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LA GUERRA 1915-18 E LE POLITICHE ABITATIVE

 

di

Corrado Sforza Fogliani

 

 

I provvedimenti vincolistici – dei prezzi, dei canoni, dei contratti di locazione, delle esecuzioni di rilascio – durano da sempre (sono attestati già nel diritto etrusco) e, per quanto si riferisce alle esecuzioni, sono durati in Italia sino ai giorni nostri (solo da poco non è in vigore – non si sa per quanto – alcun provvedimento di blocco in campo locatizio).

In epoca moderna, la sequela vincolistica nacque col blocco delle pigioni concesso il 29 aprile 1549 (in vista di un possibile aumento delle stesse con l’Anno santo dell’anno successivo) da Paolo III Farnese e disposto in pari data con un provvedimento firmato dal cardinale camerlengo, e famigliare del Papa, Ascanio Sforza di Santa Fiora[1]. Da allora in poi, l’armamentario della legislazione “vincolatrice” è andato (specie nel ‘700, a Napoli e a Firenze, ma anche in Piemonte) vieppiù arricchendosi, così che quando – in occasione della guerra 15-18 – si volle fare qualcosa per tutelare l’inquilinato in agitazione, ci si illuse di disporre formule vincolistiche inedite, ma ci si accorse ben presto di non aver fatto nulla di nuovo. Ed anche i risultati furono, come sempre, effimeri ed illusori perché le “vie brevi” non hanno mai risolto davvero alcun problema, ed è già molto che non aggravino la situazione che è stata presa a pretesto per giustificarle. Le esperienze del passato, poi, “ad onta del dettato che «historia est magistra vitae», non servono a niente”, come disse Luigi Einaudi in una delle sette lezioni che, fra il 26 aprile e il 2 luglio 1920, tenne sul problema delle abitazioni all’Università Bocconi[2] e nelle quali ampiamente commentò i provvedimenti di politica abitativa emessi in quel periodo, anche dal suo privilegiato punto di vista di presidente della Commissione istituita nel 1919 dal Guardasigilli Lodovico Mortara (Governo Nitti I) per lo studio delle possibili soluzioni da proporre al fine di risolvere la crisi alloggiativa allora in atto. La Commissione era composta – oltre che da Einaudi – dai rappresentanti della Confedilizia, degli inquilini e dei combattenti.

