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Aleksej Vladimirovich Paramonov, la cui nomina è stata ufficializzata nel decreto firmato dal presidente russo Vladimir Putin . E il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha concesso il suo gradimento.

Così al posto di Razov arriverà un altro diplomatico di lungo corso e con un’ottima conoscenza dell’Italia e della lingua. Il 61enne Paramonov ha stretto buoni rapporti con il tessuto economico italiano da console a Milano dal 2008 al 2013 e ha ricevuto due onorificenze: prima Cavaliere dell'ordine al merito della Repubblica italiana (2018), poi Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia (2020). Titoli che riconoscono «particolari benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e gli altri Paesi e nella promozione dei legami con l’Italia».

Con un'intervista alla Tass, ripresa da “La Repubblica”, l’ambasciatore Alexey Paramonov lancia un monito durissimo al governo Meloni: “”Con l’inizio della sua presidenza del G7, sta attivamente rivendicando il ruolo di “capo coordinatore” di questo quartier generale antirusso dell’Occidente”. E ha aggiunto: “La posizione delle autorità ufficiali nei confronti della Russia è prevalentemente sgarbata, di natura essenzialmente ostile”. Paramonov nell’estate scorsa ha sostituito a Roma Sergey Razov

«Sono già stati approvati otto pacchetti di aiuti militari, comprendenti un’ampia gamma di armi letali» ha rammentato l’ambasciatore di Mosca elencando l’appoggio italiano all’Ucraina. «L’altro giorno il ministro della Difesa ha dichiarato che il Paese è tra i primi cinque fornitori di sistemi bellici al regime di Kiev. Eccoli i ‘bravi’ italiani”. Paramonov, comunque evidenzia che in Italia c’è un «numero crescente di associazioni e movimenti politici che spingono per normalizzare le relazioni con Mosca e fermare l’escalation tra l’Occidente e la Russia».

Classe 1962, già console russo a Milano e finora direttore del dipartimento Europa del ministero degli Esteri russo, il nuovo ambasciatore a Roma era salito agli onori delle cronache un anno fa, per aver rilasciato all’agenzia di stampa Ria Novosti, a neanche un mese dall’inizio della guerra, un’intervista nella quale aveva parlato di «conseguenze irreversibili» nei rapporti tra Roma e Mosca se l’Italia avesse adottato altre sanzioni contro la Russia. Definendo tra l’altro l’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini un «falco» e "l'ispiratore" della campagna anti russa in Italia.

Le relazioni tra Russia e Italia oggi «non sono di molto» migliori rispetto «al periodo dell’invasione nazifascista dell’Unione Sovietica nel 1941-1943». Nella intervista rilasciata alla Tass e ripresa da Repubblica, l’ambasciatore russo Alexey Paramonov lancia un avvertimento minaccioso a Giorgia Meloni e al suo esecutivo. Paramonov che non è nuovo a minacce all’Italia, nell’estate scorsa ha sostituito a Roma Sergey Razov.

«Con l’inizio della sua presidenza del G7 – attacca Paramonov – sta attivamente rivendicando il ruolo di “capo coordinatore” di questo quartier generale antirusso dell’Occidente», aggiungendo che «la posizione delle autorità ufficiali nei confronti della Russia è prevalentemente sgarbata, di natura essenzialmente ostile».  L’ambasciatore russo ricorda inoltre che l'Italia «ha aderito pienamente alle misure di pressione esercitate dall’Occidente sulla Russia, tanto che in Italia si parla ormai apertamente di guerra ibrida contro il nostro Paese».

Intanto il giornalista americano Tucker Carlson ha messo a segno lo scoop bramato da quasi tutti i giornalisti occidentali: intervistare Vladimir Putin. A prescindere dal giudizio sulla guerra in Ucraina, ottenere il punto di vista del presidente russo senza il filtro – si fa per dire – della propaganda del Cremlino, è il desiderio di molti. Mosca ha confermato quella che diventerà la prima chiacchierata con un giornalista occidentale dall’inizio del conflitto, febbraio 2022. L’americano, licenziato l’anno scorso dalla rete conservatrice Fox News, ha confermato che l’intervista sarà trasmessa “presto”, in un unico blocco e senza censura, ma non in diretta. Il cronista vicino a Donald Trump potrebbe renderla pubblica giovedì 8 febbraio e il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha negato che Carlson abbia una posizione “filo-russa” assicurando che Putin ha accettato di parlare con lui perché la sua posizione è lontana da quella degli altri giornalisti anglosassoni: “La sua posizione è diversa dalle altre. Non è né filorussa né filo ucraina, ma piuttosto filoamericana, ma almeno contrasta con la posizione dei media anglosassoni tradizionali”.

