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Di recente ho conosciuto personalmente il prof. Francesco Mulè, del quale avevo sentito spesso parlare nell’ambiente letterario, dove più o meno ci si conosce tutti. Superate le iniziali formalità di presentazione, dopo pochi minuti tra noi si è instaurato un dialogo fluido, visti i tanti interessi che ci trovano d’accordo.

Il poeta e scrittore Francesco Mulè, nome prestigioso nel panorama letterario, è una persona piacevole anche per il suo stile di porsi, semplice ed immediato. Un modo per mettere a proprio agio l’interlocutore, come usano fare solo le persone che non hanno bisogno di ostentare la loro preparazione, oppure i loro titoli accademici. E’ un piacere parlare con lui di letteratura antica e moderna, di filosofia greca, dalla quale ha preso spunto per il metodo pedagogico seguito nella sua lunga attività di insegnante.

Egli ama anche il giornalismo, che esercita da anni, scrivendo in molti giornali locali della Liguria, dove vive, e non solo. Insomma, un vero estimatore delle Arti letterarie, che cerca di approfondire costantemente, mettendosi sempre in gioco e progettando il futuro con l’entusiasmo di un adolescente.

E’ il fondatore e il presidente del “Circolo SMILE”, che da oltre vent’anni svolge attività di carattere umanistico volte alla divulgazione della poesia e della letteratura, anche attraverso i suoi noti premi letterari. Francesco Mulè nel corso dei cenacoli propone letture di componimenti poetici e di testi in prosa, certo dell’aulico valore della cultura, all’interno di un processo di crescita intellettuale per ogni individuo.

Ho avuto il piacere di intervistarlo e andando oltre l’incontrovertibile spessore culturale, ho scoperto un uomo sensibile, toccato fin dalla tenera età da drammi familiari, le cui cicatrici possono solo lenirsi nel tempo. Nella sua poetica, struggente e profonda, emergono puntuali il dolore, l’insuperabile travaglio interiore, ma anche la forza di una speranza che lo porta ad andare avanti, nonostante tutto, poiché la vita è un bene prezioso e questo concetto Francesco l’ha ben elaborato, attraverso precipui percorsi introspettivi, lunghi come labirinti scuri, ma che una volta attraversati conducono alla luce, quindi alla rinascita spirituale.

Recentemente è diventato nonno e la sua felicità traspare chiara dalle parole che riserva alla sua nipotina Miriam. Sta curando una collana di poesie, scritte in occasione della nascita della piccola dalle sue amiche poetesse, compresa la sottoscritta; un omaggio che verrà consegnato alla bambina quando sarà un po’ più grande; un gesto di grande amore, che denota la nobiltà del suo cuore.

La sua terra d’origine è la Sicilia e questo lei lo rivendica con orgoglio e tanta nostalgia, dal momento che vive in Liguria da oltre quarant’anni. Quali sono stati i motivi che l’hanno portata a trasferirsi?

Diversi e vari i motivi che mi hanno spinto a lasciare Cattolica Eraclea; fra essi, raggiungere la sicurezza nel mio lavoro d’insegnante, poiché fino a quel momento mi avevano assegnato supplenze ed incarichi a tempo determinato. Seconda ratio, il grande desiderio di conoscere nuovi ambienti, una nuova geografia, altra cultura che potesse soddisfare la mia forte sete di conoscenze, scambi di idee, nuovi modi di socializzazione e per ultimo, ma non ultimo, la fondazione, da parte mia, di un nuovo circolo culturale, di cui abbondava il mio piccolo paese.

Nel 1987 si è recato in vacanza con la famiglia nel suo paese Cattolica Eraclea. In quella speciale occasione è stata eseguita una canzone, della quale è autore del testo e della musica, dedicata al luogo dove ha trascorso la sua infanzia, fra odori, sapori e colori che sono rimasti impressi per sempre nella sua memoria. In tenera età ha perso la sua mamma; è possibile curare le ferite di un dolore così profondo?

