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Vi ricordate «1984», il romanzo di fantascienza così sembrava, una volta di George Orwell? Andatevelo a rileggere. Perché il «Grande Fratello» immaginato nel 1948 da Orwell, lungi dall'essere diventato un ferrovecchio, un'anticaglia, un residuato bellico, è più attuale che mai.

Si è solo messo al passo coi tempi, perché ora non si contenta più di spiarci nel modo classico, con telecamere e microfoni piazzati dove uno più o meno se l'immagina. È sempre lui, il Grande Fratello. Solo che ora dovremo abituarci a chiamarlo «The Sweeping Angel», l'Angelo Piangente, come l'hanno ribattezzato i suoi inventori, alla Cia, settore «Embedded devices branch», che è come dire l'Officina degli aggeggi incorporati.

Funziona così. Poniamo che ieri sera abbiate visto in Tv la partita Napoli-Real. Bene. Una volta spento il televisore avrete naturalmente una di quelle smart-Tv collegate al web della multinazionale sudcoreana? Se avete quello è perfetto. Una volta spento, dicevamo, si attiva un microfono segreto che capta le vostre conversazioni e registra tutto quel che si dice in casa vostra, violando anche i più nascosti recessi della vostra intimità domestica. Siete a Partinico o a Camerino? Non importa. A Langley, Virginia, se vogliono sanno anche come si chiama vostra suocera e che numero di scarpe portate.

Abbiamo imparato a riconoscere giocattoli, arnesi, soprammobili e ogni altro articolo nel corso dell’esperienza visiva e tattile di quando eravamo piccini. In questi anni anche la Rete ha cominciato a identificare gli oggetti, a distinguere la loro natura, a individuarne le funzionalità, a localizzare la loro posizione, ad attribuirne l’appartenenza a qualcuno. In poche parole, il cosmo della comunicazione digitale è diventato l’Internet delle cose. Ogni strumento elettronico è oggi identificabile e...si puo essere spiato

Cosi Wikileaks ha diffuso migliaia di documenti riservati della Cia su un programma di hackeraggio, attraverso un 'arsenale' di malware e di cyber-armi. Con tali strumenti la Cia sarebbe in grado di controllare i telefoni di aziende americane ed europee, come l'iPhone della Apple, gli Android di Google e Microsoft, e persino i televisori Samsung, utilizzandoli come microfoni segreti.

L'organizzazione di Assange ha inoltre annunciato la pubblicazione di migliaia di documenti provenienti dal «Center for Cyber Intelligence» della Cia. Perché di bello c'è questo: che alla Cia saranno anche straordinari a farne una e a pensarne cento; ma c'è sempre qualche fesso, al suo interno, che alla fine lascia un cancello aperto da cui, stavolta, sarebbero defluiti centinaia di milioni di codici, consegnando nelle mani di chi li ha intercettati - passandone una parte agli «amici» di Julian Assange - l'intera capacità di hackeraggio della Cia. 

Un arsenale oltre 8.700 files, si dice da cui emerge che anche il consolato americano a Francoforte è usato come base sotto copertura dagli hacker della Cia, che dal cuore della Germania avrebbero coperto l'Europa, il Medio Oriente e l'Africa. Uno smacco per la Cia, si direbbe, destinato a far impallidire le rivelazioni di Chelsea Manning e di Edward Snowden, se è vero che l'Agenzia di Langley, Virginia, ha perso il controllo del suo cyber-arsenale. Naturalmente, giurano quelli di Wikileaks, non è loro intenzione rendere di pubblico dominio le cyber armi della Cia, col rischio di vederle finire nelle mani di mafie, Stati canaglia o anche solo teenager svelti di mouse. L'obiettivo essendo piuttosto quello di innescare un dibattito pubblico sulla «sicurezza, la creazione, l'uso, la proliferazione e il controllo democratico delle cyber-armi».