Ma ora, a causa di questa intervista, il giornalista pro-Trump è finito nel mirino dell’Unione europea. Secondo quanto rivelato dall’ex primo ministro belga e attuale membro del Parlamento europeo Guy Verhofstadt ai microfoni di Newsweek, è stata inoltrata richiesta per un “travel ban” nei confronti di Carlson, definito un “portavoce” di Trump e di Putin: “Poiché Putin è un criminale di guerra e l’Ue sanziona tutti coloro che lo fiancheggiano, sembra logico che il servizio per l’azione esterna esamini anche il suo caso”.

Probabilmente la vicenda si chiuderà con un nulla di fatto, ma è il principio a spaventare: realizzare un’intervista - seppur a Vladimir Putin – potrebbe fare finire chiunque nella blacklist di Bruxelles.  Una stortura che deve fare riflettere, perché mina la libertà e l’indipendenza dei professionisti a prescindere dall’orientamento politico. Anche perché lo stesso discorso potrebbe valere per chi ha intervistato Lavrov, Peskov e gli altri collaboratori di Putin.

Trump non è solo per la prossimità tra il cronista e il Tycoon. L’intervista allo zar indica che ormai nell’Impero si gioca a carte scoperte. Non per nulla, poco prima dell’intervista di Carlson, Trump ha lanciato un appello ai repubblicani del Congresso affinché non approvino la legge sugli aiuti all’Ucraina (sul punto rimandiamo alla nota a piè di pagina).

Ormai si combatte senza infingimenti: Trump si pone come l’unico argine ai neoconservatori e alle loro guerre infinite – missione che si era riproposto Biden, ma alla quale ha mancato per debolezza, ricatti e tragico deficit di lucidità – e come freno alla prospettiva di una guerra globale.

Quest’ultima possibilità è più reale che mai perché il Progetto per un Nuovo secolo americano, nel quale furono delineate le guerre infinite come mezzo per prolungare l’egemonia Usa nel mondo, è ormai obsoleto, essendo stato varato nel 2000.

Da allora il mondo è cambiato: le guerre regionali sono diventate molto più impegnative – vedi lo scontro con gli Houti – e i rivali globali non possono più essere costretti a un ruolo secondario nell’agone globale.

Fonte Atlantico quotidiano / piccole note / il secolo d Italia / e varie agenzie

 

Dopo giorni di attesa e discussioni, è arrivata la bozza del piano di Hamas per un cessate il fuoco con Israele. La proposta è articolata in tre fasi, ciascuna di 45 giorni, per un totale di quattro mesi e mezzo di tregua che dovrebbero portare ad un accordo per la fine della guerra. Fonti informate sui negoziati hanno affermato che i terroristi non chiedono fin da subito garanzie per la conclusione del conflitto, ma che l’intesa deve essere raggiunta prima del rilascio degli ultimi ostaggi.

Per quanto riguarda le fasi del piano, nella prima saranno liberate tutte le donne ancora prigioniere nella Striscia, i maschi sotto i 19 anni, gli anziani e i malati. In cambio, Tel Aviv dovrà scarcerare un totale di 1500 detenuti palestinesi, un terzo dei quali condannato all’ergastolo, e ritirare le proprie truppe dalle aree popolate dell’exclave. Durante la seconda, saranno rilasciati gli ultimi ostaggi maschi e Ie Idf dovranno spostarsi fuori dai confini di Gaza. 

Questa fase, però, non verrà attuata fino a quando le parti non avranno concluso “colloqui indiretti sui requisiti necessari per porre fine alle operazioni militari reciproche e tornare alla calma totale”. La terza e ultima parte del piano prevede lo scambio di resti e corpi. Hamas ha chiesto anche un aumento degli aiuti a Gaza, con l’ingresso di 500 camion al giorno. “La gente è ottimista, ma allo stesso tempo prega che questa speranza si trasformi in un vero accordo che ponga fine alla guerra”, ha affermato Yamen Hamad, padre di quattro bambini rifugiato in una scuola della Nazioni Unite nella zona centrale della Striscia e sentito da Reuters. “Le persone attendono notizie di un cessate il fuoco, sono speranzose nonostante i continui bombardamenti”.