Prima che nel 1987, mi ero recato a Cattolica Eraclea in occasione del mio viaggio di nozze con Anna, che avevo sposato il 7 luglio 1973. Sono stati giorni splendidi e momenti meravigliosi in compagnia di parenti e di tanti amici, che avevo lasciato col cuore distrutto. Posso dire di aver assaporato l’amicizia dei veri amici attraverso la mia forzata lontananza. Con loro sono rinato, ho apprezzato il valore dell’amicizia, sentimento che mi ha restituito una nuova vita.

La mamma? Mi è mancata e mi manca ancora tantissimo. La mamma lascia la Terra il 17 febbraio 1942, io avrei compiuto due anni il 21 febbraio di quell’anno, che ha chiuso le porte alla mia vita. Ho scritto tantissimo per lei, continuo a parlare sempre di lei, una sua foto mi porta puntualmente alla famiglia che lei ha lasciato a papà. Quattro figli: Marietta (Maria Mercede classe 1929), che ha dovuto interrompere gli studi classici a tredici anni per dedicarsi a noi e alle faccende domestiche; Michele (Michelangelo classe 1933, di otto anni e qualche mese), che durante la frequenza degli studi classici a Sciacca, distante dal mio paese una quarantina di kilometri, dava lezioni a me per farmi conseguire il diploma magistrale, poiché dopo la terza media non ho mai frequentato le superiori, per non gravare economicamente sulle spalle di mio padre, che svolgeva il mestiere di falegname; Ninetta (Antonina, classe 1936) che in seguito alla scomparsa di mamma, ha interrotto gli studi in quarta elementare.

La sua forte passione per la Poesia si fa riconoscere già nell’adolescenza, come si percepisce nella sua prima raccolta “I luoghi del tempo” intrisa di immagini in versi che riconducono alla sua adolescenza, fra tumulti dell’anima da raccontare, per fermare la memoria e fare tesoro di sensazioni uniche ed irripetibili. Quando ha iniziato a seguire le orme di Calliope?

Molto presto, frequentando le medie all’Istituto Ezio Contino, quando si studiava, specie in terza media, la letteratura italiana con i nostri grandi poeti, che mi hanno contagiato ed ammalato di poesia.

Leggevo e divoravo Dante, Leopardi, Pascoli, Manzoni, Carducci, Pirandello, Foscolo, Ungaretti, Montale, D’Annunzio e tanti altri ancora. Quelli erano tempi che privilegiavano il ruolo e l’importanza della memoria. Quante poesie e quanti classici imparavamo a memoria! Da allora ho capito che la poesia doveva essere per me l’unica valvola di sfogo per dimenticare la mia tragedia familiare e oggi per (ri)costruire in fantasia tutti quei momenti che non ho potuto vivere serenamente. Calliope, è stata ed è tuttora la dea della mia esistenza, con la dipartita il 9 settembre 1974 del nostro piccolo Angelo Gaetano a tre mesi e mezzo di vita e nel 1976 la scomparsa di mio papà, Angelo Gaetano; nel 2013 di mia sorella Marietta e, nel 2014, di mio fratello Michele. Mia sorella Ninetta è attualmente ricoverata in una casa di cura a Vallecrosia, dove vivo ed io? Solo con la mia poesia, col mio Circolo culturale “SMILE”, il mio Premio Letterario Internazionale “Giacomo Natta”, le mie conferenze, i miei premi SMILE, le mie prefazioni, recensioni, note di critica e così via.

L’amore per la poesia non sarà un fatto isolato e limitato al periodo adolescenziale, poiché nel tempo questa passione si trasforma in esigenza di comunicare, ovvero un modo per liberare le sensazioni che risiedono nella più intima sfera emozionale. Attraverso la poesia è possibile arrivare alla sublimazione del dolore?

Poco fa dicevo che la poesia è la mia valvola di sfogo, pertanto quel momento spirituale che tende ad annullare l’entità del dolore esistenziale, del male di vivere: “spesso il male di vivere ho incontrato” (Eugenio Montale).