I primi problemi abitativi, dunque, si manifestarono – annotò Einaudi, al quale ci rifacciamo – con la stessa dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915: molte classi furono richiamate sotto le armi; coi capifamiglia in guerra, molti inquilini non furono più in grado di pagare il fitto; i più si restringevano in meno stanze e mandavano i figli a vivere con parenti; tutti, chiedevano di essere liberati dall’obbligo di corrispondere il canone. Il Governo intervenne il 3 giugno – a pochi giorni, dunque, dall’entrata in Guerra – con un primo decreto, concedendo agli inquilini di pagare il canone (anticipatamente) mese per mese anziché per più lunghi periodi consuetudinari: ma gli effetti furono minimi. Un secondo decreto venne allora varato il 22 agosto dello stesso anno: dava facoltà agli inquilini di richiedere, in certe condizioni, la risoluzione del contratto di locazione e, ai richiamati, di pagare solo la metà dei fitti, e questo sino a 6 mesi dopo la cessazione del servizio militare, fermo l’obbligo di corrispondere la metà non pagata entro 2 anni, sempre dalla cessazione del servizio militare. Da questo (inusitato, per i tempi) provvedimento derivò peraltro una crisi edilizia di grandi proporzioni, con una caduta dei prezzi degli appartamenti che impoverì i piccoli proprietari in ispecie e, conseguentemente, con un pericoloso crollo dei consumi, che colpì numerose categorie, specie del settore commerciale. Solo a metà circa del 1916 la situazione cominciò a ritornare alla normalità: le industrie di guerra, sorte nelle grandi città, attraevano dalle campagne molti contadini (ben contenti di trasformarsi in operai per non andare al fronte), con una conseguente ricerca di alloggi che ripristinò – a metà del ’17 – il mercato edilizio, riportandolo in equilibrio. Equilibrio che nell’ottobre di quell’anno venne peraltro nuovamente rotto dal “fatto disastroso” (Einaudi) di Caporetto: il grandissimo numero di profughi dalle province venete[3] provocò (“specialmente nelle città dell’Alta Italia, ma anche a Firenze, a Roma e persino in Sicilia”) una notevolissima crescita della domanda in un momento nel quale, per il ristabilito equilibrio, non v’erano case vuote; contemporaneamente, anche le industrie belliche aumentarono i ritmi di lavoro per corrispondere alla necessità di combattere e fermare l’invasore, con nuova correlata affluenza di contadini nelle città. Le lagnanze degli inquilini imposero, alla fine del 1917, l’adozione di una serie di provvedimenti e, in particolare, l’emanazione – il 30 novembre di quell’anno – di un decreto che, riprendendo i “fasti” vincolistici dei tempi andati, venne congegnato come una proroga di tutti i contratti di locazione in corso (conchè, naturalmente, gli inquilini corrispondessero il canone dovuto) fino a 2 mesi “dopo la fine della guerra”, a meno che il locatore “volesse andare a stare o intendesse abitare personalmente la casa sua”. Ovviamente, quest’ultima, letterale dizione di legge (anche dopo tentativi di migliorarla, del tutto equivoca, come si dirà) provocò la naturale conseguenza che “molti proprietari furono immediatamente presi dalla voglia irrefrenabile di andare a stare a casa propria” (Einaudi), perché era questo il mezzo più semplice per ottenere la disponibilità degli alloggi e poterli poi negoziare a canoni di mercato. Un successivo decreto del 30 dicembre modificò allora la ricordata dizione nel senso che il locatore potesse andare ad abitare in caso propria solo quando ne avesse la “necessità” (davvero difficile da dimostrare, addicendosi quella ragione – in buona sostanza – solo ai senzatetto). Si stabiliva altresì – sempre secondo un non inedito armamentario vincolistico – il divieto di aumento dei canoni, e questo anche in caso di cambio di inquilino ed a meno che nell’alloggio non fossero stati fatti lavori tali da poter far considerare la casa interessata una “nuova casa” (le istituite, apposite Commissioni arbitrali potevano allora concedere un aumento del fitto). I vincoli non furono estesi a tutti indistintamente gli inquilini, ma si stabilì comunque una misura di riferimento dei canoni tale che la grandissima maggioranza dei contratti fu a quei vincoli soggetta. Di qui, però, il grave peggioramento della condizione dei nuovi inquilini o di quelli che si apprestavano a diventare tali. Fu dunque necessario che il legislatore intervenisse nuovamente e con un decreto del 27 marzo 1919 si stabilì che la proroga dei contratti non durasse più fino a due mesi “dopo la conclusione della pace”, ma sino al 31 luglio 1921 (in pratica, una proroga di due anni). In compenso i proprietari, e fino a 2 mesi dopo “la pace”, avrebbero potuto chiedere alle Commissioni arbitrali un aumento dei canoni in una misura massima del 20 per cento (essendo la misura minima fissata nel 10 per cento). “Ma – scrive Einaudi – quando un decreto è stato stabilito per un certo ordine di fatti è molto facile farne emanare altri per estendere il campo della sua applicazione; non c’è da fare altro che iniziare una piccola agitazione, fare qualche dimostrazione, far inviare qualche telegramma dai prefetti al ministero dell’interno per dimostrare che se non si procede alla emanazione del nuovo decreto la tranquillità pubblica è perturbata”. Così – dopo l’uso abitativo – si intervenne anche sull’uso diverso: un decreto del 24 aprile 1919 (successivo, dunque, neanche di un mese a quello, già ricordato, relativo alle case di abitazione) stabilì che i fitti, alla scadenza contrattuale, non si sarebbero potuti aumentare di più del 25 per cento. E siccome questo (superficiale) provvedimento portò con sé solo il fatto che alle scadenze i conduttori (negozianti, professionisti e così via) fossero “licenziati”, si dovette subito intervenire per riparare i guai procurati con la sciocchezza fatta. E con un decreto del 18 agosto dello stesso anno si stabilì allora – per rendere effettiva la prescrizione del 25 per cento – che anche questi contratti (come quelli abitativi) fossero tutti prorogati sino al 31 luglio 1921, divenendo così quest’ultima una “data fatidica” per le locazioni.

Questo provvedimento – e quello, in particolare, sui fitti arretrati del 15 agosto 1919[4] – unito alla svalutazione monetaria indotta dall’aumento della circolazione dei biglietti delle lire (addirittura, da 4 a 18 miliardi, calcolò Einaudi) e quindi alla continua perdita di valore dei vecchi canoni, provocò uno sconquasso. Nel settore abitativo, poi, il blocco contemporaneo dei contratti e dei canoni e, in particolare, il diritto dei nuovi inquilini di occupare alloggi ai canoni antichi (e una situazione analoga si creò anche negli affitti agricoli, per i quali si stabilì per legge che non potessero aumentare di più del 20 per cento), diede luogo a una domanda fittizia di alloggi, non essendovi ragione alcuna che – con quelle prescrizioni – si occupassero alloggi di due o tre stanze invece che di 6 o 7. Con l’aggiunta, oltretutto, che i nuovi inquilini avevano, sì, il diritto di pagare lo stesso canone dell’inquilino precedente, ma non avevano il diritto di ottenere in affitto l’alloggio che si era liberato. Sì che fu giocoforza, per loro, offrire “mance” (tali le definisce Einaudi) ai vecchi inquilini perché se ne andassero nonostante godessero di ampi spazi (ben superiori, generalmente, alle loro necessità), ai mediatori (che soli avevano contezza degli alloggi già liberi o che si sarebbero liberati), agli stessi proprietari per essere preferiti: di fatto, le “mance” fecero sì che i canoni di questo mercato clandestino eguagliassero quelli di mercato, con danno peraltro in termini di imposte per lo Stato e con una fissità dei vecchi inquilini che mise in grosse difficoltà la mobilità sul territorio delle forze del lavoro in genere e degli impiegati, in particolare, della Pubblica Amministrazione (allora soggetti, com’è noto, a trasferimenti più frequenti che non oggi, tant’è che il Codice civile nel ’42 previde – e tuttora prevede – particolari guarentigie per le loro locazioni). Insomma, gli effetti deleteri che, nella storia, avevano sempre accompagnato i provvedimenti vincolistici, si ripeterono pari pari durante la Guerra ’15-’18 ed anche nel dopoguerra. Si ebbe, in particolare, un accentuato trapasso forzato dal sistema dei fitti a quello della proprietà (che creò anch’esso problemi – come immancabilmente sarebbe poi avvenuto anche sessant’anni dopo, con il cd. equo canone): si provocò un aumento – inoltre – del costo di costruzione delle case nuove, uno squilibrio fra fitti liberi e fitti vincolati con correlativo impedimento a costruire, e così via. Tutti aspetti che Einaudi enunciò, e documentò, nelle accennate lezioni alla Bocconi, in altrettanti – per così dire – distinti “capitoletti”.

