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La disfatta dell’Armenia cambia gli equilibri

Dopo un mese di guerra sul destino dell’enclave del Nagorno Karabakh abbiamo un vincitore militare, l'Azerbaigian, e due vincitori politici, la Russia e la Turchia.

La guerra scoppiata il 27 settembre nel Caucaso per il controllo della zona contesa tra azeri e armeni - costata la vita a oltre 5mila persone - si è conclusa con una «dolorosa decisione» come la ha definita il premier armeno Nikol Pashinian. Pashinian ha accettato il piano d'intesa con il presidente dell'Azerbaigian, Ilham Aliyev e il presidente russo Vladimir Putin. La dichiarazione sancisce il cessate-il-fuoco totale e la fine delle ostilità nell'area. Tutto ora sarà da monitorare.

La guerra è stata scatenata dall’Azerbaigian per mettere fine al “conflitto congelato” sul Nagorno Karabakh, territorio situato all'interno del paese ma popolato da armeni. Da trent'anni la situazione era ormai bloccata, in seguitoa una guerra vinta dall’Armenia. Ma oggi il rapporto di forze è cambiato: l’Azerbaigian, forte delle ricchezze derivate dagli idrocarburi e di una popolazione tre volte più numerosa di quella armena, ha modernizzato il suo esercito e si è imposto sul campo. Le armi moderne in possesso degli azeri sono state fornite dalla Turchia, ma anche da Israele. E hanno fatto la differenza.

Dietro la vittoria azera non c’è solo la superiorità militare garantita dalla discesa in campo dell’alleato turco, ma anche l'utopia di un premier come Pashinyan convinto di poter contare sul sostegno di Ue e Stati Uniti. Un'illusione che in poco più di un mese ha cancellato un sogno indipendentista lungo 26 anni  

E una pace che a Erevan è una sconfitta anche se Nikol Pashinyan, il primo ministro armeno, cerca di fare buon viso a cattivo gioco: «Questa non è una vittoria - ha ammesso mentre i primi dimostranti si raccoglievano davanti alla sua residenza, nella capitale armena -, ma non esiste sconfitta finché non ti consideri sconfitto. E noi non ci sentiremo sconfitti, questo sarà l'inizio di una nuova era di unità e rinascita nazionale». Pashinyan, in evidente difficoltà nello sforzo di spiegare ai suoi lo sviluppo degli avvenimenti, ha aggiunto di aver firmato in seguito alle insistenze dell’esercito, dopo aver analizzato attentamente la situazione militare: «È stata una decisione estremamente difficile», ha detto Pashinyan.

Le forze azere erano ormai alle porte di Stepanakert, il capoluogo del Nagorno-Karabakh, quando il leader dell’enclave armena, Arayik Harutunyan, ha dato il proprio assenso alla tregua voluta da Mosca per mettere fine alla guerra,«il prima possibile». E ora saranno 2.000 militari-peacekeepers russi - già partiti - a garantire per cinque anni almeno la stabilizzazione lungo la frontiera tra la regione separatista e l’Azerbaijan - Stato di cui teoricamente fa parte - e lungo il corridoio che collega il Karabakh all’Armenia

Peggio di così non poteva andare. In poco più di un mese l'Armenia del premier Nikol Pashinyan ha perso la guerra non dichiarata contro l'asse turco-azero, ha dovuto rinunciare dopo 26 anni al sogno del Nagorno-Karabakh e ha firmato una resa infamante che sancirà, a breve, la fine dello stesso premier e del suo governo.

La cosiddetta “rivoluzione” adottata da Pashinyan e dei suoi dopo il 2018 puntava ad introdurre un modello neoliberale sul fronte interno e d’abbandonare l’ombrello protettivo garantito da Mosca per affidarsi, invece, ad una politica di avvicinamento all'Unione Europea e Stati Uniti. Alla resa dei conti la svolta si è rivelata, fallimentare. Nel momento del bisogno l'Unione Europea ha esibito una lontananza e un disinteresse senza precedenti. Attendersi forme di aiuto militare da parte della Ue era ovviamente mera utopia, ma di certo nessuno a Erevan si attendeva una simile latitanza sul fronte politico e diplomatico.

Invece nonostante il palese squilibrio determinato dalla discesa in campo di Ankara l'Unione si è ben guardata dall’esercitare qualsiasi azione negoziale. E le sue nazioni guida sono state tra le prime a non stimolare la congenita inerzia dei Ventisette.

La Germania si è ancora una volta ben guardata dal disturbare Ankara. Emmanuel Macron minacciato contemporaneamente dal terrorismo interno, dalla pressione dell’Islam separatista e dal contagio pandemico si è ben guardato dal trasformare la questione armena in un altro terreno di scontro aperto con la Turchia di Erdogan. E dall'altra parte dell'Atlantico non sono certo arrivati sostegni maggiormente degni di nota. Paralizzati dall'effetto Presidenziali gli Stati Uniti non sono riusciti ad offrire a Pashinyan nulla di più di una mediazione di facciata la cui durata non ha superato quella del cessate il fuoco concordato a Washington e naufragato dopo poche ore

In pratica sin dai primi giorni di guerra qualsiasi villaggio, qualsiasi città, qualsiasi quartier generale armeno si è ritrovato alla mercé del nemico. E a rendere più drammatica la situazione di palese inferiorità militare ha contribuito l'isolamento internazionale.  

La vicenda ha suscitato la collera della popolazione armena, che si sente tradita e considera vane le migliaia di vittime del conflitto. Ma queste reazioni emotive ignorano il fatto che l'alternativa era portare avanti una guerra impossibile.

Il vincitore militare, dunque, è l’Azerbaigian. Ma come detto esistono anche due vincitori politici. Il primo è il “padrino” di Baku, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, molto criticato per questa nuova avventura fuori dei confini del paese ma premiato da un successo rapido.

Erdoğan si è assunto il rischio di operare in una zona d'influenza russa, rompendo lo status quo. Pur inviando armi, consulenti e perfino mercenari al fianco dell'esercito azero, il presidente turco ha evitato uno scontro diretto con la Russia. La conclusione della guerra trasforma la Turchia in una potenza dal ruolo cruciale nel Caucaso del sud.

La Russia è entrata in azione solo dopo che l’Azerbaigian ha raccolto i frutti della sua offensiva, come se a un certo punto avesse deciso di dimostrare che Mosca è ancora padrona della regione.

Alla fine il Cremlino ha rafforzato la sua presa, perché l'accordo di pace prevede la presenza di truppe russe per garantire l'apertura di un corridoio tra l'Armenia e il Nagorno Karabakh privato delle zone circostanti. L’Armenia, dopo aver sperato a lungo che Mosca corresse in suo soccorso, oggi si ritrova più dipendente che mai dalla Russia.

Sin dal fallimento del primo cessate il fuoco concordato a Mosca il 10 ottobre scorso - era evidente l'aspirazione di Ankara a giocare un ruolo non solo militare, ma anche negoziale. Il tutto per arrivare ad una soluzione decisa, come nel modello siriano dalla contemporanea presenza sul terreno di truppe turche e truppe russe. In questo contesto invece d’invocare una più ampia dimensione negoziale capace di coinvolgere la recalcitrante Europa o l’assonnata America Pashinyan si è lasciato trascinare nell’abisso di un confronto assolutamente svantaggioso e privo di prospettive sia sul piano militare che negoziale.

 

 

 

 

  

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