La modernità, lo sappiamo, si è identificata sostanzialmente con tre fattori: a) la storia dell’uomo in ogni sua variante, da quella individuale a quella sociale; b) la secolarizzazione che ha prodotto infine l’immanentismo assoluto; c) il controllo della natura da parte dell’uomo.
Basta leggere le opere fondamentali dedicate alla filosofia della storia da Karl Löwith (1897-1973) a Henri Marrou (1904-1977) per comprendere che il Moderno si è preteso dominio esclusivo della storia umana, dunque luogo e condizione essenziale della Weltgeschichte, ovvero della storia del mondo. In questo preciso senso, il Moderno ha trovato in Hegel – e non poteva che essere così – il suo mèntore filosofico ideale. Infatti, nel disegno hegeliano di una filosofia della storia conchiusa in sé stessa e in se stessa autolegittimantesi, nel dominio storico e logico di una razionalità assoluta, si celebravano i fasti della modernità di Napoleone, dello Stato etico e del primato teoretico dello Spirito Assoluto. Marx e il materialismo storico sono certamente il frutto maturo e, ad un tempo, contraddittorio, di questa figura di razionalismo assoluto immanentista. Il comunismo e l’ideologia violentemente statolatrica del totalitarismo staliniano, strumenti del controllo totale della società, compiono in maniera tragicamente esemplare il percorso del razionalismo assoluto hegeliano.
Sarà questa la lettura che tanto Lenin quanto Togliatti daranno del comunismo come pensiero della rivoluzione e dell’egemonia del Partito sulla società. Su questo fondamento nasce e sulla crisi di questo fondamento entra profondamente in crisi l’intero progetto del Moderno. Caduto il Muro di Berlino, del Moderno non si potrà più ragionare secondo gli schemi originari. E ciò condizionerà inevitabilmente anche le concezioni politiche radicalmente anticomuniste quali il liberalismo (oggi, a dire il vero, da ripensare interamente) e il socialismo democratico e liberale. Cosa accade, in sostanza, con l’implosione del “comunismo di Stato” e, dunque, del progetto ideologico del Moderno? In primo luogo, un fatto: la fine della storia. Il politologo statunitense Francis Fukuyama, in realtà, non ha avuto tutti i torti, da buon allievo di Hegel e Kojève, a scrivere un saggio come il noto La fine della storia e l’ultimo uomo (1992). Salvo che il suo schema, riduttivamente occidentalista con ritorni di matrice razionalistica e infine ideologica, il che introduce un’immagine di Occidente liberaldemocratico un po’ artificiosa (anche se non irreale, come molti suoi critici hanno detto, prendendo un abbaglio), non spiega le successive vicende in cui è coinvolta la modernità, non più identificabile con la storia universale del mondo. Finisce, così, la storia come Storia Universale del Mondo, come Weltgeschichte, e questo evento, del tutto imprevisto, ha molte ripercussioni sul presente. Una prima evidente conseguenza è l’emergere di un multiversum storico, cioè di molte storie regionali e locali, che si pongono oggi in modo nuovo ed originale al centro delle vicende mondiali dell’umanità, pur rimanendo, almeno a prima vista, sul piano geografico e culturale, in periferia. Ma così non è: la periferia del mondo non è più distante dal centro dei grandi fatti mondiali, dalle precipitazioni ed accelerazioni delle crisi, anche, spesso, dalle catastrofi mondiali. Inoltre, continenti come l’Africa, tanto quella settentrionale, quanto quella sub-sahariana e, ancora, la Cina, l’India, la Russia, ma anche la Cecenia e la Nuova Zelanda, e paesi come la Svezia, la Danimarca e la Norvegia, sono in questo tempo assai centrali e cruciali: mille storie uniche che sembrano trovare una nuova identità in un concetto divenuto, di fatto, un grande contenitore astratto, la globalizzazione, un concetto ancora sostanzialmente da pensare, nei suoi fondamenti. Ecco, dunque, che la secolarizzazione e l’immanentismo assoluto non forniscono più le chiavi ermeneutiche