Il Guardasigilli Mortara così, con un suo decreto del 13 dicembre 1919, creò la Commissione di studio presieduta da Einaudi e di cui s’è già detto. Il 26 dicembre, poi, sempre Mortara scrisse una lettera alla presidenza del Consiglio per esporre il proprio orientamento sulla futura legislazione degli affitti (che Einaudi, alla Bocconi, descrisse come il primo atto di governo che riprendesse argomenti e considerazioni che gli economisti avevano già esposti fin da quando – scoppiata la guerra – “si era annunziata e poi applicata la nuova legislazione vincolatrice”).

Nella sua lettera il Guardasigilli scriveva anzitutto: “Penso che la crisi degli alloggi non sia per giungere a soluzione con quella sollecitudine e rapidità che è nei desideri di tutti. Troppi elementi comuni e d’ordine generale la collegano e la fanno dipendere dallo stato di perturbamento conseguente alla guerra, perché possa sperarsene subito una felice definizione, isolatamente dalle altre questioni economico-sociali”. Poi, dopo aver criticato i “provvedimenti d’impero” adottati in passato, Mortara diceva con chiarezza di ritenere che “ogni altro provvedimento (che fosse) oggidì imposto per ragioni politiche e diretto a limitare ancor più la libertà delle contrattazioni” avrebbe forse potuto avere “un effimero successo di palliativo, ma sarebbe (stato) ben lontano dall’avviare pure soltanto la crisi verso l’auspicata soluzione”, mentre però avrebbe vieppiù deviato “il fenomeno economico dal suo naturale corso”. Il Guardasigilli così proseguiva: “Nell’attuale stato legislativo credo ben difficile poter procedere ad ulteriori limitazioni, e restrizioni, del diritto dei proprietari d’immobili od a modificazione, in favore degli inquilini, dei patti contrattualmente convenuti e prorogati. Dal punto di vista giuridico e nell’ambito dei principii che regolano la proprietà ed il diritto delle obbligazioni, nulla più si potrebbe fare senza vulnerare i principii stessi e senza che si imponesse la corrispettiva necessità dell’intervento economico riparatore o compensativo dello Stato medesimo. Superare il limite imposto dalle fondamentali leggi vigenti o modificare l’ordine sociale esistente, imponendo, come da taluni si chiede, il razionamento degli alloggi, ed il conseguente obbligo del subaffitto pei locali superflui, presuppongono decisioni di politica sociale ed economica di così grande entità e di tanto vasta ripercussione da non poter essere prese a cuor leggero e, quasi incidentalmente, per provvedere soltanto a contingenti necessità ed in casi specifici”. E ancora, sempre il Guardasigilli: “D’altra parte non so, e dubito ancora assai, se l’entità numerica delle famiglie e delle persone che si pretendono «senza tetto» sia tanto elevata come vorrebbe farsi credere. Da qualche notizia che ho potuto ottenere dai prefetti, ho ragione per credere che siasi molto esagerato e che le agitazioni mosse in qualche luogo fossero più rumorose che temibili per la quantità dei veri interessati e danneggiati. E così pure ho motivo di dubitare che le sospensioni degli sfratti, da qualche prefetto decretate, s’imponessero inderogabilmente per tutelare l’ordine pubblico minacciato o non siano state piuttosto la conseguenza di preoccupazioni sproporzionate alla realtà del pericolo e di intimidazioni di minoranze audaci e faziose che hanno trovato troppo facile e condiscendente accoglienza in chi avrebbe potuto, con maggiore energia e con l’uso della propria autorità, contenerle. In ogni modo attualmente nelle agitazioni che si vanno inscenando un po’ dappertutto vi è uno scopo ed un movente politico che vuole sfruttare uno dei più sensibili disagi della generale crisi economica che attraversiamo, per provocare, anche con espedienti retorici e sentimentali, un turbamento profondo dell’ordine sociale per giungere, magari, in questo campo ad esperimenti comunistici di facile attuazione, se pure gravi di irreparabili conseguenze”. Poi, la conclusione di Mortara: “E’ per tutte queste ragioni, lungamente considerate e frutto di attenta osservazione, che io sono convinto non potersi altrimenti avviare a soluzione durevole la crisi degli alloggi se non riaffermando la volontà del Governo di tornare allo stato normale della libertà delle contrattazioni, sia pure attraverso a doverosi temperamenti ed a disposizioni transitorie che consentano di giungervi senza troppo gravi scosse. Nel libero gioco della domanda e dell’offerta si troverà naturalmente il giusto equilibrio”. Tutto questo, non senza aver sottolineato: “Se l’esperienza di tutti i tempi dimostra che è vano, se non pure esiziale, cercare di contenere e modificare artificiosamente i fenomeni economici con disposizioni di imperio, è anche certissimo, nel caso specifico, che nessuno dei provvedimenti legislativi semplicisticamente invocati come sicura panacea, verrà ad aumentare d’un solo vano le case destinate attualmente ad alloggio”. Einaudi sottolineò dal canto suo che la crisi generale era pagata dai proprietari di casa con “un’imposta speciale” a solo loro carico, che la ricordata data (“fatidica”, come già detto) del 31 luglio 1921 incombeva, che la “perfezione assoluta è impossibile e bisogna scegliere il minimo di errori”, che mancava oramai “la necessità di guerra di mantenere quella forma di imposta di classe che è il vincolo ai fitti”, che era opportuno “condonare” agli inquilini il residuo non pagato, che bisognava – comunque – ritornare gradualmente alla libertà delle contrattazioni, che bisognava a questo fine far leva sui “privilegi” tributari (sulle agevolazioni fiscali, cioè).

