Tra le tante incertezze che stanno caratterizzando le elezioni presidenziali americane, sussiste una sola certezza: il popolo americano è sostanzialmente spaccato in due, da una parte i sostenitori del partito democratico, dall’altra quelli del partito repubblicano.
Per quanto riguarda i risultati elettorali, sarebbe stato prudente aspettare almeno il 15 dicembre quando il Collegio elettorale, dovrà esprimere il proprio voto e sancire la vittoria del prossimo presidente americano. Pertanto, nessuno può decretare la vittoria prima del 14 dicembre. Quindi chi si è espresso prima, come la maggior pare dei media e i capi di governo, lo ha fatto su delle proiezioni elettorali e soprattutto perché molti di questi si augurano (per non dire parteggiano) la vittoria del candidato dem. Purtroppo, sembra che in questa scelta imprudente sia caduto anche papa Francesco, sempre se risponde a verità la presunta telefonata a Biden. Anche lui, poteva aspettare il responso definitivo del 15 dicembre.
Intanto continua lo spoglio elettorale e soprattutto la verifica dei voti e quindi l’inchiesta sulla regolarità del voto. Tuttavia occorre anche scrivere che nonostante la sicurezza dell’entourage del presidente Trump, sembra che ad oggi siano “minime le speranze di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali contestando il voto nei tribunali, per una serie di ragioni che vanno dalla difficoltà di provare brogli massivi, e decisivi, a doverlo fare in più stati in pochi giorni”(Federico Punzi, Il caso Pennsylvania, su cui potrebbe pronunciarsi la Corte suprema: violate legge elettorale e costituzione, 700 mila voti contestati, 14.11.20, atlanticoquotidiano.it)
Questo però non significa che un qualsiasi osservatore “dotato di buon senso e onestà intellettuale - scrive Punzi - non dovrebbe ignorare l’opacità dello scrutinio negli stati in bilico, dove il conteggio dei voti è stato più volte fermato e ripreso, in attesa dell’arrivo di ulteriori schede anche ore e giorni dopo la chiusura dei seggi, e dove sono stati estromessi gli osservatori del Gop. Non si tratta di portare avanti teorie della cospirazione, ma di riconoscere l’inaffidabilità intrinseca del voto per posta, che in queste elezioni, con la scusa del Covid, per volontà dei Democratici è stato reso “universale”, da eccezione a regola, in molti stati”.
A proposito dei brogli, sembra che negli Stati dove sostanzialmente si è giocata la vera battaglia elettorale: Arizona, Georgia, Michigan, Pennsylvania, Nevada, Wiskonsin, proprio qui per conteggiare i voti è stato utilizzato il software Dominium. E proprio in questi Stati che è stato fermato il conteggio e poi proseguito dopo il nuovo afflusso di schede elettorali taroccate. Sembra che al 70% di schede scrutinate in Pennsylvania, Trump era avanti di 800 mila voti su Biden. Poi magicamente non si sa come è passato avanti.
Per quanto riguarda i media mainstream che ancora si sforzano di oscurare l’offensiva legale del presidente Trump, è che in realtà ci troviamo nel bel mezzo di un’elezione contestata. “Certo, sia il gioco delle assegnazioni durante la notte del 3 novembre sia la frettolosa proclamazione mediatica di Biden presidente-eletto miravano a mettere il Paese, l’opinione pubblica e le istituzioni, di fronte al fatto compiuto, ben prima che fosse ragionevole “chiamare” un vincitore. Come previsto, è scattata la narrazione di Trump “golpista” e agitatore, che i Democratici e i media fiancheggiatori preparavano da mesi, ma la realtà è che non c’è nulla di scandaloso o di pericoloso in un presidente uscente che si rivolge ai tribunali per contestare presunte irregolarità nel voto. È suo diritto farlo, ci sarà un processo legale, farà il suo corso, e la volontà dei media di ignorarlo, di ignorare qualsiasi elemento a supporto dei ricorsi, rifiutandosi di contemplare persino l’ipotesi, non è giornalismo, è attivismo politico”.
E comunque coloro che oggi accusano Trump di non voler “concedere” la vittoria a Biden, sono gli stessi che per tre anni e mezzo, senza uno straccio di prova e sulla base di dossier e leak falsi, hanno alimentato la bufala dell’elezione rubata da Trump con l’aiuto dei russi.