Secondo alcune indiscrezioni riportate dall’emittente televisiva israeliana Kan, il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe dato la sua approvazione alla proposta di tregua. L’ufficio del premier non ha però confermato queste affermazioni e ha riferito al Times of Israel di non avere nuove risposte riguardo all’intesa presentata da Hamas. La leadership politica dello Stato ebraico si riunirà oggi per discuterla. È improbabile che il governo di Tel Aviv accetti un accordo che preveda la fine della guerra e consenta all’organizzazione terroristica di sopravvivere.

"C'è molto lavoro da fare, ma siamo molto concentrati su questo lavoro e si spera, sulla possibilità di riprendere il rilascio degli ostaggi che era stato interrotto", ha detto il segretario di Stato Usa dopo aver informato i leader israeliani sulla proposta di accordo mediata dal Qatar. "Abbiamo tutti l'obbligo di fare il possibile per fornire l'assistenza necessaria a coloro che ne hanno così disperatamente bisogno, e i passi che vengono compiuti - ulteriori passi che devono essere compiuti - sono al centro dei miei incontri qui", ha aggiunto.

Un nuovo round di colloqui sugli ostaggi mediato da Egitto e Qatar inizierà domani al Cairo, hanno riferito fonti egiziane, secondo quanto riportano i media del Cairo rilanciati dai giornali israeliani.

Molte delle proposte avanzate da Hamas per raggiungere una tregua e il rilascio degli ostaggi sono inaccettabili. Lo ha affermato un alto funzionario israeliano citato dall'emittente Channel 13, precisando che la questione ora è se respingere del tutto tali richieste o avviare ulteriori negoziati nel tentativo di ammorbidirle. Secondo quanto riferito da Yedioth Ahronoth, il gabinetto di sicurezza allargato si riunirà domani sera alla luce della controproposta presentata dal Movimento islamico che richiede, tra l'altro, il rilascio di oltre un migliaio di detenuti palestinesi, compresi quelli condannati all'ergastolo per fatti di sangue, un cessate il fuoco di quattro mesi e mezzo e il completo ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia.

Intanto l'incontro privato precedentemente programmato tra il segretario di Stato americano Antony Blinken e il capo di stato maggiore dell'IDF, Herzi Halevi non ci sarà. Lo riporta la stampa israeliana. Secondo il Times of Israel, l'incontro sarebbe saltato in quanto l'ufficio di Netanyahu si sarebbe opposto a un incontro tra un diplomatico straniero e il capo dell'esercito senza la presenza di esponenti politici e dirigenti ufficiali. Halevi, scrive ancora la stampa israeliana, partecipa all'incontro tra Blinken e Netanyahu con i suoi collaboratori e i membri del gabinetto di guerra.

La controproposta per una tregua avanzata da Hamas è "più specifica" e "fornisce scadenze": "nessuno dei dettagli" può essere modificato, ha avvertito Mohammad Nazzal, alto esponente dell'ufficio politico di Hamas, in un'intervista ad Al Jazeera. "La macchina omicida israeliana deve essere fermata. Desideriamo vedere il completo ritiro delle forze di occupazione israeliane dalla Striscia di Gaza. La nostra risposta è realistica e le nostre richieste sono ragionevoli", ha sottolineato, sostenendo che gli israeliani "non sono seriamente impegnati in questo accordo". Come garanti dell'accordo, Hamas ha indicato Qatar, Egitto, Turchia, Russia e Onu.

La controproposta di Hamas è stata giudicata "un po' esagerata" dal presidente americano Joe Biden, ma Nazzal ha respinto il commento, accusando il capo della Casa Bianca di essere "totalmente di parte" e di aver "preso parte alla guerra intrapresa contro Gaza". "Ha fornito la copertura politica e legale agli israeliani e ha sostenuto tutte le mosse di Netanyahu. Hanno lavorato fianco a fianco, fornendo assistenza militare e finanziaria", ha sostenuto l'esponente di Hamas.

Stando a quanto riportato da Sky News Arabia, il Qatar avrebbe proposto ad Hamas degli incentivi nel tentativo di avvicinare le posizioni e arrivare ad un accordo. Doha avrebbe chiesto all'organizzazione terroristica di sostituire la richiesta del ritiro completo delle Idf con la formula "lavorare per spingere le forze israeliane a ritirarsi da Gaza", in cambio di un cessate il fuoco di quattro mesi invece di un mese e messo come inizialmente proposto da Tel Aviv, "il ritorno degli sfollati nelle loro aree e la creazione di campi migliori", insieme al ripristino del sistema idrico e fognario. L'Emirato avrebbe inoltre assicurato ad Hamas che Israele acconsentirà a rilasciare tra 3mila e 5mila detenuti e ha riferito al gruppo palestinese la minaccia israeliana di invadere Rafah in caso di mancato raggiungimento di un accordo. L'alto esponente dell'ufficio politico dell'organizzazione Mohammad Nazzal ha però dichiarato in un'intervista ad Al Jazeera che "nessuno dei dettagli" della proposta può essere modificato

