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Nietzsche

 

All’origine di questa forma moderna di scetticismo, come possiamo definire il nichilismo, vi è l’opera di due giganti del pensiero contemporaneo: Nietzsche e Heidegger. Secondo Nietzsche l’intera storia occidentale è una folle corsa verso il nichilismo; l’uomo ha creato la civiltà per dare un senso alle domande ultime sul significato e lo scopo del mondo ma tutte le risposte sono illusorie. Il divenire, infatti, attesta l’inesistenza di verità e valori stabili: il mutamento vanifica ogni pretesa di fondamento e stabilità della metafisica. L’uomo, secondo Nietzsche, corre spedito verso il nulla eterno; la morale, in primis quella cristiana, con le sue esigenze, altro non è che un freno al necessario divenire del mondo. Il “superuomo”nicceano, non frenato dalla morale, accetta la vita come accade, con il suo carico d’insignificanza e lungi dall’opporre resistenza all’incessante mutamento del mondo, diviene, anzi, egli stesso un attore di primo piano nella distruzione dei valori. Il celebre grido “Dio è morto”, altro non vuol dire, sennonché la spiegazione ultima del mondo va ricercata unicamente in cause materiali; tuttavia, Nietzsche trova il modo di spazzare via anche il positivismo, che della scienza aveva fatto un nuovo “dio”da adorare al posto del precedente. Nella sua visione disperata, l’uomo esprime la sua volontà di potenza, accettando d’inserirsi pienamente nel flusso incessante dell’eterno ritorno delle cose, superando così ogni valore, ogni ideale, scienza compresa; nel suo linguaggio, è la transvalutazione dei valori. La filosofa Laura Boccenti, criticando il pensiero di Nietzsche rileva, che: «L’assenza di scopo dell’esistenza, la critica alla morale e l’affermazione della morte di Dio non sono giudizi che nascono dalla mediazione della ragione. Nietzsche non si confronta col problema del fondamento della conoscenza né con la metafisica, ignora il primo, insulta la seconda, ma non dimostra in nessun luogo che Dio non esiste o che il bene è in verità male e viceversa». Interessante il paragone rilevato dallo studioso Roberto Rossi, che legge — sulla scorta di Michele Federico Sciacca (1908-1975) — nella morte di Dio nicceana, la morte stessa della verità, così com’era stata concepita fino allora. Così il grande Sciacca: «E’ evidente che nei tre momenti del processo del pensiero moderno e contemporaneo, a mano a mano che si nega l’oggettività della verità, si nega l’esistenza di Dio: la verità assoluta è lo stesso pensiero umano (primo momento); la verità è relativa, è non vi è la verità assoluta né immanente né tanto meno trascendente (secondo momento); la verità è lo stesso problema e il sistema della verità è la problematica pura e semplice (terzo momento)». Ancora Rossi: E’ il pagano “tutto è compiuto”, pronunciato dalla vita e dal pensiero dell’anticristo Nietzsche, che rinnova, nella sua opera distruttiva, la crocifissione della verità: «Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato». L’altro grande “costruttore” del nichilismo è Martin Heidegger, considerato come il pensatore più affascinante e influente del novecento europeo. L’attuale crisi della Fede “deve” molto al pensatore tedesco, poiché a Heidegger si sono ispirati, esplicitamente, sia il biblista R. Bultmann (1884-1976), sia il teologo Karl Rahner (1904-1984): cioè le personalità più influenti — quale che sia il giudizio sulla loro opera — del novecento nel campo della cultura cristiana lato sensu. Dal filosofo tedesco si è attinto a piene mani e per la terminologia”evento”, “ascolto” “disponibilità”, “progetto”— e, soprattutto, per le prospettive. L’adesione, “toto corde”, al pensiero heideggeriano, tramite l’opera di Rahner, della maggior parte dei teologi, ha portato come conseguenza alla disistima per la metafisica classica, per la razionalità oggettivante, per la logica definitoria e argomentativa. Come ricordato da Cornelio Fabro, Heidegger ebbe il grande merito di denunziare la deriva essenzialista dell’intera metafisica occidentale, che aveva interpretato l’ente, non dall’essere, ma dall’essenza; Heidegger, giustamente, rilevava che la distinzione essenza — esistenza aveva iniziato la dissoluzione della metafisica, concependo l’essere come ciò che è prodotto e aprendo, così, la strada al nichilismo. Questa l’argomentazione di Fabro: «Giustamente Heidegger arriva alla conclusione che nella concezione moderna di coscienza come “attività”, cioè volontà (Wille), si arriva a concepire l’autocoscienza come “volontà di volere” (Wille zum Wille); che è la libertà come soggettività pura (…) Per Heidegger la dottrina di Nietsche, che riduce l’essere a volontà di potenza e lo dissolve perciò nella soggettività del soggetto, è il punto di arrivo della metafisica occidentale che ha obliato l’essere". Ma questo non avviene in una metafisica come quella di San Tommaso, osserviamo noi, che a posto a fondamento della verità l’esse come actus essendi e Dio come Esse ipsum». Il filosofo friulano, per primo, colse e descrisse l’importanza dell’actus essendi nel sistema tomista, visto come il vertice della speculazione dell’Aquinate; esso rappresenta l’atto primo fondante e originante di ogni ente finito. L’actus essendi (di Dio), spiega Fabro, nei confronti degli enti contingenti è “emergente”, e, dunque, li fonda traendoli dal nulla e trascendendoli. Il punto cruciale della nozione di essere tomista è, per Fabro, — in oppositionem a tutta la tradizione neotomista —, la nozione platonica di partecipazione. La grande novità portata da San Tommaso nei confronti di Aristotele, dello stesso Platone e di tutto il pensiero moderno — secondo la geniale intuizione di Fabro —, è l’idea che gli enti contingenti partecipano, cioè ricevono l’essere, dall’Ipsum esse subsistens: è così espressa una radicale dipendenza della creatura dal Creatore.