Il dolore, in poesia, riesce molto bene a spiritualizzare e, quindi, a rendere spiritualizzante il nostro Ego, quando questo comunica nuove emozioni e nuove sensazioni. Poesia di sentimenti fondanti, giusti e veritieri; sentimenti suggeriti dalla voce del cuore, che sempre parla con la massima sincerità e lealtà.

Lei ama definirsi “malato di poesia e di letteratura”. Potrebbe spiegarmi meglio?

Certamente. Mi definisco malato di poesia, malato di cultura, dal momento che di queste non posso fare a meno. Ho resistito e resisto tuttora, dal 1994, anno in cui sono andato in pensione dall’insegnamento, che mi impegnava moltissimo nella mia professione di educatore, più che di insegnante. Ad un certo punto della mia vita ho deciso di intraprendere l’arte che sosteneva il metodo della filosofia socratica, la quale prevede che l’allievo raggiunga la conoscenza autonomamente attraverso il dialogo. Il vero poeta è, infatti, il grande ‘speleologo’ che scava dentro di sé per (ri)scoprirsi, per (ri)conoscere quello che prima di allora era la parte sconosciuta della propria psiche.

Vladimir Majakovskij sosteneva che la poesia è un viaggio nell’ignoto. Quindi, attraverso l’espressione in versi, è possibile arrivare a svelare a noi stessi anche l’aspetto più sconosciuto della nostra anima?

Condivido assolutamente il pensiero del poeta/scrittore russo. La poesia, infatti, non è che il frutto di parole/versi che, attraverso il lavoro attento dello ‘speleologo’ conduce fuori dalla nostra anima quel ‘noi’, ignorato da sempre. In altre parole, il poeta è il ricercatore della propria psiche mediante il continuo, perseverante travaglio della maieutica della filosofia socratiana, da cui nasce il meglio della nostra interiorità.

Portare in superficie luci ed ombre del nostro vissuto può destare sofferenza. La consapevolezza della solitudine interiore è sinonimo di infelicità, oppure stato di grazia, dal quale lasciarsi trasportare e trarne ispirazione poetica?

La solitudine precede il travaglio interiore del poeta. Dopo tale operazione attenta e interiorizzata, il poeta si può dichiarare vincente sullo stato, inizialmente negativo della solitudine. Io, sovente, proclamandomi vincitore, mi ritengo pienamente soddisfatto e quindi alleggerito di tale peso.

Splendida sintesi esistenziale la sua breve ed intensa poesia, quasi un Haiku: “Innatismo/ della memoria. Felicità/che ho trovato”. Avverto sempre una profonda nostalgia, dove chiama in soccorso la memoria, per arrivare all’ampio respiro della ri-trovata felicità. E’ corretta la mia interpretazione?

Sicuramente molto corretta, ne sono davvero lieto.

Sono rimasta piacevolmente ammirata da un altro suo brevissimo componimento, che recita così: “Mi manca la fame/di quei tramonti/memorie rinnovate tristi/Il canto si è spento”, tratto da “Il mio Universo”. Avverto una forte nostalgia della sua amata Terra, con una chiusa che in questo caso non offre ampi margini di speranza. In altre liriche, al contrario, la speranza si affaccia timidamente, segno del suo carattere solare e positivo. Come riesce a conciliare i ritmi di vita quotidiana con le momentanee oasi dei ricordi?

Sono i ricordi che, seppure frutto di positiva nostalgia, riescono a restituire speranza in un nuovo futuro, creando quell’oasi di serenità, che non è altro che un nuovo modo per ricostruire la nostra interiorità. Noi costruiamo il nostro futuro sulla base di quei preconcetti, che molto spesso vengono a condizionare la nostra anima.

In considerazione della sua policroma formazione accademica ed artistica, la lista delle domande da porre alla sua attenzione potrebbe essere interminabile. Intanto, vorrebbe parlarmi della sua lunga esperienza di docente?