«Non commentiamo l'autenticità e il contenuto» dei documenti di Wikileaks, afferma un portavoce della Cia.  Uno dei programmi di hackeraggio della Cia descritti da Wikileaks è 'Umbrage', una raccolta copiosa di tecniche di cyberattacco che la Cia ha raccolto dai virus prodotti da altri paesi, inclusa la Russia. Secondo Wikileaks, le tecniche consentono alla Cia di mascherare l'origine dei cyberattacchi e confondere gli investigatori. 

Di recente - spiega Wikileaks - la Cia ha perso il controllo di gran parte del suo cyber-arsenale, compresi malware e virus di ogni genere. «Questa straordinaria collezione - spiega l'organizzazione di Assange - che conta diverse centinaia di milioni di codici, consegna ai suoi possessori l'intera capacità di hackeraggio della Cia». «L'archivio - si spiega ancora - è circolato senza autorizzazione tra ex hacker e contractor del governo Usa, uno dei quali ha fornito a Wikileaks una parte di questa documentazione».

Wikileaks parla apertamente di rischio di una proliferazione incontrollata di malware e virus che possono finire in mano a stati rivali, cyber mafie e hacker di ogni tipo. Per Julian Assange questa proliferazione delle cyber-armi può essere paragonata in termini di pericoli a quella del commercio globale delle armi tradizionali. «Una volta che una singola cyber-arma viene persa - spiega Wikileaks - può diffondersi in tutto il mondo in pochi secondi».

La divisione segreta degli hacker della Cia ha condotto «illegalmente» attacchi che hanno messo a rischio molti top manager dell'industria, membri del Congresso, il governo americano e persino l'account Twitter di Donald Trump, afferma Wikileaks. Dai documenti diffusi da Wikileaks, secondo i quali gli hacker della Cia coprivano da Francoforte l'Europa, il Medio Oriente e l'Africa, emerge che il consolato americano a Francoforte è usato come base sotto copertura dagli hacker della Cia. 

E' una storia che prima o poi bisognava scrivere, mi riferisco al processo di decostruzione della famiglia nel nostro Paese, l'hanno scritta Marco Invernizzi e Giancarlo Cerrelli entrambi esponenti di Alleanza Cattolica, il testo pubblicato recentemente da “SugarcoEdizioni, prende il titolo: “La Famiglia in Italia, dal Divorzio al Gender”.

Forse non è solo la storia della famiglia, ma anche di Alleanza Cattolica,  associazione di laici impegnati da oltre quarant'anni per diffondere la Dottrina Sociale della Chiesa e quindi impegnata per rendere testimonianza della bellezza, e della grande importanza sociale dell'istituto familiare. Sperando di non apparire presuntuoso, ma è anche la mia storia, avendo partecipato sempre alle attività di Alleanza Cattolica. A cominciare dalla mia adolescenza, nel lontano 1973, sono stato protagonista insieme ad altri amici con l'esperienza del giornalino parrocchiale,“Il Campanile”, qui ho pubblicato diversi articoli in difesa della famiglia e per la battaglia culturale di civiltà nel referendum contro il divorzio.

Invernizzi e Cerrelli si sono divisi i compiti: nella 1 parte, “Contro la famiglia (1970-2016), Invernizzi esamina il processo politico e culturale che ha progressivamente eroso la centralità della famiglia in Italia fino all'esplicita avversità e al considerarla come una delle possibili espressioni affettive, da famiglia a famiglie. Nella 2 parte“Il diritto come strumento per ridefinire la famiglia”, Cerrelli, affronta il percorso legislativo e giuridico con il quale la cellula fondamentale della società è diventata una semplice somma di individui.

L'avversione alla famiglia tocca il piano culturale, ma anche quello politico e giuridico.“Questo libro racconta la storia di un'aggressione culturale, politica e giuridica alla famiglia, cominciando dal Sessantotto e in particolare dall'introduzione della legge sul divorzio, per arrivare al Gender e alle unioni civili, grazie alle quali si permette di definire famiglia ciò che famiglia non può essere”.