Fabro precisa, tuttavia, che del pensatore tedesco si possono accettare e la diagnosi e il nucleo teoretico, costituito dalla problematica fondazionale della verità dell’essere; non si possono accettare, ovviamente, le sue conclusioni, che, invece, sono rimaste imprigionate in quella stessa deviazione essenzialista, da lui pur vigorosamente rilevata e denunziata. Tra l’altro, Fabro rilevò che Heidegger cadde poi nell’errore opposto a quello formalista della metafisica classica e del pensiero moderno; per “raggiungere” l’essere, obliò l’essenza, non riuscendo, così, a dar conto di tutta la complessità e varietà del reale. In quella che, forse, fu la sua opera fondamentale Sein und Zeit (Essere e Tempo del 1927), cercò di giungere a una verità definitiva sull’essere, che pensò di cogliere attraverso lo studio fenomenologico dell’uomo. Tuttavia, nell’analisi si fermò agli elementi puramente esistenziali: considerò l’uomo come un esser—ci (dasein), cioè un luogo in cui l’essere si dà. Alla fine della ricerca, concluse di non poter dire nulla circa la verità dell’essere, la sua “navigazione” — a differenza di quella platonica — approdò al porto del nulla, alla morte come fine ultimo dell’uomo. Roberto Rossi ascrive questo fallimento al fatto che, Heidegger nella sua ricerca, rimane imprigionato nelle tre linee direttrici principali del 900, da lui, peraltro, rafforzate: la frantumazione della conoscenza, dovuta all’oblio del concetto di verità; confusione, quasi completa, tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto; assunzione dogmatica del mezzo linguistico, quale luogo manifestativo e quasi esaustivo della nozione di verità. Karl Lowith (1897—1973), sul messaggio essenziale di Sein und Zeit, si è così espresso: «Non rivela al lettore in nessun luogo che a Heidegger importi di raggiungere qualcosa di fermo, duraturo, indistruttibile, permanente— salvo in forma di quell’assoluto punto fisso che è la certezza della morte e quindi della nullità». Ancora Rossi, rileva che «in tal modo Sein und Zeit assume il ruolo di rappresentante massimo del nichilismo, in cui l’essere si trasforma in nulla, il permanere in ciò che diviene, che nasce e che muore.(…) La diagnosi nichilista, è quanto Heidegger conferma in Was ist metaphysik? dove Essere e nulla sono inseparabilmente connessi, e quanto si evince dal libro heideggeriano su Kant che sarebbe seguito a Sein und Zeit e dove (…) l’essere stesso è finito nella sua essenza e si rivela soltanto nella trascendenza dell’esserci proteso verso il nulla. In qualsiasi luogo e a qualsiasi profondità l’indagine possa tastare l’essente — scrive infatti Heidegger — mai essa troverà l’Essere. (…) Il processo della filosofia trascendentale di Kant, così, avrebbe il suo compimento e ultimo erede, non già in Fichte ma in Heidegger, dove la conoscenza si esaurisce nel solo campo interpretativo». Sein und Zeit, dunque, ha portato all’introduzione di un nuovo principio esistenziale concernente l’uomo e la morale; il primo è inteso come “essere—nel mondo”e/o “essere—in—situazione”con immediate ripercussioni sulla seconda: generando la cosiddetta “morale di situazione, che in omaggio al principio heideggeriano di non voler raggiungere nulla di permanente, proclama l’inesistenza di principi e valori morali immutabili. L’uomo contemporaneo trarrà dal suo stesso modo di “essere—nel mondo”, qui e ora, la sua morale. L’”essere—del—mondo” è identificato, da Heidegger, con il divenire della coscienza dell’uomo nella storia. Chiaramente, se la coscienza dell’uomo diviene con la storia, ciò che ieri era considerato immorale, oggi non lo è più e, parimenti, ciò che oggi lo è, domani non lo sarà più. Questo divenire temporale della coscienza, naturalmente, ha finito per invadere e inquinare il campo del diritto, che se prima dell’avvento del nichilismo — dai tempi più antichi, su fino al XVIII secolo —, presentava istituti e norme rispondenti a un ordine naturale superiore e trascendente e, dunque, sostanzialmente immutabili nella loro essenza, ora, in oppositionem, è tutto il contrario. Il Diritto, cioè, si deve adeguare all’Io e alle sue voglie, qualunque esse siano. Allo scopo, si parla di nichilismo giuridico. Uno dei suoi più illustri teorici, il prof. Natalino Irti, così lo descrive: «Laicizzate le fonti del diritto e sciolto ogni legame con la teologia, le norme sono venute nell’esclusivo e totale dominio della volontà umana (…) L’età moderna ha esteso al diritto la parola più audace e crudele: produrre. (…) La forza che le produce (…) è soltanto il volere degli uomini». “Volere”degli uomini, che si è, dunque, completamente sostituito a quello di Dio. Ma la parte più luciferina, forse, è la seguente, scritta sempre dal prof. Irti: «Le officine giuridiche lavorano in tutte le ore del giorno ed in tutti i luoghi della vecchia Europa: nessuna norma ha privilegio d’immutabilità e d’inviolabilità».Questo enunciato è davvero inquietante; dà perfettamente l’idea di quanto l’Europa, un tempo cristiana, “lavori”, ormai, contro se stessa e le sue radici, impoverendosi, così, fino alla “morte”. In queste oscure “officine”, dove, per dirla con il prof. Irti, si lavora instancabilmente, che cosa si sta “producendo”? Non sembra neppure troppo difficile indovinarlo: negli ultimi anni si sta “lavorando”alacremente alla distruzione di quella cellula vitale della società, che è rappresentata dalla famiglia naturale e cristiana, difesa persino dall’articolo ventinove della Costituzione della Repubblica Italiana. Basandosi sull’assunto nichilista, che il diritto coincide con la volontà del legislatore, qualche anno fa in Finlandia fu presentato un progetto di legge — come ricorda il magistrato italiano Francesco Mario Agnoli —, recante una definizione di “famiglia” adatta ai tempi del nichilismo: «L’insieme di coloro che usano lo stesso frigorifero». Ogni commento sarebbe superfluo…

