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Idealismo e teologia contemporanea

Hegel_portrait_by_Schlesinger_1831

Hegel

 

Probabilmente, molti dei nostri contemporanei, presi dalla foga-necessità ricorrente nella storia- di ri-creare il mondo, perché così com’è non gli piace, non si avvedono che tante convinzioni coeve- una libertà assoluta e un’ipertrofia dei diritti individuali, slegati dai relativi doveri, su tutti- non sono per niente originali, ma affondano le proprie radici in una corrente filosofica vecchia di almeno tre secoli: l’idealismo, nato con Cartesio (1596-1650) e che, forse, ha raggiunto il suo massimo sviluppo con Hegel (1770-1831). L’opera del filosofo tedesco tracimò ben oltre gli angusti confini accademici e finì con l’influenzare pesantemente anche la teologia. In particolare, per iniziare la riflessione, conviene soffermarsi sulla sua concezione della Storia, che ha generato lo storicismo hegeliano.

Questa dottrina giudica benevolmente un fatto, per il solo motivo che è accaduto; essendo, dunque, la Storia umana, secondo la visione di Hegel, l’attuazione di Dio, ne consegue che il giudizio su di essa sarà immanente allo stesso processo storico. Hegel, quindi, valuta positivamente tutto quel che accade: i vincitori, nella storia, hanno sempre ragione. Poiché era anche un teologo, in molti sono rimasti abbagliati dal suo pensiero: in realtà ridusse il Cristo all’Idea e abbassò la speranza escatologica dai cieli alla Terra, contribuendo a elidere il concetto di Verità, tramite la sua dialettica. Hegel, sfidando —come tutti i rivoluzionari—la logica e la validità del principio di non contraddizione,— tentò di sostituirlo affermando che lo Spirito, l’Idea, non è immutabile, ma è in divenire ed esiste solo per contraddirsi e poi superarsi in una nuova sintesi. Questo è, dunque, il moto della dialettica: tesi, antitesi e sintesi che diviene la nuova tesi di un momento diverso nella storia. Diverse correnti teologiche, influenzate da Hegel, pensarono di doversi, così, sbarazzare del tomismo, considerato ormai come un ferro vecchio, buono per la civiltà medievale ma inutilizzabile nella modernità. I danni furono enormi; il falsato rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto—indotto dall’idealismo— si applicò oltre che al mondo esterno anche a Dio. Un Dio così non era più quello della Rivelazione, ma quello elaborato dalla coscienza del soggetto conoscente, rigidamente chiuso in se stesso. Il primo dogma a risentirne fu quello dell’Incarnazione: la dialettica hegeliana lo riduceva a una semplice idea, a mito Il mito hegeliano della storia divinizzata e beatificante è penetrato, perfino, nel comune sentire di molti uomini di chiesa. Qualche anno fa, padre Calmel ha così descritto questa situazione: “Respiriamo un’aria satura di hegelianesimo. Numerosi preti, in articoli eruditi o in modeste conferenze, sembrano volerci irretire in un diffuso hegelianesimo. Anche se non affermano chiaramente, come Hegel, che Dio è immerso nella storia e si compie nella storia, ciònondimeno parlano come se lo pensassero. Pur non osando dire grossolanamente che la Chiesa è in uno stato di dipendenza intrinseca nei confronti delle grandi correnti storiche lasciano intendere che essa vi si dovrebbe allineare modificandosi a loro piacimento. Conferiscono alla storia un ruolo messianico e mescolano il regno di Dio con la storia così concepita”. L’“aria satura di hegelianesimo”, prima menzionata, ha indotto molti a pensare a una modernità non ostile al cristianesimo, ma addirittura favorevole a esso perché ne favorisce la purificazione da elementi estranei provenienti da altre culture, in primis quella greca: da qui, la sua auspicata—e condannata dal Magistero— de-ellenizzazione. La modernità, dunque, favorirebbe un’attuazione matura e completa del cristianesimo, ormai purificato dalle scorie antiche e medievali; quest’idea ha generato la convinzione— espressa da tanti studiosi e da qualche eminente cardinale— che viviamo una vera e propria “età dello Spirito”. Un’età straordinaria nella quale tutte le precedenti forme di vivere la fede, legate ancora a troppi elementi sensibili, sono superate e dichiarate decadute; la nuova schiera di teologi, Rahner (1904-1984) in testa, è stata “beatificata” e per tanti rappresenta un incredibile gruppo: unico nella storia della Chiesa. Non è raro assistere a conferenze o a leggere articoli—soprattutto sui quotidiani laici— di ecclesiastici che non esitano a considerare quest’epoca superiore persino a quella dei grandi Padri della Chiesa: San Girolamo e sant’Agostino compresi. Sembra che gli unici problemi oggi esistenti all’interno della Sposa di Cristo siano i tradizionalisti e quanti si ostinano ancora a leggere il Concilio Vaticano II partendo dai testi. Purtroppo, non ci si avvede che tutte queste cose sono già state scritte da Hegel e, dunque, non è il caso di esaltarsi per un’originalità inesistente e per giunta incompatibile col sistema cattolico. Il succo, molto condensato, del pensiero hegeliano contro il cattolicesimo, tratto dalle sue lezioni di “Filosofia della Storia” è, all’incirca, questo: libertà di pensare e vivere in Spirito — che soffia dove vuole — “in oppositionem” alla chiesa legale. O, per chi lo preferisce, il dualismo— tante volte