Molto serena ed aggiungo, molto voluta e studiata nel corso della mia vita di scolaro e poi di studente, quando, con la decisione finale della facoltà di pedagogia all’Università di Palermo, si è rafforzata dentro di me l’idea di dedicare il resto della mia vita all’insegnamento, prima presso le scuole superiori, con l’abilitazione all’insegnamento di Storia e Scienze umane (Filosofia), quindi, con l’abilitazione all’insegnamento di materie letterarie (quando si insegnava il Latino, disciplina importante ai fini della formazione umanistica dei nostri giovani).

Oltre vent’anni fa ha fondato il “Circolo Culturale SMILE” a Vallecrosia, bellissima località dell’estremo ponente ligure. Attraverso l’Associazione, della quale è presidente, organizza eventi culturali di pregio, promuovendo incontri, dibattiti, conferenze e visite nelle scuole, alla scopo di sensibilizzare gli studenti e renderli più motivati e partecipi alla conservazione, la divulgazione e la crescita della cultura. Il Circolo in questi anni è cresciuto, grazie alla sua competenza letteraria, unita ad un’encomiabile serietà professionale. Con il tempo, le attività in seno allo SMILE si sono diffuse a livello nazionale ed internazionale, con il coinvolgimento di personalità di spessore che gravitano nell’universo culturale. Vorrebbe parlarmi del “Premio Giacomo Natta”?

Il Circolo Culturale SMILE nasce dalla consapevolezza di avviare con serietà e senso di responsabilità la cultura, la letteratura, la comunicazione. L’Associazione nasce a Ventimiglia all’insegna della cultura della poesia, con l’obiettivo di accarezzare gli animi e sollecitare vivi sentimenti di amicizia, di formazione di gruppi di buoni divulgatori di idee, di pensieri.

La vita dello SMILE, nella sua brevità temporale, registra ad oggi una lunghissima carriera ultraventennale di qualità, attraverso incontri con personaggi ricchi di cultura letteraria, scientifica, artistica, di problematiche sociali e di economia, senza trascurare, ovviamente, l’aspetto prettamente poetico con il Premio Letterario Internazionale, inizialmente dedicato ai vari Premi nobel italiani, quali Quasimodo, Pirandello, Montale, Deledda.

Successivamente, con la chiusura dopo nove anni di assidua attività commerciale del bar, che insieme alla mia famiglia avevo aperto nella città di frontiera, sono riuscito a farmi assegnare dal Comune di Ventimiglia una sede dove sono nati i “venerdì culturale”, con incontri mensili del primo venerdì di ogni mese. Vorrei inoltre sottolineare che vennero istituiti anche i “lunedì culturali”, che settimanalmente vedevano partecipare su invito personaggi noti della cultura, dell’arte e del sociale.

Ho messo tanta carne al fuoco; infatti, a questi incontri si aggiunsero i “Premi Smile”, giunti ad oggi alla diciottesima edizione, con oltre cinquantaquattro insigniti dell’omonimo premio.

A Vallecrosia, dicevo, abbiamo continuato con il premio Letterario dedicato ad un cittadino scrittore di Vallecrosia, poco conosciuto dai contemporanei, se non inesistente.

Dietro mia insistenza, in particolare presso gli uffici di sindaci ed assessori di Vallecrosia, finalmente, dopo un paio di anni è stata assegnata al nostro Circolo una microscopica sede, che ci dà modo di riunirci una volta al mese e programmare iniziative per il mese successivo e provvedere agli inviti.

Lo SMILE è metaforicamente una scala con tantissimi scalini; ne abbiamo percorsi diversi di vario genere. In primo luogo, quello che ci ha portato all’internazionalità, insieme al “Premio Smile”: premio di Poesia, giunto nel 2014 alla sedicesima edizione. L’anno scorso ho dovuto prendermi una pausa per motivi familiari assolutamente lieti: infatti, io e mia moglie siamo diventati nonni di Miriam, quindi ci siamo momentaneamente trasferiti a Pescara per stare volentieri vicino a mia figlia e godere di questa nuova condizione di nonni. Ma il mio amore per la poesia e per le arti letterarie resta sempre profondo; non esistono al mondo medicine che possano curarmi da questa piacevole malattia.