Copertina del libro

 

Più passano gli anni e più l’Ottantanove, ovvero l’anno che cambiò per sempre la storia dell’Europa, sembra lontano. I protagonisti di quei giorni, però, sono ancora vivi e qualcuno nel frattempo è anche diventato un cronista affermato. Tra questi, sicuramente Luigi Geninazzi, già inviato del battagliero settimanale Il Sabato e oggi firma di Avvenire che ha presentato il suo ultimo lavoro pubblicato dall’editore torinese Lindau (cfr. L. Geninazzi, L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa, Con prefazione di Lech Walesa, Lindau 2013, Pp. 283, Euro 19,00) nella cornice neorinascimentale di Palazzo Blumenstihl, presso la sede romana dell’Istituto Polacco. Ad introdurre la serata, che vedeva tra il pubblico la presenza di diversi osservatori e personalità importanti (tra gli altri, l’onorevole Rocco Bottiglione, attualmente deputato alla Camera, l’ex europarlamentare Jas Gawronski, il vaticanista del TG2 Rai Vincenzo Romeo e lo scrittore Gian Franco Svidercoschi) è stato il direttore dell’istituto Pawel Stasikowski che ha presentato Geninazzi come uno dei primi giornalisti italiani a recarsi in Polonia quando quel grande movimento di popolo chiamato Solidarność nacque a Danzica nell’agosto del 1980. Da allora i contatti sono stati sempre più intensi e Geninazzi si è ripetutamente confermato come una delle fonti più autorevoli sull’interpretazione dell’evoluzione della società polacca. Lo ha sottolineato, intervenendo subito dopo, anche l’Ambasciatore della Repubblica polacca presso la Santa Sede, Piotr Nowina-Konopka, che ha ricordato la sua amicizia storica con Geninazzi e i numerosi incontri con l’allora leader del primo sindacato libero in un Paese Oltrecortina, Lech Walesa. La serata è quindi entrata nel vivo con una scena tratta dal film L'uomo di ferro (Człowiek z żelaza) di Andrzej Wajda, ambientato proprio sullo sfondo degli scioperi di massa di quei giorni, e l’intervista di Paolo Morawski all’autore. Morawski ha esordito con una considerazione significativa: “Chi oggi ha meno di 33 anni non riesce a credere che c’è stato un tempo in cui l’Europa non era unita e viaggiare verso l’Est poteva essere pericoloso”, tanto sono cambiate le cose da allora. Le foto che sono state successivamente proiettate in sala, che hanno raccontato per immagini i fatti più evocativi e simbolici del lungo decennio 1980-1990, rimandano in effetti a un mondo in bianco e nero, senza tv, internet o la capillare globalizzazione dell’informazione che c’è oggi. Eppure era appena l’altro ieri. Il personaggio che rappresenta forse meglio di altri questo passaggio storico per Geninazzi è il Primo Ministro della Polonia libera, Tadeusz Mazowiecki, morto a Varsavia lo scorso 28 ottobre, a 86 anni di età. Mazowiecki, membro fondatore anch’egli di Solidarność, amico personale di Lech Walesa, oltre che di Papa Giovanni Paolo II, era uno degli ultimi rappresentanti di quell’anima polacca profonda e umana, oltre che irriducibilmente cristiana, che aveva superato serenamente, e senza mai perdere la speranza, sofferenze e intimidazioni indicibili.

Oggi il rischio è che le nuove generazioni – che non hanno vissuto quel clima e quella stagione di conflitto, ma anche di eroismo – non si rendano conto realmente del prezzo pagato sul cammino della libertà e di quanto sia importante avere una chiara identità di sé stessi per sapere dove andare e che tipo di società costruire in futuro. Per questo è più che mai importante – a detta di Geninazzi – non solo scrivere dei libri che raccontino esaurientemente i fatti (in Italia finora l’ha fatto solo Enzo Bettiza nel suo 1989. La fine del Novecento), come sono andati, a chi non li ha vissuti ma che siano le famiglie stesse (genitori o nonni) che s’incarichino di trasmettere questo prezioso patrimonio di memoria che non viene più coltivato come un tempo ai figli e nipoti che saranno la classe dirigente di domani. Ritornando ai suoi primi viaggi nella Polonia degli anni Ottanta, l’autore si è poi soffermato sul ruolo positivo svolto dalla Chiesa nel dibattito pubblico e culturale (“ogni iniziativa creativa o di resistenza nasceva in Chiesa”) e la tipica religiosità popolare dei polacchi che storicamente ha accompagnato le svolte decisive e i momenti più importanti della Nazione. Non è un caso che tre delle figure più citate nel corso della serata per i loro indubbi meriti civici e politici, oltre che pastorali, siano proprio tre pastori: il cardinale Stefan Wyszyński (1901-1981), primate della Nazione per un trentennio, padre Jerzy Popieluszko (1947-1984), il cappellano di Solidarność (e il ricopritore delle celebri ‘Messe per la Patria’ che faranno parlare anche ad Occidente per l’incredibile risveglio spirituale che genereranno), brutalmente assassinato da sicari del regime, e ovviamente Papa Giovanni Paolo II (1920-2005). Ognuno di essi, in un momento diverso, ha dato una spinta – morale, ideale e spirituale – che anni più tardi, contro ogni previsione, ha davvero cambiato le pagine della storia. E’ questo il lascito più importante dell’azione della Chiesa in Polonia in quegli anni: la difesa della dignità di ogni persona, la diffusione della cultura della non-violenza e soprattutto l’anelito alla libertà che deriva dal Vangelo stesso. E si tratta anche qui di qualcosa da riscoprire e promuovere ancora di più oggi: per comprendere che dietro quei tre uomini c’era un mondo intero, una comunità viva e un’insieme di famiglie che avevano fatto della fede e della preghiera il centro della loro vita personale e associata, a casa come sul posto di lavoro.