riecheggiato in questi anni— tra “Carisma “e Istituzione”, tra Chiesa “costantiniana” e Chiesa “giovannea”. L’identificazione, o quasi, della storia con il “divenire di Dio”, ha portato tanti esponenti ecclesiastici ad assorbire il quadro hegeliano come schema interpretativo del reale, con conseguenze devastanti per l’evangelizzazione dell’uomo contemporaneo. Ben presto le “conquiste” della filosofia idealista sono state applicate all’esegesi biblica con risultati disastrosi. Un professore di filosofia hegeliana, David Friedrich. Strauss (1808—1874), divenne il primo esegeta moderno: avviò il processo di demitizzazione del testo biblico, spogliandolo del soprannaturale e riducendolo alla soggettività E’ vero, così facendo abbiamo imparato molte cose sulla materialità del testo sacro; stili linguistici, storicità critica dei testi, contesti ect, ma abbiamo anche finito per ridurlo esclusivamente a parola dell’uomo e non di Dio. Il metodo storico—critico, cui oggi nessuno rinuncerebbe—giustamente—, è importante, ma non è tutto, come ha ricordato Benedetto XVI (2005-2013) nel suo secondo libro su Gesù: “In 200 anni di lavoro esegetico, l’interpretazione storico—critica ha ormai dato ciò che di essenziale aveva da dare”. Il tallone d’Achille di questo metodo risiede nella premessa—non dimostrata— che il Cristo della storia è, inevitabilmente, separato da un graben —fossato—, dal Cristo della fede. Separata la fede dal suo oggetto, dal punto di vista della filosofia idealista, si ottiene un capovolgimento della sua origine; la fede della comunità dei credenti non è più basata sulla vicenda terrena— Incarnazione, vita, morte—Resurrezione— di Gesù, ma è la stessa comunità dei credenti, che proiettando la sua fede sull’oscuro falegname di Nazareth, lo eleva alla dignità di Dio. “Scomparsi” i testimoni oculari sui quali è fondata la Chiesa, non vi è più nulla da custodire, dunque, viene meno anche l’esigenza di una Chiesa storica. Torna, qui, il discorso sulla “fede effettiva”, che, hegelianamente, non poggia su alcun’autorità e/o testimonianza, ma dipende unicamente dalla nostra coscienza di Dio, da un Assoluto immanente in noi. Tale prospettiva hegeliana rende superflua la presenza di una Chiesa storica vista come il prolungamento del Corpo di Cristo e si risolve nell’universale religioso. Quanto tutto ciò sia penetrato fin dentro la convinzione di molti uomini di Chiesa, è testimoniato da questo episodio raccontato dall’abbè Laurentin: “L’idealismo filosofico condusse a opporre il Gesù della storia, quasi sconosciuto, al Cristo della fede, sublime elaborazione della comunità primitiva. Si riconosce, qui, lo schema di Kant il Gesù della storia è la cosa in sé, in conoscibile; il Cristo della fede e il prodotto costante del soggetto conoscente. A questo soggetto collettivo (la comunità primitiva) l’esegesi riduttiva attribuisce generosamente una creatività e una ingegnosità illimitate (…) Nel corso di una tavola rotonda con esegeti e teologi di alto livello, suscitai una vera tempesta quando osai dire: “ Gli esegeti passano, il testo rimane. Fu corale una levata di scudi: E’ un nonsenso, un’assurdità!”I miei colleghi ridevano, perché per loro il testo non è nulla! La conoscenza, proiettata sul testo, è tutto La rivoluzione copernicana di Kant era passata di qui, e io rimanevo ancorato al realismo del medioevo!”. Purtroppo, oggi, molti nella Chiesa —sia ecclesiastici sia laici impegnati— non ne sono consapevoli e sposando teorie strampalate credono di essere originali, per meglio farsi capire dai contemporanei. Volendo mettere a fuoco una nozione guida dell’idealismo, possiamo affermare che la sua cifra interpretativa è stata la lenta ma inesorabile sostituzione dell’oggetto col soggetto e di Dio con l’uomo. Capire in profondità l’idealismo è questione di primaria importanza, in quanto, è stata la corrente di pensiero dominante che ha forgiato la modernità, — anche nelle discipline ecclesiastiche, come abbiamo visto—segnandone le tappe principali. Probabilmente, almeno a mia scienza, nessuno ha mai tracciato un quadro riassuntivo dell’idealismo più completo ed efficace, sintetico ed esaustivo allo stesso tempo, di quanto abbia fatto lo studioso francese Jean Daujat: “Che cos’è dunque l’idealismo? Alla base di tutto il pensiero moderno vi è un atteggiamento di orgoglio, una rivendicazione d’indipendenza totale dello spirito umano che si manifesta nel rifiuto di quella sottomissione all’oggetto che era alla base del pensiero cristiano: l’uomo vuole trovare tutto in se stesso e solo in se stesso, senza dover riconoscere alcuna dipendenza né doversi sottomettere.

L’idealismo è l’intelligenza che vuole trovare tutto in se stessa, nelle proprie idee o concezioni.

E rifiuta qualsiasi sottomissione a una verità che si impongano, che da lei non dipenda e che non sia una costruzione dello spirito. Dopo aver letto queste affermazioni pertinenti ed esaustive, scritte ormai più di quaranta anni fa e aventi radici in oltre tre secoli addietro, qualcuno pensa ancora di essere originale? Aveva ragione lo scrittore e giornalista Vittorio Messori, che a proposito delle eresie, sempre ricorrenti nella storia, acutamente, scrisse: ” Le posizioni eretiche sono come quelle erotiche, limitate”!

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