Sulla base di queste idee (che erano poi anche quelle, come visto, del ministro della Giustizia, al quale era allora, e a differenza di oggi, giustamente demandata la responsabilità di adottare questi provvedimenti influenti sul diritto privato), Einaudi – in quel periodo, senatore – si mise al lavoro, con la ricordata Commissione da lui presieduta istituita alla fine del 1919. La maggioranza della Commissione predispose una bozza di decreto regio nella quale – a parte norme transitorie e fiscali, ed anche urbanistiche, nelle quali sarebbe lungo e difficile entrare, e comunque che qua non rilevano – le unità immobiliari ad uso abitativo venivano divise in 4 categorie, sostanzialmente a seconda dell’importanza della città e dei canoni dovuti. Per gli alloggi di prima categoria (a canone più costoso, cioè, e quindi con gli inquilini più agiati) tutte le disposizioni eccezionali emanate sarebbero venute a cessare coll’1 luglio 1921; così pure tutte le disposizioni vincolatrici riguardanti l’uso diverso (sulla base della elementare considerazione che, in questa tipologia di contratti, si scontrano interessi di uguale dignità e non sono in ballo esigenze di tipo sociale, come per l’abitativo). Per le unità immobiliari di seconda categoria, la vigente proroga dei contratti fino al 31 luglio 1921 veniva portata al 1° luglio 1922, con possibilità per i locatori di chiedere un aumento fino al 25 per cento del canone dovuto alla data del 31 dicembre 1919. Stessa cosa per gli immobili della terza categoria, con riduzione peraltro al 15 per cento del possibile aumento del canone. Per la quarta categoria, dilazione dei contratti al 1° gennaio 1924 ed ulteriore riduzione (al 10 per cento) della possibilità di aumento del canone. La proroga non avrebbe operato in caso di provata “necessità” del proprietario di occupare l’immobile affittato. Le Commissioni arbitrali venivano abolite, salvo che per le controversie già al loro esame.

La minoranza della Commissione, dal canto suo, seguì sostanzialmente – nella propria bozza di provvedimento – lo schema di base di quello della maggioranza, peraltro cambiando alcune date di proroga e di reddito degli inquilini nell’ottica proprietaria.

Il Governo Luzzatti varò quello che fu poi il Regio Decreto legge 18.4.1920, nel quale vennero trasfusi elementi sia del testo predisposto dalla maggioranza che di quello della minoranza.

Il decreto in questione (che venne convertito in legge con legge – Governo Mussolini – 17.4.1925 n. 473 “a seguito di approvazione complessiva di decreti Luogotenenziali e Regi aventi per oggetto argomenti diversi” - G.U. 5.5.1925) mantenne sostanzialmente l’impianto del testo di maggioranza della Commissione Einaudi, confermò nell’1 luglio 1921 la cessazione (sia per l’uso abitativo che per l’uso diverso) della vigenza delle leggi eccezionali, così come confermò al 1° luglio 1922 la proroga dei contratti, portò al 40 per cento la possibilità di aumento dei canoni per gli inquilini più abbienti, innalzò anche la percentuale di possibile aumento dei canoni delle altre categorie di inquilini, specificò che erano prorogati al 1° luglio 1923 i contratti degli inquilini con pigione inferiore a quella delle categorie considerate in precedenza. Il Decreto disciplinò, ancora, la proroga dei contratti ad uso diverso (fino, al massimo, al 31 ottobre 1920); confermò la cessazione delle Commissioni arbitrali; disciplinò in modo assai preciso le modalità ed i termini, per gli inquilini, per godere dei benefici stabiliti a loro favore e, per i proprietari di casa, per chiedere la disponibilità degli alloggi per “necessità” di abitarvi. Sempre il Governo, eliminò ogni riferimento “alla conclusione della pace” (con relativi effetti conseguenti), aderendo a quanto Einaudi aveva sostenuto a proposito dell’equivocità di questo riferimento.