La conversazione è poi proseguita con dei riferimenti anche a quanto accaduto nello stesso periodo nei Paesi limitrofi, a partire dalla ‘Rivoluzione di velluto’ che tra il novembre e il dicembre del 1989 rovesciò il regime comunista cecoslovacco portando inaspettatamente alla Presidenza della Repubblica l’ex nemico numero-uno del regime stesso, Václav Havel (1936-2011). Quello che però è importante sottolineare, per Geninazzi, è soprattutto il fatto che – contrariamente a quanto si legge e si scrive ancora oggi da più parti – “il Muro di Berlino non fu abbattuto in una notte” ma quella storica giornata venne preparata molti anni prima, pazientemente, giorno dopo giorno, grazie a “un’azione di resistenza di carattere religioso” innescata proprio dal primo viaggio di Papa Giovanni Paolo II in Polonia, nel giugno del 1979, quando il Pontefice fu accolto da oltre un milione di persone che sfidarono apertamente per le strade e nelle piazze il Partito mostrando che dietro Walesa e Solidarność non c’era solo qualche operaio, come si voleva far credere, ma tutta la Polonia. Wojtyla tornerà poi ancora nel 1983 e nel 1987: in ogni occasione registrando un successo che si sarebbe infine rivelato fatale per le sorti del regime. Per tutti questi motivi, il saggio rievocativo di Geninazzi non appare un’operazione nostalgica o dai toni velatamente romantici ma un coraggioso contributo per comprendere meglio un popolo e una storia di libertà che ci rende finalmente tutti – polacchi e non polacchi – un po’ più orgogliosi di essere europei.

Hegel_portrait_by_Schlesinger_1831

Hegel

 

Probabilmente, molti dei nostri contemporanei, presi dalla foga-necessità ricorrente nella storia- di ri-creare il mondo, perché così com’è non gli piace, non si avvedono che tante convinzioni coeve- una libertà assoluta e un’ipertrofia dei diritti individuali, slegati dai relativi doveri, su tutti- non sono per niente originali, ma affondano le proprie radici in una corrente filosofica vecchia di almeno tre secoli: l’idealismo, nato con Cartesio (1596-1650) e che, forse, ha raggiunto il suo massimo sviluppo con Hegel (1770-1831). L’opera del filosofo tedesco tracimò ben oltre gli angusti confini accademici e finì con l’influenzare pesantemente anche la teologia. In particolare, per iniziare la riflessione, conviene soffermarsi sulla sua concezione della Storia, che ha generato lo storicismo hegeliano.