Sulla questione dell’influenza dei mass media sulle elezioni americane se ne è occupato Stefano Magni, in un interessante editoriale sempre su Atlanticoquotidiano. “Molti non ricordano (o fingono di non ricordare), ma noi sì: i media Usa (e non solo) hanno riservato il “trattamento-Trump” a tutti i candidati o presidenti Repubblicani, da Goldwater a Romney, passando per i Bush e McCain (oggi lodato da morto), massacrandoli con campagne di delegittimazione e fake news. Ma con Trump hanno fatto un passo in più: hanno vinto loro le elezioni…” (Stefano Magni, L’egemonia Dem sui media. Non solo Trump: non c’è candidato o presidente Repubblicano che non sia stato demonizzato, 16.11.20, atlanticoquotidiano.it)
Pertanto, l’atteggiamento partigiano e poco professionale dei Media americani nei confronti dei candidati repubblicani è iniziato dagli anni ’60, dai tempi di Kennedy.
Il perché la stampa americana demonizza i candidati repubblicani o conservatori viene ben individuato da Magni. “Il grande problema ignorato, un “elefante nella stanza” come direbbero gli americani, non è questo o quel presidente, ma l’egemonia che i Democratici hanno conquistato nel mondo accademico e di conseguenza in quello mediatico”. E’ quell’egemonia culturale gramsciana che peraltro caratterizza anche l’Italia.
Questo atteggiamento discriminatorio viene giustificato “dai diretti interessati con argomentazioni che vanno dal romantico “dobbiamo resistere a un presidente nemico della libertà di stampa”, ad un deontologico “non possiamo permettere che vengano trasmesse informazioni false”. Naturalmente sono affermazioni false, anche perché questi giornalisti non si sono mai sognati di censurare personaggi discutibili¸ dittatori o terroristi come Osama bin Laden o Abu Bakhr al Baghdadi.
E peraltro è giusto così perchè un giornalista deve informare e non fare il giudice. Dunque, Trump non è il primo repubblicano ad essere preso di mira dai media americani. Tutto inizia dal candidato Barry Goldwater, nel 1960, laico e liberale, è tuttora ricordato come “razzista” e “guerrafondaio”, a causa della feroce campagna mediatica contro di lui. Non vinse le elezioni e si risparmiò quattro anni di gogna mediatica.
Interessante il trattamento riservato al presidente Richard Nixon “che divenne addirittura sinonimo della corruzione del potere. Nixon venne letteralmente linciato per una guerra (Vietnam) che non aveva iniziato, ma che, anzi, provò a portare a termine nel migliore dei modi con gli accordi di Parigi nel 1973. L’odio dei media nei suoi confronti era tale, che gli è stata anche tolta la Luna. Fateci caso: quando l’anno scorso è stato celebrato il 50° anniversario dell’allunaggio, è sempre stato nominato Kennedy (che lanciò il programma), ma mai Nixon (che lo portò a termine con successo nel suo primo anno di presidenza)”.
Poi toccò a Reagan, ci provarono in tutti i modi. Ma nonostante l’aggressione mediatica, secondo Magni, fu il presidente più amato degli americani. Si continua con i Bush padre e figlio, anche loro non hanno avuto certamente il favore della stampa. Magni riporta episodi per convalidare la sua tesi, soprattutto in riguardo a Bush figlio. “Nell’era di Internet ogni giorno, ogni ora, era un attacco continuo al presidente, calunniato, paragonato a una scimmia, accusato di essere un alcolizzato. Sono stati realizzati documentari, film, libri, contro la sua persona e la sua amministrazione. I suoi uomini, Cheney, Rumsfeld, Rove, paragonati a criminali nazisti”.
L’odio dei media contro i candidati repubblicani non si spense, la contro-informazione, la disinformazione continuò anche per i due candidati successivi: contro McCain e soprattutto contro la sua vice Sarah Palin. Addirittura, contro quest’ultima “erano già pronti a creare (anche con un film hollywoodiano rimasto nel cassetto) una mitologia negativa contro i mormoni e la destra religiosa, al momento della candidatura di Mitt Romney. Infine, hanno avuto modo di sfogarsi con Trump. Pensateci bene quando dite: “Trump è comunque indifendibile”. Chiunque viene massacrato, basta che non sia dalla parte “giusta”. Certo con Trump, i media hanno fatto un passo in più: hanno vinto loro le elezioni, un po’ come un arbitro che segna il gol della vittoria”.