“Dobbiamo finire il lavoro. E lo faremo”, ha affermato Gabi Siboni, direttore dei programmi Military and Strategic Affairs e Cyber Security all'Università di Tel Aviv e consulente senior per l'Idf. “I leader di Hamas non si consegneranno mai. Sono molto determinati e combattono per la morte. Dobbiamo dunque ucciderli e li uccideremo”. L’uomo ha però ammesso che la pressione delle famiglie degli ostaggi e degli alleati americani per una tregua è molto forte, ma ha sottolineato anche che l’opinione pubblica di Israele non accetterà mai uno scenario in cui Hamas e i suoi gruppi alleati siano ancora presenti nella Striscia.

 

Fonte Agi / Giornale e varie agenzie

 

 

Faccia a faccia di un’ora a Bruxelles tra la premier Giorgia Meloni e il premier ungherese Viktor Orban. Un bilaterale alla vigilia di un delicatissimo Consiglio europeo e sulla scia delle polemiche sulla vicenda di Ilaria Salis. Una storia che comincia a cambiare verso. "Si inizia a vedere un po ' di luce", dice suo padre Roberto che ieri l’ha incontrata in carcere. L’obiettivo è presentare una richiesta formale di detenzione domiciliare in Ungheria, dopo la quale si potrebbe chiedere di scontare i domiciliari in Italia. Strada ardua ma possibile specie se il primo ministro Viktor Orban darà disco verde.

Il caso di Ilaria Salis è diventato una questione nazionale. Ora il problema per Giorgia Meloni è innanzitutto diplomatico e politico. La premier deve avere cautela nei confronti di un governo amico e alleato in vista delle elezioni europee. E di un’alleanza nella famiglia dei Conservatori europei. Ma muoversi sfruttando i rapporti personali - si legge su La Stampa - potrebbe essere la scelta giusta. Come è successo con Al-Sisi nei confronti del caso Zaki. 

Il confronto con il premier ungherese Orban si è sviluppato sulla possibilità di ridurre i tempi del processo secondo Affari Italiani. Per arrivare alla sentenza il prima possibile e ottenere poi l’espulsione della maestra di Monza. Un decreto che però ad oggi non potrebbe arrivare a breve, visto che la prossima udienza del processo è fissata a maggio 2023. Che l’espulsione sia possibile lo ha fatto capire anche il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani: "L’estradizione è impossibile perché non ha ricevuto condanne in Italia. Può essere espulsa dall’Ungheria in caso di condanna". Se l’autorità giudiziaria ungherese la pone ai domiciliari, poi, lei può chiedere di scontare in Italia. "Ma non si può passare dal carcere in Ungheria ai domiciliari in Italia", ha concluso Tajani.

"I reati in questione sono gravi, sia in Ungheria che a livello internazionale e la credibilità di Ilaria Salis è altamente discutibile. Le misure adottate nel procedimento sono previste dalla legge e adeguate alla gravità del reato commesso" ha scritto su X Zoltan Kovacs, il portavoce di Viktor Orban. "I media di sinistra e i gruppi per i diritti umani – attacca poi – hanno lanciato un attacco orchestrato contro l’Ungheria volto a distruggere le buone relazioni politiche tra Budapest e Roma". Sono parole pesanti. La speranza è che politicizzare il caso serva ad uso interno, ma non blocchi una sostanziale clemenza.

La 39enne "è trattata come un terrorista internazionale pericoloso" ha osservato Magyar, ricordando la "detenzione sotto stretta sorveglianza, l'impedimento per molto tempo dei contatti con la famiglia e le autorità italiane". 

Sono 11 gli anni di carcere chiesti per Ilaria Salis dalla Procura ungherese. La 39enne militante antifascista è accusata di aver partecipato all'aggressione di due neonazisti durante una contromanifestazione a Budapest l'11 febbraio 2023. In quella data, il 'Giorno dell'onore', si tiene un raduno a cui partecipano i "nostalgici" di Hitler. 