Nella prefazione Massimo Gandolfini, promotore del Family Day del 2016 e presidente del“Comitato Difendiamo i nostri figli”, ha trovato il libro completo, non banale e neanche superficiale.“E' uno studio documentato e ponderato che, pur gettando uno sguardo completo e approfondito sul tema, ha il pregio di lasciare spazio al cuore e alla mente del lettore, proponendogli una sorta di confronto continuo fra la cultura esterna, mondana, pubblicistica e la propria personale 'visione della vita'”.

Il libro di Invernizzi e Cerrelli, descrive,“uno spazio temporale che ci ha visto tutti, in modi certamente diversificati, ma tutti protagonisti”. Per Gandolfini, c'è un “filo rosso” che collega i vari fatti dal 1970 ai nostri giorni, contrassegnati da scelte culturali, politiche e sociali, che il Santo Padre Francesco, ha definito “una guerra mondiale contro la famiglia”.

Il conflitto che mira a distruggere la famiglia per Gandolfini fa parte di una strategia universale globale per combattere“il sentimento religioso dell'uomo” e quindi il cristianesimo. Certe forze politiche libertarie non possono tollerare l'esistenza della famiglia “chiesa domestica”, specchio di ben altra “famiglia”, quella di Nazareth. Per questo la famiglia,“va combattuta, annichilita, destrutturata, banalizzata...Famiglie e non più famiglia, progetti polimorfi di aggregazioni affettive e non più società naturale, fluide convivenze frutto di convenienze momentanee e non più progetti esistenziali stabili, luoghi di relazioni sessuali e non più 'santuari della vita', accettata e trasmessa”.

A qualcuno potranno sembrare esagerazioni, delle farneticazioni millenaristiche, ma non è così, il libro, ben documentato, fornisce,“tutti i mattoni necessari per giungere alla costruzione del nostro personale convincimento”, che ci stiamo avviando come scrive la sociologa e saggista tedesca, Gabriele Kuby a “un attacco mondiale all'ordine della creazione e, per questo, all'intera umanità”. Scrive Kuby, “l'obiettivo è distruggere il fondamento della famiglia, per ridurre la crescita della popolazione su questa pianeta. Inoltre, sono in pochi a essere coscienti che dietro si cela una strategia delle élite di potere, dall'ONU all'Unione Europea, all'alta finanza”.

Ritornando al lavoro alla 1 parte del libro, Invernizzi inizia con una precisazione importante:“la famiglia non nasce con il cristianesimo. Il matrimonio, che fonda la famiglia, viene benedetto dalla Chiesa attraverso il sacerdozio, ma il matrimonio è un istituto naturale e la sua indissolubilità non è tale per volontà della Chiesa, ma in sè”. La Chiesa in pratica riconosce il fatto pubblico del matrimonio. L'argomento è importantissimo, perchè le forze culturali e politiche libertarie cercano ogni volta di far passare il matrimonio indissolubile come qualcosa di religioso, di fede, legato alla Chiesa. E' stato così per il referendum del divorzio, per l'aborto e ora per l'eutanasia. Altra ulteriore precisazione di Invernizzi è che i primi ad intuire il “nuovo che avanza”, cioè quello spirito sovversivo, in tema di famiglia, che avrebbe messo in crisi il rapporto figli-genitori e poi quello tra gli stessi coniugi e che poi sarebbe esploso nella Rivoluzione “culturale” del 1968, furono alcuni pedagogisti.

