacità, i policromi aspetti della sua meravigliosa Sardegna, una Terra intrisa di storia, suggestioni, incanto e miti.
Le arti letterarie rappresentano per lei da sempre la maggiore passione, che ha iniziato a coltivare dall’età di tredici anni, quando cominciò a redigere i suoi diari, che ad oggi ammontano a circa cento quaderni.
Francesca Farina, attualmente docente presso le scuole superiori, ha compiuto gli studi classici a Siena e quelli universitari a Roma, dove ha conseguito la laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea, per poi perfezionarsi in Letteratura Italiana.
Nel 1986 ha iniziato la sua collaborazione in qualità di critico letterario presso la rivista accademica “Esperienze Letterarie”, diretta dal prof. Marco Santoro, continuando parallelamente la scrittura poetica e in prosa.
Nel 1998 ha pubblicato il libro”Framas”ottenendo lusinghieri consensi di pubblico e critica.
In questi anni ha ricevuto numerosi premi letterari e prestigiosi riconoscimenti e dal 2002 ogni anno, nel corso del mese di giugno, presso l’isola Tiberina di Roma organizza il “Leopardi’s day”, una giornata di letture poetiche in omaggio a Giacomo Leopardi, che vede la partecipazione di moltissimi poeti italiani e fra il mese di giugno e luglio “l’Isola dei Poeti”, sempre nella medesima, suggestiva location romana, avvalendosi in entrambe le manifestazioni della preziosa collaborazione dello scrittore e poeta Roberto Piperno.
Sempre fattivamente presente nelle varie iniziative poetiche e manifestazioni di carattere letterario e culturale, organizza fra l’altro, con cadenza mensile, le “Maratone di Poesia”, affrontando sempre tematiche diverse e di particolare impatto sociale, spesso ispirate ai fatti più salienti della Storia contemporanea.
In questi ultimi anni ha pubblicato tre plaquettes di poesie: “Fleurs”, “Sonetti estremi” e “Lai”.
Attualmente ha in preparazione tre nuove raccolte poetiche ed un nuovo romanzo.
Il suo blog poetico-culturale è: www.poeticontemporanei.blogspot.com
Ha iniziato a scrivere poesie durante l’adolescenza. Il suo voler fissare i momenti più significativi della vita vuol essere un modo per contrastare il veloce ed inesorabile scorrere del tempo?
In realtà ho iniziato a scrivere poesie fin da bambina, quasi si trattasse di un atavismo; pertanto, sono certa che la scrittura sia un dono del sangue, ossia qualcosa che non si apprende soltanto, ma che si ha in sé, nei propri geni, nei propri cromosomi. Per quanto mi riguarda, non è stato altro che riscoprirla e metterla in atto, per dare corpo a un assoluto che premeva per esprimersi, non tanto per superare la precarietà estrema della vita, quindi del tempo, quanto per affermare la mia propria essenza.
Lei ha trascorso la sua infanzia in Sardegna, dove è nata, una Terra avvolta di fascino e mistero. Nei suoi diari giovanili, oltre ad esprimere le inquietudini e i turbamenti adolescenziali, fa riferimento al suo paese natale?
La mia Terra ha costituito un mistero per molti anni anche per me, che la vivevo dal di dentro, come per molti che la vivevano e la vivono dal di fuori. Dove mi trovavo, chi ero, che cosa volevo? Questi sono stati per diverso tempo i miei “interrogativi categorici” e tutta la bellezza, tutto l’enigma, tutto il dramma della Sardegna li ho introiettati nella mia stessa natura. Quindi, nei diari, che ho iniziato a redigere a dodici anni e che non ho mai smesso di scrivere, tanto che oggi ammontano a un centinaio di quaderni, ho cercato di raccontare sia tutto di me, sia la mia gente, il mio mondo, come a voler testimoniare l’universo nel quale ero immersa e che mi coinvolgeva e sconvolgeva al tempo stesso. Vorrei aggiungere che alcuni di essi nel 1998 sono risultati finalisti al “Premio Pieve Santo Stefano”, indetto dall’Archivio Diaristico Nazionale.