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Alcuni giorni fa presso l’ Auditorium “P. Agostino Trapè” dell’ISTITUTO PATRISTICO AUGUSTINIANUM di Roma è stato presentato alla stampa e alle persone invitate il libro di Papa Francesco “IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA” (2016, PIEMME), pubblicato con lancio mondiale in 85 Paesi.

L’evento è stato aperto da Don Giuseppe Costa, SDB, che ha salutato tutti i presenti. Sono intervenuti: S.E. Cardinale Pietro Parolin, Zhang Agostino Jianqing e l’attore Roberto Benigni, accolto calorosamente dal pubblico. Ha moderato Padre Federico Lombardi.

Il Santo Padre lo scorso 13 marzo 2015 ha voluto imprimere una determinante svolta al suo pontificato, indicendo il Giubileo Straordinario della Misericordia, che terminerà il 20 novembre 2016 e questo libro vuole essere un iconico segno del suo messaggio pastorale.

Si tratta di alcune conversazioni di Papa Francesco con Andrea Tornielli, vaticanista e giornalista del quotidiano La Stampa e responsabile del sito web “Vatican Insider”; egli collabora anche con varie riviste italiane ed internazionali. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo la prima biografia del Pontefice “Francesco Insieme”, tradotta il 16 lingue e il volume “Papa Francesco. Questa economia uccide”, tradotto in 9 lingue.

Nella retro copertina Papa Francesco, con sua firma autografa, ha dichiarato: “La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano”. Queste riflessioni rappresentano la sintesi di quanto contenuto in questo interessante libro, che tutti potrebbero leggere, a prescindere dal proprio orientamento religioso.

Papa Francesco ha il dono di saper parlare alla gente con semplicità ed immediatezza; con le stesse parole, semplici e dirette, egli si rivolge a un uomo ed a una donna del pianeta, instaurando un dialogo intimo e personale. Il tema centrale del libro è quello della misericordia, argomento a lui particolarmente caro, da sempre fulcro della sua testimonianza ed ora del suo pontificato.

Pagina dopo pagina, si percepisce il suo desiderio di dialogare con tutte quelle anime che, dentro o fuori la Chiesa, cercano il senso della vita, la strada della pace e della riconciliazione fra i popoli, la cura alle ferite fisiche e spirituali. Il suo primo pensiero va a quella parte di umanità più sofferente, che chiede di essere accolta e non respinta: i poveri e gli emarginati dalla società, ma anche tutte quelle persone disorientate e lontane dalla fede.

Nelle conversazioni con il vaticanista Andrea Tornielli, il Santo Padre, ripercorrendo alcuni significativi ricordi legati alla sua gioventù ed anche alle esperienze vissute nel corso della sua lunga attività pastorale, spiega le motivazioni che l’hanno portato a desiderare fortemente un Anno Santo straordinario.

Egli, senza disconoscere le questioni etiche e teologiche, ribadisce che la Chiesa non può chiudere la porta a nessuno; piuttosto, ha il compito di scolpire le coscienze di ognuno, affinché possano aprirsi spiragli di assunzione di responsabilità, nel consapevole allontanamento del male compiuto.

Nell’immediatezza e franchezza del dialogo, Francesco non si esime dall’affrontare il nodo del rapporto fra misericordia, giustizia e corruzione.

Egli rammenta, a tutti quei cristiani che si annoverano nella schiera dei “giusti”, sempre in modo puntuale ed estremamente diretto, che: “Anche il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio”.

Nella sua prima messa celebrata da Papa domenica 17 marzo 2013, dopo essere stato nominato Vescovo di Roma il mercoledì precedente, la Chiesa di Sant’Anna in Vaticano era gremita di gente. In quell’occasione Francesco tenne la sua seconda omelia da Papa e senza discorsi preparati, disse: “Il messaggio di Gesù è la misericordia. Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore.”