Invernizzi li ricorda doverosamente per questione di giustizia, e perché sono meritevoli di essere studiati. Sono Augusto Baroni, il filosofo neotomista Mario Casotti e il filosofo personalista Luigi Stefanini. Bene, posso aggiungere che sono completamente sconosciuti nel mio mondo scolastico e quindi anche negli studi universitari, almeno i miei. Non potevano emergere nell'Italia del dopoguerra egemonizzata  dal Pci di Palmiro Togliatti. Erano ben altri gli studiosi e intellettuali a cui faceva riferimento la scuola e la società italiana. Intellettuali che odiano la realtà. “Il rifiuto del reale”, sarà il bigliettino da visita dei vari pedagogisti, filosofi, psicologi e intellettuali, accecati dall'ideologia dell'odio di classe, della “nuova sinistra”, che “privilegerà la lotta all'interno della famiglia, fra genitori e figli, o dentro la scuola e le università, combattendo l'autoritarismo dei professori e del sistema educativo in generale”. Successivamente poi nascerà e si svilupperà il femminismo, che a sua volta si trasformerà, privilegiando l'”odio di genere”, denunciando prima una spesso reale prepotenza maschilista e, poi, auspicando l'assenza di qualsiasi ruolo, nella difficile ricerca di un'identità femminile coerente con il processo rivoluzionario”.

Sostanzialmente, scrive il reggente nazionale di Alleanza Cattolica, tutti, “saranno uniti da un profondo odio contro la realtà, non tanto quella storica - la società borghese in fondo era il frutto di rivoluzioni di classe precedenti e giudicate positive, come aveva spiegato Marx nel Manifesto del partito Comunista - ma la realtà come risulta dal senso comune, che è quel modo di guardare il reale privo di ideologismi di qualunque sorta”. Sono riflessioni importanti da tenere in considerazione, quando andremo ad affrontare la questione del “nuovo marxismo”, il Gender. 

In questa prospettiva emerge un odio verso la famiglia e verso la scuola come istituzioni, “verso il marito e il padre, infine verso il padrone, qualunque fosse la sua appartenenza ideologica”. Ricordiamoci che lo slogan dei rivoltosi parigini del 68, era: “Né Dio, né padre, né padrone”.

Con l'aborto e con la procreazione medicalmente assistita, si manifesta, non solo l'odio contro la realtà, ma anche contro quelle costruzioni che la realtà non rende possibili. In pratica si tende a cambiare il mondo per farlo nuovo, una rivolta contro il creatore, che l'aveva fatto male. Per il filosofo e sociologo tedesco-americano Eric Voegelin, si ritorna all'antico gnosticismo, questa volta però è di massa.

Rimosso il Muro di Berlino e la fine dell'URSS, “il disprezzo per la realtà – scrive Invernizzi - sarebbe continuato in una prospettiva relativistica, che si coniugherà con le potenzialità, impensabili prima, della tecnica”.

Comincia così la stagione, ancora in corso, “delle grandi battaglie sul fronte della bioetica che mireranno a una completa autodeterminazione dell'uomo nella costruzione del suo futuro, prescindendo cioè da qualsiasi limitazione morale: tutto ciò che è tecnicamente possibile diventerà anche moralmente lecito”.

Tutto inizia con il Sessantotto', la IV Rivoluzione, secondo lo schema del pensatore cattolico brasiliano professore Plinio Correa de Oliveira, è l'ultima tappa del processo di disgregazione del mondo occidentale. Dopo l'aggressione alla Religione, allo Stato e alla Proprietà ora la Rivoluzione con la IV fase, tenta di distruggere l'uomo. Invernizzi ne ripercorre i vari passaggi di questa rivoluzione a partire dai referendum del divorzio e poi dell'aborto.

Sono giorni che il dibattito sull’eutanasia è tornato ad invadere, anche con metodi un po’ da bulletti da parte di qualcuno, la scena pubblica. E sono giorni che la stampa dà in pasto ai lettori ‒ che invece vorrebbero leggere i giornali per conoscere la verità ‒ una storia ingannevole, piena di imprecisioni, infiocchettata da un’emotività vigliacca, che esclude una visione del reale ragionata.