Ma, sottolinea il suo avvocato Gyorgy Magyar, "non ci sono prove" contro l'insegnante di Monza, che si trova da undici mesi in carcere a Budapest: è dello scorso giugno infatti il no dei giudici ai domiciliari. Intanto l'udienza di ieri, in cui la donna è apparsa in catene mani e piedi, è stata aggiornata al 24 maggio.

Per il padre dell'insegnante, Roberto Salis, si tratta di una "situazione incredibile e ingiusta". "In quei giorni ci sono stati attacchi di nazifascisti contro antifascisti e persone che si trovavano sulla loro strada. Però - ha osservato - sono stati liberati in due giorni. Gli antifascisti in Ungheria non sono graditi e vengono colpiti in modo impari".

"E' in dubbio lo stesso fatto che fosse presente alle aggressioni in questione, o che sia intervenuta incontrando i neonazisti - ha sottolineato ancora il legale difensore -. L'atto di rinvio della Procura è privo di fondamento e non ci sono prove nemmeno per il concorso in associazione per delinquere, presenteremo le nostre prove".

Una "situazione carceraria e processuale che vìola le nostre leggi", ha detto il suo avvocato Eugenio Losco, presente in aula. Anche perché "Ilaria si è dichiarata non colpevole ma ha spiegato di non aver mai potuto leggere gli atti, che non le sono stati mai tradotti, e di non aver ancora visto le immagini su cui sostanzialmente si fonda l'accusa. E quindi ha riferito di non poter presentare nessuna memoria, cosa che è ammessa nel processo ungherese".
Scelta diversa per l'altro coimputato tedesco, che si è dichiarato colpevole e è stato condannato a 3 anni di reclusione.

In aula - dove oltre a Salis erano presenti altri due coimputati, un uomo e una donna tedeschi - la pm ha presentato la 39enne come l'imputata principale, che avrebbe partecipato a più aggressioni causando lesioni corporali aggravate, in "associazione per delinquere" con due persone. Il magistrato poco prima aveva esposto l'atto di accusa che ha portato al rinvio a giudizio secondo il quale gli imputati farebbero parte di un'organizzazione estremista di sinistra, formata in Germania e composta soprattutto da giovani che, oltre partecipare a manifestazioni e dimostrazioni, avrebbero pianificato di lottare con aggressioni fisiche contro simpatizzanti di estrema destra di ideologia neonazista e neofascista.

Fonte affari Italiani Sky24 e varie agenzie 

 

È partito intorno alle 7 dalla zona del casello autostradale della Valdichiana il corteo di trattori diretto a Roma per portare la protesta degli agricoltori toscani nella capitale. I mezzi agricoli sono in marcia lungo la Cassia. L’arrivo dei trattori a Roma, partiti questa mattina da Siena, è previsto alle 17.

Il presidio statico di alcuni dei partecipanti alla protesta che sfocerà venerdì in un corteo in centro a Roma, sarà in via nomentana all’altezza del Grande Raccordo Anulare. L’ufficio di Gabinetto della Questura di Roma sta seguendo in diretta l’evolversi della situazione per garantire l’ordine pubblico. La Polizia Stradale si occupa invece dell’aspetto che riguarda la viabilità stradale, sulle arterie di collegamento con la Capitale, mentre la polizia Municipale gestirà la viabilità sulle strade interne al Gra.

Gli agricoltori contestano le politiche anti agricole dell'Ue e hanno tutta la mia solidarietà perché pagare gli agricoltori per non fare il loro mestiere, per lasciare incolti i lori campi o pagare i pescatori per non andare a pesca è una follia tutta europea e quindi sono al loro fianco. Spero che i disagi per il traffico in Italia siano ridotti al minimo, e qui parlo da ministro, ma sono idealmente al loro fianco sul trattore". 

Con queste parole il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, si è espresso a proposito della protesta degli agricoltori che coi trattori minacciano di arrivare anche a Roma. "Cerchiamo di fare in Italia e soprattutto in Europa tutto il possibile" ha detto il ministro spiegando poi che occorre" costringere la Commissione europea a fermarsi alcune follie: bloccare l'idea folle di non dare la Pac, ovvero i fondi comunitari, a chi non lasci incolti una parte del proprio terreno, impedire di equiparare una stalla a una fabbrica e a una acciaieria perché anche le vacche emettono".

Chiusi diversi caselli autostradali nei Paesi Bassi. Torna la calma a Bruxelles dopo l'assedio. In Francia mobilitazione verso lo stop dopo le parole di Attal e Macron. Il leader delle proteste in Italia annuncia: "Ammasseremo trattori fuori dalla Capitale. Niente blocchi ma disagi". Ancora manifestazioni a Milano, Cagliari, Lanciano, Caserta, Crotone e Ragusa. La Commissione Ue apre ad alcune concessioni.