Il suo splendido ed interessantissimo libro “Casa di morti” è ricco di suggestive immagini ancestrali, quasi incantate, con icastiche descrizioni che accompagnano il lettore in un viaggio nel tempo e tracciano la via dell’infinito, fra miti e tradizioni di una cultura singolare, come quella sarda. Quanto tempo ha impiegato per raccogliere tutte queste notizie?
Il mio romanzo posso dire di averlo sempre scritto, incessantemente, di averlo portato sempre in me, appropriandomi di ogni aspetto della mia realtà fisica e sentimentale, di ogni traccia della vita dei miei avi, come di me stessa, dei miei più lontani antenati, come dei miei più vicini familiari. A un certo momento, non ho fatto altro che mettere sulla carta ciò che avevo nella memoria, nel cuore, nelle parole. Per cinque anni ho scritto centinaia di pagine, meditando ogni frase, ogni espressione, ogni immagine, per rendere tutto nella sua più alta verità, lavorando sui contenuti come sulla lingua, rifuggendo dal banale delle cose, come delle parole e cercando, infine, di restituire alla letteratura quanto le spettava e che sentivo mancare alle opere dei contemporanei, che via via leggevo e che non mi soddisfacevano.
Nello scorrere della lettura, ho trovato l’avvincente ricordo del suo bisnonno, soprannominato il piccolo Caporale, sui campi di battaglia in Crimea, come tanti giovanissimi soldati italiani, costretti alla guerra. Intensa la descrizione dell’estenuante resistenza degli Alleati, durata trecento giorni; una minuziosa, puntuale rappresentazione del tragico teatro di guerra, fino all’estrema e stoica resistenza di Sebastopoli. Fra le righe si percepisce l’umana caducità e l’inutilità di ogni conflitto. Quali sono i messaggi che il suo antenato ha lasciato in eredità ai nipoti, quindi ai posteri, attraverso i suoi racconti?
Mio padre, il cui pudore, la cui altissima moralità lo facevano rifuggire da ogni sfacciata espressione di sentimentalismo, rarissime volte si abbandonava a ricordi o emozioni e tra quelle rarissime volte c’erano i momenti in cui rievocava il nonno Caporale, in realtà padre della prima moglie di suo padre, quindi, una specie di nonno acquisito, come racconto nel romanzo. Ebbene, la frase ricorrente di mio padre attraverso i decenni, che prima e di sovente fu pronunciata da quel lontano antenato, era: “Vi parrà la Crimea!”, come a dire, che sarebbe venuta anche ai suoi discendenti una stagione crudele, come quella che aveva sperimentato lui stesso in quella terribile guerra di morti, fame e malattie. Per lui si trattava quasi di un rito apotropaico, significava che occorreva non ripetere mai il tremendo destino che lo aveva costretto a combattere, poiché era stata un’epoca di tali atrocità, che avrebbe preferito non nominare neppure.
Inoltre, mi ha colpito particolarmente l’attenzione che il popolo sardo, per propria cultura, riservava alla ricorrenza dei defunti; i grandiosi banchetti, in occasione dei quali si consumavano cibi semplici, fatti in casa, come i dolcetti tipici, farciti di uva passa. Poi, le antichissime nenie, cantate in loro onore, quasi a voler mantenere viva la presenza degli estinti fra i vivi, un qualcosa che va ben oltre il ricordo. Questa tradizione viene ancora rispettata dalle nuove generazioni?
La “cena dei morti”, che si celebrava immancabilmente ogni due novembre a casa mia, quando ero bambina, in Sardegna, con tutta la solennità dolente del caso, ha costituito forse uno dei misteri più grandi della mia esistenza. In un silenzio grave, rotto soltanto dalla voce delle zie, che recitavano una lunga preghiera in sardo, si invocava la pace per i poveri parenti defunti, allestendo per essi un semplice banchetto con i cibi tradizionali e invitandoli a cibarsene, per perdonare i vivi dell’essere vivi…La loro morte infatti causava un immenso senso di colpa a chi restava, ancora sentito in me, per tutti coloro che sono trapassati.