Questa dottrina giudica benevolmente un fatto, per il solo motivo che è accaduto; essendo, dunque, la Storia umana, secondo la visione di Hegel, l’attuazione di Dio, ne consegue che il giudizio su di essa sarà immanente allo stesso processo storico. Hegel, quindi, valuta positivamente tutto quel che accade: i vincitori, nella storia, hanno sempre ragione. Poiché era anche un teologo, in molti sono rimasti abbagliati dal suo pensiero: in realtà ridusse il Cristo all’Idea e abbassò la speranza escatologica dai cieli alla Terra, contribuendo a elidere il concetto di Verità, tramite la sua dialettica. Hegel, sfidando —come tutti i rivoluzionari—la logica e la validità del principio di non contraddizione,— tentò di sostituirlo affermando che lo Spirito, l’Idea, non è immutabile, ma è in divenire ed esiste solo per contraddirsi e poi superarsi in una nuova sintesi. Questo è, dunque, il moto della dialettica: tesi, antitesi e sintesi che diviene la nuova tesi di un momento diverso nella storia. Diverse correnti teologiche, influenzate da Hegel, pensarono di doversi, così, sbarazzare del tomismo, considerato ormai come un ferro vecchio, buono per la civiltà medievale ma inutilizzabile nella modernità. I danni furono enormi; il falsato rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto—indotto dall’idealismo— si applicò oltre che al mondo esterno anche a Dio. Un Dio così non era più quello della Rivelazione, ma quello elaborato dalla coscienza del soggetto conoscente, rigidamente chiuso in se stesso. Il primo dogma a risentirne fu quello dell’Incarnazione: la dialettica hegeliana lo riduceva a una semplice idea, a mito Il mito hegeliano della storia divinizzata e beatificante è penetrato, perfino, nel comune sentire di molti uomini di chiesa. Qualche anno fa, padre Calmel ha così descritto questa situazione: “Respiriamo un’aria satura di hegelianesimo. Numerosi preti, in articoli eruditi o in modeste conferenze, sembrano volerci irretire in un diffuso hegelianesimo. Anche se non affermano chiaramente, come Hegel, che Dio è immerso nella storia e si compie nella storia, ciònondimeno parlano come se lo pensassero. Pur non osando dire grossolanamente che la Chiesa è in uno stato di dipendenza intrinseca nei confronti delle grandi correnti storiche lasciano intendere che essa vi si dovrebbe allineare modificandosi a loro piacimento. Conferiscono alla storia un ruolo messianico e mescolano il regno di Dio con la storia così concepita”. L’“aria satura di hegelianesimo”, prima menzionata, ha indotto molti a pensare a una modernità non ostile al cristianesimo, ma addirittura favorevole a esso perché ne favorisce la purificazione da elementi estranei provenienti da altre culture, in primis quella greca: da qui, la sua auspicata—e condannata dal Magistero— de-ellenizzazione. La modernità, dunque, favorirebbe un’attuazione matura e completa del cristianesimo, ormai purificato dalle scorie antiche e medievali; quest’idea ha generato la convinzione— espressa da tanti studiosi e da qualche eminente cardinale— che viviamo una vera e propria “età dello Spirito”. Un’età straordinaria nella quale tutte le precedenti forme di vivere la fede, legate ancora a troppi elementi sensibili, sono superate e dichiarate decadute; la nuova schiera di teologi, Rahner (1904-1984) in testa, è stata “beatificata” e per tanti rappresenta un incredibile gruppo: unico nella storia della Chiesa. Non è raro assistere a conferenze o a leggere articoli—soprattutto sui quotidiani laici— di ecclesiastici che non esitano a considerare quest’epoca superiore persino a quella dei grandi Padri della Chiesa: San Girolamo e sant’Agostino compresi. Sembra che gli unici problemi oggi esistenti all’interno della Sposa di Cristo siano i tradizionalisti e quanti si ostinano ancora a leggere il Concilio Vaticano II partendo dai testi. Purtroppo, non ci si avvede che tutte queste cose sono già state scritte da Hegel e, dunque, non è il caso di esaltarsi per un’originalità inesistente e per giunta incompatibile col sistema cattolico. Il succo, molto condensato, del pensiero hegeliano contro il cattolicesimo, tratto dalle sue lezioni di “Filosofia della Storia” è, all’incirca, questo: libertà di pensare e vivere in Spirito — che soffia dove vuole — “in oppositionem” alla chiesa legale. O, per chi lo preferisce, il dualismo— tante volte riecheggiato in questi anni— tra “Carisma “e Istituzione”, tra Chiesa “costantiniana” e Chiesa “giovannea”. L’identificazione, o quasi, della storia con il “divenire di Dio”, ha portato tanti esponenti ecclesiastici ad assorbire il quadro hegeliano come schema interpretativo del reale, con conseguenze devastanti per l’evangelizzazione dell’uomo contemporaneo. Ben presto le “conquiste” della filosofia idealista sono state applicate all’esegesi biblica con risultati disastrosi. Un professore di filosofia hegeliana, David Friedrich. Strauss (1808—1874), divenne il primo esegeta moderno: avviò il processo di demitizzazione del testo biblico, spogliandolo del soprannaturale e riducendolo alla soggettività E’ vero, così facendo abbiamo imparato molte cose sulla materialità del testo sacro; stili linguistici, storicità critica dei testi, contesti ect, ma abbiamo anche finito per ridurlo esclusivamente a parola dell’uomo e non di Dio. Il metodo storico—critico, cui oggi nessuno rinuncerebbe—giustamente—, è importante, ma non è tutto, come ha ricordato Benedetto XVI (2005-2013) nel suo secondo libro su Gesù: “In 200 anni di lavoro esegetico, l’interpretazione storico—critica ha ormai dato ciò che di essenziale aveva da dare”. Il tallone d’Achille di questo metodo risiede nella premessa—non dimostrata— che il Cristo della storia è, inevitabilmente, separato da un graben —fossato—, dal Cristo della fede. Separata la fede dal suo oggetto, dal punto di vista della filosofia idealista, si ottiene un capovolgimento della sua origine; la fede della comunità dei credenti non è più basata sulla vicenda terrena— Incarnazione, vita, morte—Resurrezione— di Gesù, ma è la stessa comunità dei credenti, che proiettando la sua fede sull’oscuro falegname di Nazareth, lo eleva alla dignità di Dio. “Scomparsi” i testimoni oculari sui quali è fondata la Chiesa, non vi è più nulla da custodire, dunque, viene meno anche l’esigenza di una Chiesa storica. Torna, qui, il discorso sulla “fede effettiva”, che, hegelianamente, non poggia su alcun’autorità e/o testimonianza, ma dipende unicamente dalla nostra coscienza di Dio, da un Assoluto immanente in noi. Tale prospettiva hegeliana rende superflua la presenza di una Chiesa storica vista come il prolungamento del Corpo di Cristo e si risolve nell’universale religioso. Quanto tutto ciò sia penetrato fin dentro la convinzione di molti uomini di Chiesa, è testimoniato da questo episodio raccontato dall’abbè Laurentin: “L’idealismo filosofico condusse a opporre il Gesù della storia, quasi sconosciuto, al Cristo della fede, sublime elaborazione della comunità primitiva. Si riconosce, qui, lo schema di Kant il Gesù della storia è la cosa in sé, in conoscibile; il Cristo della fede e il prodotto costante del soggetto conoscente. A questo soggetto collettivo (la comunità primitiva) l’esegesi riduttiva attribuisce generosamente una creatività e una ingegnosità illimitate (…) Nel corso di una tavola rotonda con esegeti e teologi di alto livello, suscitai una vera tempesta quando osai dire: “ Gli esegeti passano, il testo rimane. Fu corale una levata di scudi: E’ un nonsenso, un’assurdità!”I miei colleghi ridevano, perché per loro il testo non è nulla! La conoscenza, proiettata sul testo, è tutto La rivoluzione copernicana di Kant era passata di qui, e io rimanevo ancorato al realismo del medioevo!”. Purtroppo, oggi, molti nella Chiesa —sia ecclesiastici sia laici impegnati— non ne sono consapevoli e sposando teorie strampalate credono di essere originali, per meglio farsi capire dai contemporanei. Volendo mettere a fuoco una nozione guida dell’idealismo, possiamo affermare che la sua cifra interpretativa è stata la lenta ma inesorabile sostituzione dell’oggetto col soggetto e di Dio con l’uomo. Capire in profondità l’idealismo è questione di primaria importanza, in quanto, è stata la corrente di pensiero dominante che ha forgiato la modernità, — anche nelle discipline ecclesiastiche, come abbiamo visto—segnandone le tappe principali. Probabilmente, almeno a mia scienza, nessuno ha mai tracciato un quadro riassuntivo dell’idealismo più completo ed efficace, sintetico ed esaustivo allo stesso tempo, di quanto abbia fatto lo studioso francese Jean Daujat: “Che cos’è dunque l’idealismo? Alla base di tutto il pensiero moderno vi è un atteggiamento di orgoglio, una rivendicazione d’indipendenza totale dello spirito umano che si manifesta nel rifiuto di quella sottomissione all’oggetto che era alla base del pensiero cristiano: l’uomo vuole trovare tutto in se stesso e solo in se stesso, senza dover riconoscere alcuna dipendenza né doversi sottomettere.