per comprendere il disfacimento del modello originario che fa capo alla modernità. E perché? Intanto, a causa della presenza invasiva di alcuni fenomeni di fondamentalismo religioso, i quali si rovesciano poi in nichilismi violenti. Il terrorismo islamico è il trait d’union tra la disgregazione della modernità, che non ha mai toccato profondamente le radici culturali, etiche e sociali dell’Islam e l’Occidente scristianizzato, da un lato, e dall’altro fortemente debitore a Benedetto XVI di una visione della storia compiuta sia sul versante teologico, sia sul versante politico. Benedetto XVI è il Papa che parla alla storia, drammaticamente immerso in essa, come ha detto agli ebrei durante le giornate della gioventù a Colonia. E questo Pontefice, inoltre, non recide affatto il legame con la verità, quando dialoga con l’Islam, distinguendo perfettamente tra l’apertura a tutti i semina Verbi, cioè i segni del Divino, seguendo la sensibilità teologica e la dottrina dei Padri della Chiesa e lo svuotamento del messaggio cristiano, che deve essere sempre incentrato decisamente sulla Verità di Cristo. E quando il fondamento è altro, avviene lo svuotamento del Cristianesimo. Su questa base spirituale, con un forte impianto cristologico, la realtà del Cristianesimo si concreta come sostanza viva della storia, pur alla fine del suo percorso moderno, e riapre il discorso, anche sul piano intellettuale, sui fondamenti della Cristianità. L’esito della riscoperta della Croce di Cristo: la centralità di un Cristo non compassionevole, repellente anche a Nietzsche, ateo raziocinante e perciò non piegato al “pensiero unico” del devozionalismo caritatevole.
E veniamo all’ultimo punto: l’impossibilità dell’uomo di dominare la natura. E così il cerchio si chiude, lasciando dietro di sé molti frammenti e spezzoni problematici, quasi ci trovassimo di fronte ad uno specchio rotto difficilmente ricomponibile in ogni sua parte. In breve: oggi non c’è più l’homo faber.
Dunque, scomparso l’uomo storico secolarizzato e dominatore della natura, cessa di esistere anche l’homo faber in quanto tale. Storia e natura risultavano compresi, nel Moderno, in un unico disegno universale. Oggi non è più così. In sostanza, non è più l’uomo a dominare la natura attraverso l’uso tecnicamente calibrato degli strumenti tecnologici, concepiti come mezzi sempre positivi e adatti a migliorare la vita dell’uomo, ma è la tecnologia a dominare l’uomo. La tecnologia si trasforma in entità autonoma, indipendente dal controllo dell’uomo. I laboratori sono ricettacoli di un nichilismo tecnocratico divenuto dominante e, insieme, inquietante.
Ecco il cortocircuito immanente all’azione umana. Un paradosso permanente che non può essere fronteggiato soltanto sul piano teorico e analitico, ma comporta un impegno etico e pratico. Di qui la ripresa dell’umiltà come antidoto antico alla prepotenza arrogante delle tecnostrutture. L’affidamento, nonostante tutto, alla strumentazione tecnologica, acriticamente assunta come la chiave della “salvezza” umana, produce una strana specie di nichilismo. Un nichilismo che risulta come inevitabile esito della debolezza dell’uomo, non più dominatore della natura e degli strumenti tecnologici, dei loro esiti sperimentali e pratici. Un nichilismo radicalmente differente da quello tematizzato sia da Nietzsche che da Heidegger, per non parlare di quello, insostenibile e teoreticamente infondato, di Severino. Un altro modello di nichilismo che chiude definitivamente l’epoca della modernità. Finisce, così, quella epoca moderna dominata dall’homo faber e inizia il momento storico del nichilismo tecnologico e tecnocratico. Non serve più Heidegger e la retorica del “solo un dio ci può salvare”. Servono nuove categorie. Il Soggetto cartesiano, tecnocrate e dominatore, capace di costruire certezze teoretiche ed epistemologiche da applicare alla natura, con il preciso obiettivo di conoscerla, non esiste più.