Vinsero ancora le proroghe, in sostanza. Ma non furono le ultime, anche se ad un certo punto – nel secondo dopoguerra del secolo scorso – si finse di cambiare per non cambiare (gattopardescamente) nulla: si prorogarono infatti solo “gli sfratti” (e non più i contratti). Anche quest’ultimo tipo di vincolismo è comunque cessato – come già abbiamo detto – e nulla è successo, nonostante quanto demagogicamente si sostenesse alla vigilia dello sblocco totale delle esecuzioni e ciò, perlomeno, ufficialmente, e salvo il meccanismo – opaco – della non concessione della Forza pubblica. Un meccanismo concepibile solo in uno Stato disordinato, non governato dalla legge ma da provvedimenti amministrativi di autorità varie fra loro in concorrenza, paradossalmente, nell’eludere la normativa, e da provvedimenti – ancora – in gran parte discrezionali, non sanzionabili tempestivamente dalla Giustizia amministrativa. Non solo Einaudi, ma neanche tutti gli artefici delle disposizioni vincolistiche dei secoli precedenti, avevano potuto immaginare che si sarebbe arrivati a tanto.



[1] cfr. In favorem inquilinorum, testo di Elena Giusta, prefazione di Corrado Sforza Fogliani, Confedilizia ed., 2000. In merito cfr., anche, Corrado Sforza Fogliani, Decreti vincolistici dello Stato pontificio in materia di locazioni e istituti della legge del 1978 sull’equo canone, in Arch. loc. e cond. 2002, 7. Fondamentale, in argomento ed anche per un completo excursus storico, lo studio di Giuseppe Prato Le fonti storiche della legislazione economica di guerra. Il calmiere delle pigioni, in Riforma sociale, 1918, maggio-giugno. Per quanto attiene al diritto etrusco cfr. Giulio M. Facchetti, Frammenti di diritto privato etrusco, Leo O. Olschki ed., 2000.

[2] cfr. Luigi Einaudi, Il problema delle abitazioni, Treves ed., 1920 (ristampa anastatica Confedilizia ed., 2001). Interventi di Einaudi in Senato relativi a problemi abitativi (quelli del 15, 17, 18, 19, 21, 22, 23, 24 e 26 febbraio 1921 e quelli del 16 febbraio, 18 marzo e 16 maggio del 1922) sono riportati in: Luigi Einaudi, Libertà economiche (vol. I), a cura di Marco Bertoncini e Aldo G. Ricci, Postfazioni di Roberto Einaudi e Corrado Sforza Fogliani, Libro Aperto ed., 2015.

[3] “Il 1917 fu per l’Italia l’anno più disgraziato. Duemila aziende, grandi e piccole, erano mobilitate per le forniture militari. Lucio Fabi, nel suo Gente di trincea, parla di 10 milioni di cappotti, 6 di mantelline, 42 di scarpe, di 320.000 cucine da campo, 37.000 biciclette, 115.000 telefoni, 140 milioni di scatole di carne bovina, pari a metà del patrimonio zootecnico italiano all’ingresso in guerra. Duecentomila donne, quasi tutte delle regioni più industrializzate del Nord, furono assunte nelle fabbriche di armi e munizioni, spesso limitando a pochi giorni l’assenza dal lavoro subito prima e dopo il parto” (B. Vespa, Italiani volta gabbana, ed. Mondadori, 2014). “Se dalla storia ci si sposta alla geografia e si prende in mano una cartina, ci si rende conto meglio di cosa ha significato la sconfitta di Caporetto. Dall’Isonzo al Piave ci sono circa 120 chilometri in linea d’aria. In mezzo c’è tutto il Friuli e buona parte del Veneto, che rimasero per un anno sotto occupazione. E’ dalla storia (pochissimo raccontata) di quell’anno che bisogna cominciare… La questione dei profughi veneto-friulani, per esempio. L’invasione nemica determinò la fuga, lo sfollamento o lo sgombero di più di 600 mila civili, costretti a vivere sino alla fine della guerra, e oltre, lontani da quella casa che molti, al ritorno, neanche ritrovarono. I più fortunati, in genere appartenenti ai ceti abbienti, trovarono ospitalità al Nord, mentre a migliaia furono smistati nel Centro-Sud, anche nelle isole, dove dovettero affrontare condizioni di vita durissime. Per capire che cosa entrava in gioco dietro le belle parole della solidarietà nazionale, basta ricordare che a Montecatini ai bambini, quando facevano i capricci, si diceva: “Stai zitto, se no ti faccio mangiare da un profugo!”. E poi c’erano i “profughi interni”, decine di migliaia di residenti lungo il corso del Piave (e quindi in prima linea) evacuati su ordine del Comando Germanico e spediti nei comuni più a Est” (D. Ferrario e G. Mastrocco, La sindrome Caporetto, La lettura-Corsera 9.8.’15).