L’idealismo è l’intelligenza che vuole trovare tutto in se stessa, nelle proprie idee o concezioni.

E rifiuta qualsiasi sottomissione a una verità che si impongano, che da lei non dipenda e che non sia una costruzione dello spirito. Dopo aver letto queste affermazioni pertinenti ed esaustive, scritte ormai più di quaranta anni fa e aventi radici in oltre tre secoli addietro, qualcuno pensa ancora di essere originale? Aveva ragione lo scrittore e giornalista Vittorio Messori, che a proposito delle eresie, sempre ricorrenti nella storia, acutamente, scrisse: ” Le posizioni eretiche sono come quelle erotiche, limitate”!

Copertina del libro

 

In questi mesi in cui - come noto - ricorre il cinquantenario, fervono i dibattiti, accademici e non, sul Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), di gran lunga l'evento più importante della storia della Chiesa nel '900. Mentre studiosi, cultori e specialisti si accapigliano sugli orientamenti pastorali e le correnti teologico-ideologiche, un'indicazione di merito importante è arrivata direttamente da Papa Francesco che ha fatto giungere una sua lettera d'apprezzamento all'arcivescovo Agostino Marchetto proprio in virtù dei suoi accurati lavori (pluridecennali), da storico e da canonista, sulla retta interpretazione da dare ai documenti dell'assise conciliare. Il riconoscimento è stato letto pubblicamente in Campidoglio, presso la sala Pietro da Cortona dei musei capitolini, nel corso della presentazione di un volume di omaggio allo stesso Marchetto che ha da poco compiuto i 70 anni. Il volume collettaneo, curato dal professor Jean Ehret e pubblicato per i tipi della Libreria Editrice Vaticana (cfr. J. Ehret, Primato pontificio ed Episcopato. Dal primo millennio al Concilio Ecumenico Vaticano II – Studi in onore dell'Arcivescovo Agostino Marchetto, LEV, Città del Vaticano 2013, Euro 42,00), si avvale della prefazione del cardinale Raffele Farina e si compone di tre differenti sezioni (“Storia ed ecclesiologia”, “Primato pontificio ed Episcopato”, “Il Magno Sinodo e la sua dinamica”) che raccolgono ventinove saggi in diverse lingue dei maggiori esperti sul Concilio attualmente a livello ecclesiale. Tra questi meritano menzione almeno il cardinale Walter Brandmüller, già presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Johannes Grohe, docente di storia dei Concilii presso la Pontificia Università della Santa Croce, monsignor Nicola Bux orientalista e specialista della spiritualità greco-bizantina, Adriano Roccucci docente di storia contemporanea all'Università Roma Tre e Vincenzo Buonuomo docente di diritto internazionale presso la Pontificia Università Lateranense, oltre naturalmente allo stesso Marchetto di cui vengono proposti tre contributi (uno dei quali di particolare rilevanza sul rapporto complessivo fra tradizione e rinnovamento).

La presentazione, introdotta e moderata dal professor Giovanni Maria Vian, direttore de L'Osservatore Romano, ha visto gli interventi dell'arcivescovo Jean-Louis Brugues, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, dei cardinali Kurt Koch (presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani) e Angelo Bagnasco (Arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana) nonché del presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini mentre tra le varie autorità ecclesiali presenti per l'occasione tra il pubblico spiccavano i cardinali Farina, Re e Brandmüller. Come accennato, la notizia della serata è stata proprio la lettera – inattesa – fatta giungere da Papa Francesco a Marchetto in cui il pontefice argentino si riferisce allo studioso definendolo un fedele “figlio della Chiesa” e soprattutto - letteralmente - “il miglior ermenuta del Concilio Vaticano II” ribadendo in tal modo ufficialmente la linea interpretativa già percorsa dal predecessore, Benedetto XVI, (almeno) in due discorsi-chiave del suo pontificato: il discorso alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2005 e il discorso al Clero romano poco prima del suo congedo il 14 febbraio 2013. Non era un dato scontato, atteso che anche in questo senso già alcuni atteggiamenti del nuovo pontefice gesuita nei mesi scorsi erano stati strumentalizzati da diversi organi di stampa. Così facendo, e volendo – egli per primo – dare risonanza mediatica al messaggio, il popolo cristiano ne trae invece un insegnamento sicuro sulla rotta da seguire di altissimo, e logicamente ineguagliato, valore. L'indicazione di Papa Francesco, c'è da scometterci, sarà determinante anche nei prossimi mesi, soprattutto quando – come è lecito aspettarsi – esponenti di primo piano delle correnti interpretative e divulgative più eterodosse (oltretutto prevalenti a livello di mass-media), come la cosiddetta 'scuola di Bologna' che fa capo agli allievi di Giuseppe Alberigo (1926-2007), dovranno necessariamente dedurne tutte le conseguenze del caso. La serata è quindi proseguita con gli interventi di Brugues, già apprezzato segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica, che nel suo intervento si è soffermato in particolare sul fatto che se è vero che “un'ermeneutica 'corretta' non può negare gli aspetti storici” tuttavia essa “non deve perdere il senso complessivo del Concilio”. Detto in altri termini: “dobbiamo apprezzare i contributi dei singoli protagonisti del Concilio senza però dimenticare che questo fu realizzato dall'insieme di tutti loro. Il Concilio ha, lo dobbiamo ripetere, un significato in se stesso, che trascende gli atti, i pensieri e le ricerche dei singoli partecipanti”. Se poi si avesse ancora qualche perplessità, ha concluso significativamente Brugues, che ha invitato tutti i laici cristiani anzitutto a leggere e conoscere i documenti conciliari, “lo Spirito Santo, attraverso il Papa, ci condurrà a percepire sempre di più il dono del Concilio Vaticano II per la Chiesa di oggi e di domani”.