In quell’occasione egli – racconta Andrea Tornielli, presente con alcuni amici alla S. Messa – commentò il brano del Vangelo di Giovanni che parla dell’adultera, la donna che gli scribi ed i farisei stavano per lapidare, come prescritto dalla legge mosaica. Gesù le aveva salvato la vita, poiché rivolgendosi alla folla, chiese a chi fosse senza peccato di scagliare la prima pietra. Se ne erano andati via tutti. Gesù allora disse alla donna, congedandosi da lei: “Neanch’io ti condanno; vai e d’ora in poi non peccare mai più”.

Il Papa quindi spiegò che anche a noi ci capita di condannare gli altri. Quindi, il primo passo da fare è quello di maturare esperienza nella misericordia e di riconoscersi bisognosi di misericordia.

Da questa omelia emerge fortemente la centralità del messaggio della misericordia, che avrebbe poi caratterizzato i primi anni del suo pontificato. Viviamo in una società in cui si è sempre pronti a giudicare glia altri, a condannare e molto meno ad accogliere. Siamo ormai abituati a riconoscere sempre meno le nostre responsabilità; le colpe sono sempre di qualcun altro, mai le nostre e non siamo più capaci a chinarci con compassione sulle miserie dell’umanità.

Poco più di un anno dopo, Francesco era tornato a commentare lo stesso brano, durante la Messa mattutina nella Cappella della Casa Santa Marta, confessando nuovamente la sua commozione per questa pagina evangelica e disse: “Dio perdona non con un decreto, ma con una carezza”.

Il Giubileo della Misericordia non è altro che la conseguenza di questo messaggio e della centralità che ha sempre avuto nella predicazione di Francesco.

Ad Andrea Tornielli, mentre ascoltava l’omelia della liturgia penitenziale del 13 marzo 2015, al termine della quale Francesco avrebbe annunciato l’indizione dell’Anno Santo, venne l’idea di porre al Santo Padre alcune domande su questo ed altri argomenti, attraverso un’intervista che facesse emergere il suo cuore, il suo sguardo. Un testo attraverso il quale la Chiesa potesse mostrare in modo significativo il suo volto di misericordia.

Il Papa accettò subito la proposta e il libro “Il nome di Dio è Misericordia” è il frutto di un colloquio iniziato nella sua abitazione, la Casa Santa Marta in Vaticano, in un caldissimo pomeriggio dello scorso luglio.

A proposito della difficoltà di riconoscersi peccatori, nella prima stesura del libro – racconta Andrea Tornielli, citando un aneddoto – Francesco affermava: “La medicina c’è, la guarigione c’è, se soltanto muoviamo un piccolo passo verso Dio”. Ma dopo aver riletto il testo, Papa Francesco lo richiamò, chiedendogli di aggiungere: “…o abbiamo almeno il desiderio di muoverlo”.

In questa aggiunta, o precisazione, c’è tutto il cuore del pastore che cerca di uniformarsi al cuore misericordioso di Dio e non lascia nulla di intentato per raggiungere il peccatore. Dio ci attende a braccia aperte, ci basta muovere un passo verso di Lui, come fece il “figliol prodigo”. Ma se non abbiamo la forza di compiere almeno questo, per quanto siamo deboli, basta almeno il desiderio di volerlo fare.

Questo è già un buon inizio, affinché la grazia possa operare e la misericordia essere donata, secondo l’esperienza di una Chiesa che non si concepisce come una dogana, ma cerca ogni via possibile per perdonare.