[4] Il R.D. 15.8.1919 stabilì che l’inquilino capofamiglia che avesse prestato servizio militare aveva la facoltà di corrispondere soltanto una metà dei fitti per l’alloggio abitato fino a sei mesi dopo la cessazione del servizio militare. Il debito, per la metà non pagata, avrebbe poi dovuto essere estinto in rate mensili, non superiori ad un ventiquattresimo della somma totale, durante un periodo di due anni dalla scadenza dei sei mesi successivi alla cessazione del servizio militare. L’inquilino stesso avrebbe avuto diritto, anche quando si fosse giovato della concessione indicata, a non vedersi aumentata la pigione corrisposta durante il periodo utile alla estinzione del debito di arretrati. In seguito a queste disposizioni, una varietà grandissima di casi si verificò peraltro nella pratica. Alcune volte proprietari ed inquilini richiamati si accordarono per ridurre senz’altro il fitto ad una quota superiore alla metà ed inferiore al totale, rinunciando il proprietario al diritto di riscuotere in avvenire la parte condonata. In alcuni casi, invece, in cui gli inquilini si giovarono della facoltà di ritardo, al loro ritorno alla vita civile si iniziò regolarmente il rimborso degli arretrati. In altri casi ancora, questo rimborso stentò ad effettuarsi. Qua e là sorsero agitazioni di inquilini smobilitati allo scopo di ottenere il condono definitivo della parte di fitto non pagata, agitazioni che trovarono un’accoglienza svariata nella classe dei proprietari di case. “Si osservò – scrive Einaudi – che la beneficenza ad una categoria sociale, pur meritevole, non si fa con denari di un’altra classe sociale all’uopo obbligatoriamente e singolarmente designata. Sovvenire ai bisogni degli inquilini richiamati e smobilitati può essere socialmente utile, ma non ne discende logicamente la conseguenza che quest’opera di beneficenza sociale debba essere fatta dai singoli proprietari in misura diversissima tra loro, cosicché accadde frequentemente che i proprietari più ricchi non fossero chiamati a prestare nulla ed i proprietari più poveri, e qualche volta bisognosi e gravati d’ipoteche, fossero chiamati a gravi sacrifici”.

La collana Biblioteca di “Nuova Storia Contemporanea”, diretta da Francesco Perfetti per Le Lettere, continua ad arricchirsi di testi che scavano settori a volte scarsamente conosciuti della storia novecentesca, italiana e no.

Vincenzo Pinto, storico del nazionalismo ebraico, nel volume In nome della patria (pp. 198, € 16,50) approfondisce un aspetto della destra politica del Novecento poco studiato, forse esorcizzato: l’essere stata pure un fenomeno ebraico. Infatti abbondano gli ebrei che seguirono indirizzi politici, espressero simpatie, militarono in partiti di destra, talora schierandosi a favore del sionismo (come Jabotinsky o Klausner), talaltra collocandosi su posizioni della diaspora (come Ovazza o Schoeps). Va inoltre rilevato come le comunità ebraiche europee siano state, nell’arco del secolo, culturalmente più vicine alla destra che non alla sinistra politica; e questo, nonostante le persecuzioni subite. Il libro intende rispondere a domande quali se siano calcoli opportunistici di una minoranza integrata oppure discorsi di natura spirituale e religiosa, se la conformazione medesima della destra novecentesca abbia favorito la vittoria della destra ebraica.

Incentrato sulla storia nazionale, invece, è un altro testo, La Grande Guerra e l'identità nazionale (pp. 248, € 16,50), curato da Francesco Perfetti, al quale si deve la breve ma sintetica prefazione, che individua le ragioni civili, politiche, sociali del conflitto in Italia. La Grande Guerra comportò per i Paesi coinvolti effetti duraturi e talora dirompenti. Per l’Italia, in particolare, rappresentò la conclusione del processo risorgimentale e contribuì a rafforzare, forse perfino a creare, il sentimento dell’identità nazionale. Essa gettò le premesse per l’ingresso delle masse nella vita politica del paese, determinò il passaggio da una società ancora rurale a una società industriale, favorì le migrazioni interne dalla campagna verso le città e i processi di mobilitazione sociale. Ma soprattutto segnò il trapasso dall’età dello Stato liberale a una stagione che ne avrebbe visto la fine, segnando il trionfo dell’autoritarismo. Nel volume collettaneo si analizza comparativamente il ruolo dei parlamenti e dei governi durante la Grande Guerra; si studia l’immagine del soldato e del militarismo; sono prese in considerazione le grandi famiglie politiche (nazionalisti, liberali, cattolici, socialisti, sindacalisti rivoluzioni) di fronte a un evento di proporzioni mai viste prima quanto a durata nel tempo, estensione nello spazio, coinvolgimento delle risorse umane e materiali, sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica per finalità belliche. I saggi sono di Lorenzo Benadusi, Silvia Capuani, Maurizio Cau, Andrea Guiso, Francesco Perfetti, Andrea Ungari, Christine Vodovar.

L’America a destra è il titolo dello studio di Luca Tedesco (pp. 104, € 16). Il volume illustra varie anime dell'antiamericanismo italiano nel campo del neofascismo. Alle origini prevalgono l’intonazione nazional-patriottica e il rifiuto sdegnato del trattato di pace del ’47. Negli anni Sessanta e Settanta, il fascismo storico è indicato come modello di nazionalismo «popolare» e «rivoluzionario» cui le ex colonie europee avrebbero dovuto ispirarsi per sfuggire ai contrapposti imperialismi americano e sovietico. La nuova destra, invece, inserì l'antiamericanismo in un più ampio discorso culturale antioccidentalista e antiuniversalista. La corrente giovanile vicina a Pino Rauti negli anni Ottanta, impegnata a contendere alla sinistra i consensi nel mondo giovanile, si distinse nel delegittimare l’antiamericanismo del Pci, accusato di partecipare dello stesso humus culturale materialista d'oltreoceano. Dopo l'imprevista adesione di Rauti all'intervento internazionale contro l'Iraq, la bandiera dell’antiamericanismo, legata a un discorso nazional-identitario, sarebbe divenuta appannaggio di cerchie e correnti politico-culturali ancor più ristrette.