Un breve sondaggio su Facebook mi ha confermato che in quasi tutta la Sardegna ancora oggi si celebrano questi millenari riti, che certamente risalgono ai Greci e ai Latini, se non agli antichi Shardana, antenati dei Sardi, che vivevano nel Vicino Oriente Antico e hanno popolato la mia isola in tempi lontanissimi.
Vorrebbe parlarmi della seconda parte della sua opera letteraria?
Dopo la prima parte, in cui narro proprio le storie mitizzate di questi avi ancestrali, come dei miei antenati più prossimi, nella seconda parte del mio romanzo, quasi in una galleria di famiglia, faccio sfilare alcuni dei parenti con i quali ho vissuto parte della mia esistenza e che, attraverso il loro incessante insegnamento, hanno formato il mio carattere: i miei genitori, spesso assenti, ma sempre aleggianti come anime in pena accanto a me; le mie zie paterne, gli zii, colonne della famiglia, che hanno dedicato l’intera vita ai nipoti, privandosi di una loro esistenza; i fratelli, con l’assurda scomparsa di uno di essi a soli trentatrè anni…Tutti hanno contribuito, con il loro sacrificio, a dare forma alla mia anima e corpo alle mie parole.
Questo libro ha una lunga storia, che mi farebbe piacere far conoscere ai nostri lettori. Cosa le è accaduto?
Come accennavo qui sopra, dopo circa cinque anni di incessante lavoro, durante una vacanza estiva, purtroppo, ho perduto il manoscritto, che si componeva di circa cinquecento fogli dattiloscritti in un’unica copia, (non esisteva ancora la pratica dello scrivere al computer!), con infinite annotazioni di mia mano. La pena per tale perdita ha rasentato quasi la rinuncia a scrivere il mio romanzo, ma, dopo qualche tempo, facendo appello alla mia ferrea memoria, ho riscritto quanto avevo profondamente incamerato, operando uno sforzo gigantesco per ricostruire ogni capitolo e ogni pagina, così come la ricordavo. Spero di esserci riuscita.
Nella sua esperienza di docente quali sono le maggiori difficoltà che incontra nell’infondere fra i discenti un certo interesse verso le arti letterarie?
Da docente, che ama profondamente il proprio lavoro e soprattutto il continuo scambio con i propri studenti, la cui meravigliosa forza vitale alimenta tutta la mia passione quotidiana dell’insegnare, constato sovente, purtroppo, quanto sia arduo per i giovani acquisire contenuti non superficiali, impossessarsi della profondità della lingua italiana dei secoli passati, come anche di quella dei nostri scrittori contemporanei, (lo stesso Calvino, o Pasolini, o Morante o Ortese rappresentano un banco di prova difficilissimo per gli alunni del quinto anno, che pure sono quasi maturi). Tuttavia, non mi scoraggio dal proporre loro incessantemente di andare oltre la banalità delle cose, di appassionarsi a quanto di bello e di grande ci hanno lasciato i nostri antenati, e di cercare, per quanto possibile, di imitarli, citando spesso il noto detto: noi non siamo altro che nani sulle spalle di giganti: non saremo mai come loro, ma essi ci permettono di guardare lontano…
Conversando con lei, percepisco con piacere il suo inesauribile desiderio di scrivere; in altre parole, si tratta di una forte necessità di esprimere il suo “sentire”?
Assolutamente sì: “Nulla die sine linea”, cioè “Neppure un giorno senza scrivere una riga” dicevano gli antichi; ma io, che ho sentito per anni la bellezza della scrittura, a volte ne sento tutto il peso, il dolore anzi, quasi si tratti di una malattia cronica, che mi affligge da sempre e dalla quale non credo riuscirò mai a guarire…
Mi ha riferito che ha già iniziato la stesura di un nuovo libro; qualche anticipazione?
Sì, il mio “Antenato barbarico”, un Aldobrandinus, che venne in Sardegna a dare origine alla mia stirpe, dalla terra dei Germani all’epoca dei Longobardi, forse; mi accompagna da molti anni e adesso vorrei davvero cominciare a rispondere alla sua supplica di raccontarlo, di farlo uscire dal mondo dei morti atroci e solenni, che giacciono immemori nelle desolate plaghe della dimenticanza…