A seguire è stata la volta del cardinale Koch che ha pure evidenziato la necessità di considerare il Concilio nel suo complesso “come parte della tradizione vivente della Chiesa”, senza cesure ma neanche eccessive forzature, specificando altresì che “l'ermeneutica della riforma si basa sulla convinzione che il Concilio non ha voluto una Chiesa nuova in rottura con la tradizione, ma una Chiesa rinnovata nello spirito del messaggio della fede cristiana rivelato una volta per tutte e trasmesso nella tradizione vivente della Chiesa. Il Concilio non ha voluto o promosso neppure una nuova dottrina della fede, ma un rinnovamento di quella dottrina tramandata nei secoli e permanentemente valida”. A sostegno della sua argomentazione, il porporato svizzero ha richiamato una citazione di peso d'annata, della fine degli anni Settanta per l'esattezza, dell'allora cardinal Ratzinger: “ciò che ha devastato la Chiesa dell'ultimo decennio non è stato il Concilio, ma il rifiuto di accoglierlo”. Come a dire che del vero Concilio, in tutta la sua reale portata, dobbiamo ancora vedere molto. Di tenore completamente diverso l'intervento invece dell'onorevole Boldrini che ha ricordato non il Marchetto-studioso forse più noto ma il “finissimo diplomatico” e le sue molteplici iniziative, pastorali e caritatevoli, sul campo dei migranti e i rifugiati (per nove anni, dal 2001 al 2010, Marchetto è stato segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti). E' infatti in quest'ultimo campo che l'attuale presidente della Camera ebbe modo di conoscere il presule, mentre svolgeva diverse missioni internazionali in ambito FAO. In tal senso, Boldrini ha sottolineato che questi [Marchetto] negli anni “ha incarnato una visione realmente cristiana dell'accoglienza ai migranti” augurandosi che il suo esempio di carità generosa possa servire per “dare vita a una nuova stagione di integrazione sociale” nel nostro Paese. Infine, ha preso la parola il presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, che ricordando l'anno della Fede che il popolo cristiano ha celebrato quest'anno a margine di due anniversari importanti per la storia della Chiesa (il 50° dal Concilio e il 20° dalla pubblicazione del nuovo Catechismo universale), si è soffermato sulla dimensione per così dire meta-temporale della Chiesa che prima di essere un'istituzione legislativamente definita è il luogo privilegiato dell'incontro tra l'uomo e il divino, sempre in cammino tra storia e meta-storia, ovvero la dimensione del tempo e quella dell'eternità. Il mistero in quanto tale “fa quindi parte” della Chiesa ed è di fatto ineliminabile dalla sua natura più autentica. Invano lavorerebbe quello storico, o quel sociologo, che cercasse di espungerlo dal suo campo di studio perchè non immediatamente rilevabile. Detto ciò, per tornare oggi al vero Concilio, non quello di mezzi di comunicazione, nè tantomeno quello degli studiosi partigiani, occorre guardare alla Chiesa come a un organismo vivente, non a una ONG – per riprendere, ancora, espressioni recenti sia di Benedetto XVI che di Francesco – e, diversamente dal passato, considerare finalmente il Papato come “un'istituzione di unità e di libertà” che garantisce la professione di fede del cristiano nella sua integrità, tanto contro i riduzionismi dei regimi politici (il '900 ne è stato pieno), quanto contro i personalismi carismatici di taluni ecclesiastici magari con responsabilità di vertice, che pure a volte possono esserci. Sotto entrambi questi profili, il lavoro di Marchetto – tanto più dopo la lettera pontificia d'encomio arrivata nei giorni scorsi – pare essere una strada sicura da seguire per gli studiosi di oggi e di domani.