Sempre a Francesco Perfetti si deve l’introduzione alla riproposta maggiore opera di Mario Missiroli, La monarchia socialista, che esce da Le Lettere, ma nella collana Il filo della memoria. L’autore chiariva, nella premessa alla prima edizione (1913), l’intendimento di «di ridurre ad un unico problema – quello religioso – la storia d’Italia dal Quarantotto ai nostri giorni». Da qui, Missiroli procedeva a una revisione del Risorgimento, facendo affiorare i limiti dell’opera degli “eroi” che l’avevano portato a compimento. Se Mazzini era il rappresentante di una posizione utopica del tutto estranea al pensiero idealistico del XIX secolo, incapace di mediare tra individuo e società nella dimensione della storia, la formula che il conte di Cavour aveva imposta per risolvere il problema religioso («libera Chiesa in libero Stato») aveva di fatto limitato l’aspetto eminentemente etico della vita alla sfera privata. Il principio della separazione tra lo Stato e la Chiesa era per Missiroli una «soluzione da politicante», essendo lo Stato tollerante uno «Stato senza Dio, senza coscienza e senza principi». Cavour, scriveva Missiroli, «non sospetta nemmeno che tutto il pensiero moderno, che conclude nel liberalismo, è essenzialmente religioso nella sua stessa razionalità, fino a pretendere di essere il solo pensiero veramente religioso», il solo in cui lo Stato sia inteso come entità e in cui l’individuo si affermi come persona e come cittadino insieme. Il problema del Risorgimento rimaneva quello di essere stato un mero movimento politico, non animato dalla moderna religiosità. Il Risorgimento italiano restò estraneo alla filosofia idealistica tedesca, ovvero al pensiero del «nuovo Risorgimento europeo», il solo che avesse saputo concepire lo Stato come «unità suprema e forma più alta della vita umana». L’opera conobbe un vasto successo, nonostante, o forse per, le molte contraddizioni.

 

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Continuiamo il nostro sguardo sul percorso culturale filosofico e sociale dell’uomo occidentale che si rende autonomo da Dio, dimenticandosi del peccato originalee del cristianesimo. Naturalmente continuo a utilizzare l’ottimo testo ben scritto, perché sintetico, del professore Giovanni Fighera, “Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi?”, edizioni Ares (2012). Ilvolumetto riesce a concentrare in poche pagine (227) la complessità e la vastità degli argomenti affrontati, non credo di esagerarema potrebbe essere utilizzato come lettura critica nei licei italiani.

L’illuminista francese all’attacco della tradizione

Il Settecento è il secolo dei grandi cambiamenti, delle trasformazioni, della smisurata fiducia nella scienza, nella tecnica, e nel progresso. Fighera sceglie alcuni aspetti dell’illuminismo francese che riguarda l’aspetto dell’uomo ha di sé. E’ impossibile sintetizzare la complessità delle “sollecitazioni filosofiche e culturali che hanno, poi, influenzato in maniera determinante i secoli successivi”.

L’illuminista francese, “vede nel passato e nella tradizione il nemico principale da sgominare con tutte le sue superstizioni e i suoi falsi credo in nome di una nuova epoca, fondata su un nuovo umanesimo o, se vogliamo, su una nuova umanità”. Attacca e contesta apertamente il cristianesimo, il cattolicesimo e la Chiesa.Con un atteggiamento prometeico, l’illuminista, attraverso la ragione, il nuovo fuoco, “si contrappone al cielo, di cui pensa ormai di poter fare a meno”, cerca di costruire un nuovo mondo, diventando cittadino del mondo. “L’uomo, finalmente liberato dalle catene di una tradizione effimera e menzognera, realizzerà la società nuova, - scrive Fighera - una umanità felice e perfetta”.

Questa mentalità poi arriverà alla fine del secolo alla disastrosa e violenta Rivoluzione francese che imporrà con la violenza un nuovo ordine. Tuttavia, con “la dimenticanza del peccato originale porta alla convinzione che si possa costruire una società perfetta con la ragione e il progresso o con l’esaltazione della buona natura umana”. Tutto questo è evidente in Rousseau, nell’Emilio, dove il filosofo francese considera “buona la natura umana attribuendo la colpa del male allo sviluppo umano, al progresso e alla società”.

I filosofi illuministi per il professore, predicanol’”astrattezza, non la concretezza della realtà in tutta la sua fragilità, i buoni sentimenti e i valori, non la compagnia pur peccatrice della Chiesa…”.In pratica, l’umanità senza la persona, i valori senza Cristo. Attenzione, raccomanda il professore Fighera, occorre sfatare i tanti luoghi comuni che circolano sui libri di scuola o sui tanti saggi che tendono a presentare l’illuminismo come “una fucina, un laboratorio dei valori più importanti della Modernità”.