Fabiano Antoniani, diventato noto come dj Fabo, nel 2014, in seguito ad un incidente stradale divenne cieco e tetraplegico. Lunedì 27 febbraio è stato aiutato a suicidarsi in una clinica Svizzera dall’associazione ‘Dignitas’. Era diventato, e lo è anche adesso che è morto, volto della campagna pro eutanasia dell’associazione Luca Coscioni.

 “Dj Fabo” non era un paziente terminale. Nessuno osa mettere in dubbio le sofferenze fisiche, e psicologiche, che lo hanno accompagnato per qualche anno, ma la malattia e l’accanimento terapeutico non c’entravano affatto col suo stato.

Non era in stato vegetativo, o comunque in una condizione per cui non fosse in grado di dare il proprio consenso, per la quale si vorrebbe l’esistenza di un testamento biologico. Quella che in gergo tecnico è definita “dichiarazione di volontà anticipata”. 

Si è detto fino alla nausea, con la retorica tipica di chi sa imbastire ad arte luoghi comuni per sentirsi accettato in questa società, che è stato costretto ad andare a morire in Svizzera perché la politica nostrana è lenta e non ha ancora approvato la legge sul testamento biologico. Ma non è così. Dj Fabo era un disabile grave, che ha chiesto e ottenuto di essere ucciso o aiutato a uccidersi. Nel suo caso si parla di “suicidio assistito” o “eutanasia attiva”, atti vietati dalla nostra legge e da quelle di quasi tutti i paesi europei. Atti che sarebbero vietati anche se fosse già vigente una legge sul testamento biologico.

La verità è che Fabiano Antoniani avrebbe potuto tranquillamente decidere di spegnersi nel suo letto, i giudici e la legge non avrebbero avuto nulla da ridire. La scelta di andare in Svizzera è figlia di una strategia mediatica curata nei minimi dettagli. Una manovra politicizzata, niente di più. 

Lunedì 27 febbraio non era una data casuale, ma lo stesso giorno in cui era stato messo in calendario dalla conferenza dei capigruppo della Camera dei Deputati l’inizio della discussione del disegno di legge sulle direttive anticipate e sul consenso informato (il Ddl sul biotestamento). Possibile che una morte che richiede – secondo la stessa associazione Dignitas nella cui clinica è morto dj Fabo, “per ogni singolo caso, un viaggio di questo genere, il colloquio con un medico, la redazione di una ricetta e il suicidio assistito è preceduto da un iter Dignitas che normalmente richiede fino a tre mesi, ma che può durare anche più a lungo; solo dopo questa procedura preparatoria, entro tre o quattro settimane, potrà aver luogo il suicidio assistito”‒ un così lungo iter, sia avvenuta proprio in quella data? 

Dj Fabo è morto alle 11:40 e neanche dieci minuti dopo – alle 11:48 – Marco Cappato, via Twitter dava l’annuncio della morte, che, alle 11.55, era già il titolo di apertura di tutte le grandi testate e di tutti i telegiornali nazionali. 

Andare in Svizzera è stata una mossa tecnica. E lo ha confermato Maria Antonietta Coscioni nel salotto di La7 qualche giorno fa, “Fabo poteva percorrere la strada di Welby, una via italiana già percorsa con Pannella, la sospensione della respirazione artificiale”. Insomma, per morire avrebbe potuto rinunciare a idratazione e alimentazione artificiali. Messaggio che Cappato ha provato a tamponare gridando “non è vero”, ma la Coscioni ha incalzato, “non fa differenza se morire in un giorno o in poche ore. È l’impatto che abbiamo voluto dare”. Quindi, tra andare in Svizzera o scegliere di abbandonare le cure, si tratta di misure che si sovrappongono, la differenza è “l’impatto”. Anche perché qualunque legge che preveda la “desistenza terapeutica” è eutanasica. 

