In un’epoca in cui, piaccia o non piaccia, il mondo vive uno scontro di civiltà fra culture diverse, è utile interrogarsi sulla nascita dell’Occidente, inteso come l’unione dell’Europa e del mondo umano nato dall’espansione degli europei. Lo fa, con grande accuratezza e con attenzione ai numerosi studi recenti sull’argomento, Federica Morelli, ricercatrice di Storia moderna all’Università di Torino, con il suo Il mondo atlantico. Una storia senza confini (secoli XV-XIX) (Carocci, Roma 2013, pp. 280, € 22,00). L’intenzione è di ripercorrere la nascita, lo sviluppo e la disintegrazione del «mondo atlantico», inteso come lo «spazio di interconnessioni e interdipendenze che si è formato, a partire dall’espansione europea e dalla scoperta del Nuovo Mondo, tra i continenti, europeo, africano e americano, dando vita a nuove società, economie e culture» (p. 9).
L’autrice prende in esame innanzitutto la formazione, molto graduale, di questo spazio a partire dalla fine del Medioevo, mediante esplorazioni, incontri e scambi, gli sviluppi della cartografia e della navigazione, la conquista e la colonizzazione delle Azzorre e delle Canarie, che furono imprese a carattere internazionale, come il resto dell’espansione europea in quell’oceano. Sono quindi illustrate le interazioni fra gli europei e gli africani, mostrando che «il coinvolgimento atlantico delle regioni dell’Africa occidentale non fu dovuto solo alla volontà europea e al commercio degli schiavi» (p. 12), perché gli africani parteciparono attivamente agli scambi commerciali e ne trassero vari benefici. Uguale attenzione è prestata all’incontro-scontro fra europei e amerindi dopo i primi viaggi di Cristoforo Colombo, la cui azione era ispirata «da una specie di missione provvidenziale che aveva come fine ultimo il finanziamento della riconquista cristiana di Gerusalemme» (p. 30).
In secondo luogo delinea la formazione dei differenti spazi atlantici — spagnolo, portoghese, inglese e francese — e descrive come essi furono progressivamente integrati in un’unica area interdipendente grazie alle migrazioni, agli scambi economici e alle reti commerciali, politiche e religiose. Le migrazioni, oltre a trasformare radicalmente il mondo atlantico, innescarono processi di adattamento e ibridazione fra europei, amerindi e africani.
Fra queste interazioni vi fu certamente anche la tratta dei neri, in cui però gli africani furono coinvolti volontariamente: essi «non erano dunque semplicemente sfruttati dagli europei ma partecipavano attivamente al commercio con questi ultimi, compreso quello degli schiavi» (p. 133). Gli europei, infatti, non possedevano i mezzi economici e militari per costringere i signori locali a vender loro schiavi; la tratta, inoltre, documenta Morelli, non è stata la causa del sottosviluppo del continente africano, come si è affermato a lungo. Viene anche mostrato che «l’immagine di un’America iberica cattolica e oscurantista, che impone con la forza il suo credo religioso al resto delle popolazioni non europee, contrapposta a un’America protestante più aperta e tollerante, è fuorviante» (p. 154).
Infine, spiega perché la crisi di uno spazio — provocato dall’emergere degli Stati nazionali e dalla nascita di un nuovo tipo di colonialismo, non da «movimenti nazionali che miravano principalmente all’indipendenza» (p. 16) — abbia causato il collasso di altre aree vicine. La Guerra dei Sette Anni (1756-1763), il primo vero conflitto mondiale, aveva alterato gli equilibri imperiali europei nel mondo e dato avvio ad ampi progetti di riforma degli imperi medesimi, coincidenti con i tentativi di rafforzare gli Stati e di razionalizzare le amministrazioni, secondo i princìpi dell’illuminismo. In particolare, la nuova dinastia borbonica — che aveva sostituito l’asburgica all’inizio del secolo XVIII — concepiva l’impero spagnolo solo come una realtà commerciale, prescindendo dai suoi fondamenti missionari, cosicché i territori d’Oltremare furono degradati a «colonie». Quasi contemporaneamente i coloni americani contestavano l’autoritarismo e la centralizzazione messi in atto dalla madrepatria britannica. «Le rivoluzioni ispaniche, come quella nordamericana, nacquero quindi come una legittima resistenza all’illegalità degli atti di governo: entrambi i movimenti si qualificano al principio come una sorta di restaurazione del diritto, di fronte all’illegittimità degli atti del Parlamento britannico, in un caso, e dei Borboni, nell’altro» (p. 217). L’analisi termina negli anni 1820, quando l’arrivo di forza lavoro asiatica e la diminuzione progressiva dell’importazione di schiavi africani, minarono l’integrità dello spazio atlantico.