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Copertina del saggio

La storia del pontificato di Benedetto XVI deve essere ancora scritta ma quanti nel prossimo futuro vorranno mettervi mano non potranno non confrontarsi con uno dei punti più rilevanti e parimenti discussi del suo intero magistero: i princìpi non negoziabili. Criticata da alcuni, disattesa, ignorata o emarginata da altri, la dottrina dei princìpi non negoziabili resta invece a ben vedere una bussola fondamentale – rectius, l'unica bussola, come si vedrà più avanti – per leggere in modo cattolicamente corretto tutti gli snodi principali del rapporto Chiesa-mondo nell'epoca della post-modernità liquida. Con questo saggio teoretico e pratico insieme l’arcivescovo di Trieste monsignor Giampaolo Crepaldi, mette finalmente a tema, in modo relativamente esteso (con dodici capitoli fitti di domande critiche, rilievi ed obiezioni) quelli che la Nota dottrinale del 2002 della Congregazione per la Dottrina della Fede inerente “alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica” definisce appunto i cardini dell'impegno sociopolitico dei credenti nel loro insieme: punti essenziali, non ideologici, ma letteralmente, etimologicamente, cattolici (cioè “universali”) che rimandano in ultima analisi a un ordine sociale saldamente ancorato al primato pubblico della legge morale naturale richiamata sì dal Decalogo mosaico ma ri-conoscibile pre-giudizialmente da ogni uomo di buona volontà in sincera ricerca della verità. Come noto, già prima dell'avvento del pontificato ratzingeriano, il fatto che esistesse una dottrina dei princìpi non negoziabili è stato seriamente e a più riprese messo in discussione da studiosi e filosofi di vario e diverso orientamento, ancorché cristiani, cominciando dall'osservazione secondo cui più che di princìpi bisognerebbe parlare di valori, genericamente, ed in ogni caso con nessuna (o quasi) pretesa di esaustività: gli imperativi sociali, già di per sé plurali, cambierebbero di volta in volta a seconda dei luoghi e delle circostanze, secondo un obiezione particolarmente ricorrente ad esempio in alcuni. A questo proposito, Crepaldi osserva che la tutela della vita, la promozione della famiglia e la difesa della libertà di educazione sono certamente anche dei valori sociali degni di apprezzamento ma prima di questo, e più ancora, essi sono dei princìpi ordinativi, cioè “dei punti di riferimento per l'ordinamento sociale nel suo insieme” (pag. 10). Il motivo è che “se viene meno la percezione collettiva di un valore, la società si impoverisce umanamente in quell'ambito, ma se viene meno il principio la società non sa più chi è, si confonde circa le questioni essenziali della sua esistenza e questa confusione si espande ben oltre l'ambito di quel valore. Se, per fare un esempio, viene meno il valore della famiglia, certamente la vita familiare della società si impoverisce e con essa la vita umana. Ma non solo nella famiglia, bensì anche nella scuola, nell'educazione, nel lavoro, nell'economia. Aumentano gli insuccessi scolastici, il degrado dei beni pubblici, la delinquenza giovanile. Calano la propensione al risparmio, l'attenzione ai più deboli, gli ammortizzatori della conflittualità sociale. Questo ci dice che la famiglia non è solo un valore, ma è anche un principio politico e sociale, ossia è in grado di illuminare l'attività politica e di ordinarla al bene” (pagg. 10-11).