Poche battute, forse non studiate a tavolino, e la drammatizzazione è iniziata subito a scricchiolare. Sono emerse, infatti, le chiare intenzioni: puntare all’impossibilità di morire in Italia legalmente, per ottenere un testo il più presto possibile. 

E allora si è ripiegato sullo strazio che avrebbe comportato interrompere le terapie. Però quando lo ottennero per Eluana Englaro nessuno si preoccupò della sofferenza ulteriore che le fu inflitta. È sconcertante il racconto di morte e il desiderio di scappare dalla vita a cui ci stanno sottoponendo. Sconcertante soprattutto al cospetto e agli occhi di chi versa in condizioni anche peggiori di quelle che erano di Fabiano, e che non cerca per sé un termine alla vita. Ma il cui coraggio non viene celebrato.  

Si pensa che l’autodeterminazione sia un bene in sé, e per questo è lo stendardo per giustificare eutanasia et similia. “Autodeterminarsi”, per dirla in breve, è l’azione quotidiana che consiste nello scegliere o meno di fare qualcosa. 

 Ma se la capacità di autodeterminarsi fosse davvero cosa buona e giusta a prescindere dall’azione preferita, allora sarebbe sana autodeterminazione anche scegliere di commettere uno stupro, abusare di un bambino, sniffare cocaina. In quale di questi casi sarebbe giusta la tolleranza dello Stato? Ma, anche qui: tollerare e cooperare per il male sono due concetti diversi. Giustificare ogni cosa con l’“autodeterminazione” è un modo come un altro per dire che vale tutto, e quindi non c’è niente che vale.

Offrire una pace illusoria che ha come corollario la fuga dalle responsabilità a cosa porterà?

Per quel che riguarda il biotestamento, invece, l’obiettivo è renderlo presto legale, con l’aiuto, magari, di qualche sentenza “creativa” della magistratura. Così che la sua formula nuda, dura e pura sia codificata: morte per tutti come e quando si vuole.

Eppure negli angoli di mondo dove regna la “civiltà al passo con i tempi”, non sembrano passarsela troppo bene.

Per esempio nel “civilissimo” Canada l’eutanasia è legale da appena otto mesi, ma secondo l’Associazione dei medici canadesi sono in tanti ad averla praticata e a non voler più ripetere l’“esperienza”. 

In Canada c’è una legge iper permissiva e secondo Jeff Blackmer, vicepresidente di Cma, “molti dottori dopo una prima esperienza con l’eutanasia non se la sentono più di rifarla perché la considerano travolgente, troppo difficile. Ci sono quelli che dicono: ‘Non posso più farlo’”.

Per molti altri, invece, il problema è di natura pratica: la legge è talmente vaga che temono di andare troppo oltre, procurando la morte a chi non ne avrebbe “diritto”. In Quebec, dopo i primi otto mesi, la commissione di controllo ha riscontrato ventuno violazioni della legge su ducentosessantadue casi di eutanasia. Ma finora nel mondo, a fronte di diverse violazioni anche al di fuori del Canada, non è mai stato condannato nessuno. Com’è strana la magistratura.

In Ontario sono rimasti centosette i medici disposti a praticare l’eutanasia. Altri trenta sono disponibili solo a dare un secondo parere, ma non a somministrare la letale iniezione. E a neanche un anno dall’entrata in vigore della legge, si riscontrano anche effetti perversi. La scorsa settimana un uomo di Montreal è stato denunciato per omicidio volontario dopo l’uccisione della moglie sessantenne affetta da Alzheimer. L’uomo aveva chiesto che potesse essere uccisa con l’eutanasia, ma i medici, riscontrando l’assenza delle condizioni necessarie, avevano respinto la domanda. Quando si entra nell’ordine di idee che va ben tutto ...

Si può essere più alla moda di tutti in fatto di ‘diritti’, ma nel cuore dell’uomo non si potrà mai cancellare la certezza che l’eutanasia è un omicidio con pseudonimo. 

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