"È una manifestazione spontanea, il risultato di tutti i problemi che, come allevatori, ci trasciniamo da sempre". Così Antonino Bedino, in passato tra i protagonisti delle proteste contro le quote latte come esponente del comitato spontaneo piemontese, commenta all'Adnkronos la protesta dei trattori in corso in Italia e tutta Europa trovando analogie "al 100 per cento" con le rivolte di una trentina di anni fa. "È una rivolta soprattutto contro l'Europa perché a noi ha fatto un torto enorme, costato allo Stato, perché non ha applicato le norme. Norme che non consistevano nel recuperare le somme non dovute, come dimostrato ora dai tribunali, ma nel non chiedere le somme che non si dovevano chiedere", continua.

Il problema è che gli agricoltori non guadagnano. Lavorano in perdita. Per loro produrre un bene costa più del prezzo minimo cui possono venderlo. Il problema è che su quei beni guadagnano altri. Sono i passaggi che avvengono tra i campi dove si produce il bene e la tavola dove si consuma. Passaggi che sono completamente slegati dai costi di produzione, schiacciano il produttore e favoriscono le multinazionali della grande distribuzione. O le speculazioni finanziarie che vi ruotano intorno.

 

Fonte varie agenzie

 

 

Dalla premier italiana Giorgia Meloni al Commissario europeo all’Agricoltura Janusz Wojciechowski, dalla presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen al presidente del Consiglio Ue Charles Michel, dai Governatori Michele Emiliano e Alberto Cirio a numerosi europarlamentari, hanno espresso sostegno alla nostra protesta e assunto primi impegni rispetto al piano “Non è l’Europa che vogliamo” che abbiamo presentato.

E’ quanto afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini che a Bruxelles ha avuto una serie di incontri per illustrare le ragioni della manifestazione che ha portato oltre un migliaio di agricoltori italiani della principale organizzazione agricola europea “all’assalto” della sede del Parlamento Ue, con iniziative coordinate che hanno visto protagonisti contadini provenienti da tutti i Paesi, dagli spagnoli ai belgi, mentre i giovani della Coldiretti davano vita a pacifici flash mob.  Su un grande striscione si legge “Stop alle follie dell’Europa” ma gli agricoltori esibiscono anche cartelli con “Basta terreni incolti!”, “Scendete dal pero”, “Stop import sleale”, “Prezzi giusti per gli agricoltori”, “No Farmers no Food”, “Cibo sintetico, i cittadini europei non sono cavie”, “Mungiamo le mucche non gli allevatori”.

Una battaglia per garantire dignità e giusto reddito agli agricoltori italiani che non si ferma.

Il presidente della Coldiretti ha spiegato che non sarà accettato nessun taglio alle risorse economiche della Politica agricola comune (Pac) agli agricoltori poiché oggi occorre assicurare l’autonomia alimentare dei cittadini europei e favorire il ricambio generazionale. In tale ottica non è possibile neppure che l’allargamento dell’Unione all’Ucraina venga pagato dalle aziende agricole.

Serve poi cancellare definitivamente – ha ribadito Prandini – l’assurdo obbligo di lasciare i terreni incolti che mina la capacità produttiva della nostra agricoltura e favorisce paradossalmente le importazioni dall’estero di prodotti alimentari che non rispettano le stesse regole di quelli europei in materia di sicurezza alimentare, ambientali e di rispetto dei diritti dei lavoratori. Un caso eclatante è il Mercosur, l’accordo commerciale con i Paesi sudamericani che va respinto. Da qui la richiesta di introdurre il criterio di reciprocità delle regole produttive.

Il caso dei terreni incolti è solo uno dei vincoli che da Timmermans in poi hanno cercato di inserire – ha denunciato Prandini - con regole che penalizzano la capacità produttiva Ue e appesantiscono il lavoro degli agricoltori, ingiustamente visti come inquinatori, mentre sono proprio loro a garantire la tutela dell’ambiente. Si va dalla direttiva che vorrebbe dimezzare l’uso dei prodotti fitosanitari lasciando molte coltivazioni prive di difesa contro insetti e malattie, all’equiparazione degli allevamenti alle fabbriche.

Ma servono anche, secondo Coldiretti, mercati equi e trasparenti, incentivando gli accordi di filiera e vietando la vendita sotto i costi di produzione anche in Europa.

 

 

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