Karl_Rahner_by_Letizia_Mancino_Cremer

 

Al culmine della crisi postconciliare, nel 1977, PaoloVI in una famosa intervista, concessa al filosofo francese Jean Guitton (1901-1999), incentrata sulla crisi nella Chiesa, disse: “C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo della Chiesa, e ciò che è in questione è la fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di san Luca: “Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla Terra?”. Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. Questo, secondo me, è strano. Rileggo talvolta il Vangelo della fine dei tempi e constato che in questo momento emergono alcuni segni di questa fine. Siamo prossimi alla fine? Questo non lo sapremo mai. Occorre tenersi sempre pronti, ma tutto può durare ancora molto a lungo. Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia”. Tra gli “artefici” principali di quella crisi -più che mai attuale- va annoverato certamente il teologo e gesuita tedesco Karl Rhaner (1904-1984). Sopravvalutare l’influenza che la sua’opera ha avuto sull’intera Chiesa, dagli anni 60 a oggi, è davvero difficile; su questo punto, amici e nemici, concordano tutti. Già all’indomani della chiusura ufficiale del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965), iniziò una sorta di “guerra santa” su come doveva essere interpretato: se in “continuità” o in “rottura” con tutta la Tradizione della Chiesa. Nacquero così le due ermeneutiche, che si fronteggiarono a tutto campo, con grave nocumento per la fede e per la vita della Chiesa. Per comprendere il disagio che attanagliò e scosse l’intera comunità ecclesiale, basti riportare un dato indicativo: gli iscritti all’Azione Cattolica, associazione considerata il fiore all’occhiello della Chiesa, solo in Italia, nell’arco di pochi anni, crollarono da tre milioni a poco più di mezzo milione! A trionfare, naturalmente, dopo oltre due secoli di lavorio continuo della filosofia moderna-penetrata appieno nella Chiesa, a tutti i livelli- fu la cosiddetta ermeneutica della “rottura”, che considerava il Concilio come l’atto di nascita di una nuova epoca, quasi, oserei dire, di una nuova Chiesa, in totale frattura con i venti secoli precedenti! Dopo diversi interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II (1978-2005), tesi a riequilibrare la situazione, ci fu quello netto, perentorio, di papa Benedetto XVI (2005-2013), che in uno splendido discorso tenuto alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi, nel 2005, a proposito delle due ermeneutiche, così le descrisse: ” L’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass—media e anche di una parte della teologia moderna, da lui giudicata fuorviante e “l’ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto—Chiesa, che il Signore ci ha donato”, considerata quella corretta. Uno dei padri nobili, non certo il solo, ma forse il più influente, dell’ermeneutica della “rottura”, fu proprio Karl Rahner. La sua teologia, infarcita, per sua stessa ammissione, di filosofia heideggeriana, originò la distinzione tra “fede ufficiale”—proclamata dalla Chiesa— e “fede effettiva” o “reale”, ossia la fede di “molti uomini” che in varie epoche ha influenzato la Chiesa: questa sarebbe la fede normativa, non l’altra. Naturalmente, Rahner non precisa l'identità di questi uomini. L’influenza hegeliana prima e heideggeriana poi, è lampante. George Whilelm Friedrich

Hegel (1770—1831) aveva parlato di Wirklichheit—effettività— la quale non si basa su un dato esterno, oggettivo, — a ES i testi del Concilio in particolare, e quelli del Magistero in generale, per il caso di specie che qui c’interessa— cui l’intelletto deve conformarsi— adaequatio tomista—, ma su un “dato fatto”—soggettivamente stabilito, privo di dati oggettivi—, considerato “vero”soltanto perché esiste “effettivamente”e ottiene consensi. Questo “dato fatto”, soggettivo e ottenente consensi, nel linguaggio heideggeriano si trasformerà nell’”evento”, parola, ormai, quasi taumaturgica nella teologia contemporanea e non solo. Occorre rilevare un ultimo passaggio, decisivo, per comprendere il perché dell’ermeneutica della rottura e, più in generale, la disaffezione generalizzata, venata da tratti di insofferenza, verso il Magistero. In Hegel, come poi in Heidegger, così come l’essere coincide con l’essere pensato, il diritto coincide con il fatto è non è la sua regola; in altre parole, la ragione non è appannaggio di chi ragiona sillogisticamente o di chi porta argomentazioni plausibilmente verosimili, ma è di chiunque riesca a imporre —il modo non importa— la sua visione delle cose: in quest’ottica, non è irrilevante notare, che Benedetto XVI— come visto prima—rilevi la maggior diffusione mediatica dell’ermeneutica della rottura. L’applicazione della Wirklichheit hegeliana, comporta un’inversione pratica del rapporto Magistero —fedeli con i secondi, che mediante la “fede effettiva”—derivata, secondo Rahner, dalla fede trascendentale, “atematica”, tipica di ogni uomo—impongono al primo i contenuti—sempre mutevoli —della fede; il Magistero deve limitarsi a prendere atto di questa “fede effettiva”, interpretarla correttamente e custodirla gelosamente fino a che lo Spirito non indicherà nuovi contenuti di fede, rispondenti alle mutate condizioni storiche. Siamo, dunque, in pieno storicismo di matrice hegeliana. Rahner mostrerà questa sorta di diritto alla creatività dottrinale, cui anche il Magistero deve adeguarsi, da parte dei “molti uomini”, in un passaggio scritto in una delle sue opere più note, Nuovi Saggi: “La coscienza del singolo cristiano non è e non può essere la semplice eco, lo specchio e l’immagine riflessa e la riproduzione della dottrina ecclesiale ufficiale”. Qui è lampante il “trionfo”, la piena “maturità”raggiunta dall’amaro frutto dell’idealismo, che partito dall’autocoscienza, dall’Io cartesiano come fonte unica di verità su Dio e sul mondo, è giunto ad avere la certezza, non dai dati sensibili, ma da una certezza spirituale immediata, originale e riflessa del proprio atto di pensare che in realtà non è propria dell’uomo ma di Dio (padre Giovanni Cavalcoli) Il risultato? In tanti, oggi, a “destra” come a “sinistra”- per quel che possono valere queste distinzioni in campo ecclesiale- dopo decenni di sedimentazione di queste false dottrine, si sentono autorizzati- consapevolmente o no dalla Wirklichheit hegeliana e dal cogito cartesiano, ad autonominarsi “maestri del papa”. In fondo, se si possiede il pensiero divino, non è poi così difficile, o no?

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