La premessa di fondo, dunque, è che il bene comune presuppone una gerarchia di priorità ben distinte e che i valori pubblici non hanno tutti lo stessi peso, né sono tutti sullo stesso piano.         Più chiaramente, “questo significa che alcuni di essi hanno un valore architettonico, ossia indicano i fondamenti del bene comune e, così facendo, illuminano di senso anche tutti gli altri” (pag. 11): il criterio ordinativo dell'azione politica generale è dato allora dai tre princìpi non negoziabili sopra richiamati che non a caso sono anche gli unici che nei documenti dottrinali – della Congregazione della Fede, come del Papa – compaiono sempre, in evidenza, all'inizio, e in questa successione logica, diversamente da altri che pure vengono citati magari in qualche altro passaggio ma non con regolare continuità. Se qualcuno chiedesse perchè mai proprio questi e non altri, la risposta da dare sarebbe allora proprio che questi “sono non negoziabili perchè radicati nella natura umana” (pag. 13), costituiscono cioè l'identità profonda dell'essere umano in quanto tale, i suoi princìpi-primi per restare nella terminologia fin qui adottata: in questo senso rappresentano il fondamento e insieme l'argine ultimo dell'agenda politica democratica giacchè – contrariamente a quanto alcuni credono – anche l'ordine democratico deve necessariamente prevedere dei limiti invalicabili nel suo orizzonte, altrimenti più che democratico potrebbe facilmente diventare totalitario. Se infatti tutto diventa negoziabile, contrattabile, modificabile, anche la democrazia stessa all'improvviso, con decisione a maggioranza, potrebbe esserlo: e chi mai potrebbe impedirlo? Le pagine della storia, recenti e meno, interrogate al proposito raccontano proprio episodi del genere: dal fatto che Adolf Hitler andò al potere democraticamente, aggiudicandosi in modo assolutamente corretto la tornata elettorale dove si presentò, al fatto che alcune maggioranze adulte hanno votato e votano tuttora democraticamente la soppressione deliberata di altre vite umane non ancora adulte (come non pochi giuristi americani rappresentano la vittoria negli anni Sessanta dell'aborto legalizzato negli USA e, quindi, a breve distanza, in Europa). L'arcivescovo sostiene allora, in continuità con il magistero pontificio, che la vera emergenza oggi sia quella della salvaguardia dell''ecologia umana', con riferimento alla natura della persona umana, e – per esteso – della salvaguardia dell''ecologia sociale' con riferimento alla salvaguardia della natura della intera società, perchè ad essere in drammatico pericolo oramai non è più questo o quell'aspetto singolo della struttura sociale ma l'immagine tutta del creato come pensato e voluto da Dio, a cominciare dall'essere umano, per cui in ogni persona vi è inscritto, ab origine, un progetto, una vocazione e – quindi – una missione. Il grembo materno come il focolare domestico rappresentano allora in quest'ottica la custodia più intima del messaggio salvifico della Redenzione nel suo complesso: quasi il sacrario – se il linguaggio non è troppo ardito – della verità ultima e definitiva sull'uomo. Se è così, però, dovrebbe apparire pacifico che ogni tentativo per mettere le mani su questo sacrario rappresenta un'oggettiva minaccia all'identità dell'umano che dalla filiazione naturale, e dalle rispettive figure genitoriali, riceve non solo i cromosomi, quali che siano, ma la cura, l'educazione, l'affetto, l'amore, il senso dell'essere, in una parola: tutto. Il campo da presidiare sistematicamente sarebbe allora quello della moralità pubblica dove i poteri e le autorità civili degli Stati appaiono in drammatica ritirata, purtroppo da decenni, almeno in Occidente, con il risultato che “astenendosi dal promuovere una visione legata alla legge morale naturale in questi campi fondativi, limitandosi a registrare i desideri dei cittadini confermandoli in diritti, accettando un completo pluralismo di comportamenti etici” (pag. 87) diventa poi piuttosto arduo - per utilizzare un eufemismo - “poter recuperare tale dimensione in altri campi della vita sociale” (ibidem). Si tratta di una sfida essenziale di portata realmente epocale perchè quello che si sta cercando di affermare con i paradigmi culturali oggi sempre più avanzanti dell'ingegneria bio-genetica, da una parte, e della fluidità poli-sessuale liquida, dall'altra, anche con l'appoggio interessato e trasversale di lobby tecnocratiche e potentati sovranazionali, è una serie di ruoli funzionali – non più una società organica – regolati da procedure contrattate: “se essere uomo ed essere donna è solo una funzione assunta volontariamente, tutte le altre dimensioni della società diventeranno delle funzioni da assumere volontariamente. Ma una società senza doveri non può sopravvivere” (pag. 87). La prova 'provata', al contrario, è che tutte le altre crisi, pur importanti, di cui si discute vivacemente nel dibattito pubblico odierno – da quella economica a quella demografica – dipendono ultimamente “dalla negazione dei princìpi non negoziabili” (pag. 94). Dopotutto, “se la vita non ha un senso, perchè mai l'imprenditore o il finanziere dovrebbero agire bene? La crisi finanziaria americana non è nata sui mutui-casa, ossia nella strumentalizzazione della famiglia? La crisi demografica, che secondo qualcuno è alla base del declino apparentemente inarrestabile dei Paesi occidentali, non nasce dalla perdita del senso della vita?” (ibidem).

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