Fighera prende in esame la tolleranza, di cui si fece interprete il settecento rispetto al bieco Medioevo, intollerante e oscurantista. Il corifeo della tolleranza sarebbe Voltaire, ma è falso. Per Voltaire, il più grande servizio che si possa rendere all’umanità, è quello di “schiacciare l’infame”, cioè il cristianesimo, la Chiesa cattolica. E’ noto come il terrore giacobino ha massacrato i cristiani vandeani, compiendo il primo genocidio della Storia, che resistevano al “paradiso” della rivoluzione parigina.

Prima di arrivare all’epoca delle ideologie Fighera prende in esame il periodo romantico e la solitudine del cosiddetto eroe romantico. Viene tratteggiata l’immagine tipica della religiosità dell’eroe romantico, in Jacopo Ortis,“il ribelle e raffinato, sensibile ed elitario”,di Ugo Foscolo. E poi prosegue nella descrizione delWerther, e il Faust di Wolfgang Goethe, tra disperazione, suicidi e solitudine dei protagonisti. Una sorta di titanismo e di vittimismo nello stesso tempo.

L’uomo all’epoca delle ideologie.

L’ideologia, è un’accezione negativa, si tratta di un sistema di pensiero pregiudiziale, senza fondamento di verifica nella realtà. Forse, per descrivere meglio l’ideologia si può portarecome esempio Procuste, quel personaggio della mitologia greca, che usava appostarsi, “lungo la via sacra tra Eleusi e Atene per tendere imboscate ai viandanti, una volta catturati li stendeva sopra un letto di pietra e ne straziava le carni amputando le parti del corpo eccedenti la dimensione del letto o smembrando i malcapitati nel tentativo di fargli coprire tutta la lunghezza del piano”.

Era evidentemente il tentativo utopico di rendere tutti uguali, un’ illusione perseguita nella storia da tanti novelli Procuste, con esiti non meno macabri di quelli del racconto mitologico.Si pensi, ad esempio, ai totalitarismi del XX secolo e ai loro epigoni ancora presenti nel mondo.Ma si pensi anche a quanti, magari con metodi meno cruenti dei regimi totalitari, ancora pretenderebbero di stendere tutti sul letto di Procuste.

La madre di tutte le ideologie è la Rivoluzione francese che inizialmente voleva riformare la società, ma in seguito, ha prodotto centinaia e migliaia di morti, una violenza inaudita nei confronti della tradizione cattolica francese con l’eliminazione della libertà di culto e di pensiero. Infatti per Fighera a proposito delle ideologie scrive: “Pur essendo, in parte, espressione di un desiderio buono, quello di realizzare la giustizia già in questa Terra, di trovare una salvezza di fronte all’esperienza del limite della nostra società e del sistema, le ideologie nella storia hanno mostrato l’inanità dello sforzo umano di poter costruire un mondo migliore senza Dio ricorrendo sempre alla violenza e alla sopraffazione”.

L’utopia marxista

Allora,appare evidente questa inconsistenza nell’ideologia marxista, che diventerà modello politico imperante in molti Stati del mondo assumendo denominazioni diverse, ma con una costante: abolizione della libertà e l’imposizione con la forza e la violenza di un modello nuovo in cui la persona non conta più”. Peraltro, l’ideologia marxista, in Occidente, non tramonterà neanche quando vennero alla luce i milioni di morti di cui si era macchiato Stalin in Urss e Mao TseTung in Cina. Infatti per molti sognatori il vero comunismo non era ancora stato realizzato storicamente.

Ma l’uomo contemporanea ha a che fare con altre ideologie, forse più subdole, come il relativismo, l’ecologismo, il progressismo, che “auspica un nuovo mondo fondato sui presunti valori e diritti universali, che sono, in realtà, espressione di mode del tempo e di gruppi di potere”. Si tende a costruire una umanità nuova, basata su una libertà moderna, sull’autonomia da norme morali cristiane, sul permissivismo, sulla creazione di nuove leggi morali, - in pratica secondo Fighera- è un ritorno al passato, pur presentandosi come il futuro più auspicabile. Nomi diversi nascondono velleità libertarie antiche, sempre esistite nella storia”.

Per esempio, l’ecologismo:“esaltando la natura fino all’idolatria e colpevolizzando l’uomo, nasconde, in realtà, antichi culti pagani e la supremazia di chi è più ricco e possiede già”. Mentre il relativismo, tradotto in ideologia, intende colpire ed eliminare dal sistema tutti coloro che si fanno ancora portavoce dell’esistenza di una verità, anche perché tutte le verità sono uguali.

Possiamo salvare ancora l’uomo? Per Fighera, occorre riscoprire un nuovo umanesimo. Ripartire dallo stupore del bambinoe guardare la realtà, senza pregiudizi. Ripartire dalla bellezza del creato, riscoprire che tutti abbiamo un Padre, Dio, che si è rivelato come amore. Bisogna fondare dunque un nuovo umanesimo, “che si riappropri della legge morale universale nel coraggio di guardare di nuovo alla ragione umana”. Del resto, secondo san Tommaso, “la legge naturale è ‘partecipazione alla legge eterna’”.Il testo di Fighera inoltre auspica che soprattutto, noi italiani guardiamo alla “straordinaria fecondità che ha fatto si che l’Italia generasse da sola la metà di tutto il grande patrimonio artistico dell’umanità”. Da che cosa nasce questa fecondità?

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