L'economia italiana è stata colpita al cuore dal Coronavirus. Uno shock che viene dall'esterno, come «un meteorite», e che rischia di provocare una «depressione prolungata» con un «aumento drammatico delle disoccupazione e un crollo del benessere sociale». Ecco perchè occorre tutelare il tessuto produttivo e «agire subito, senza tentennamenti o resistenze: altri Paesi si stanno già muovendo in questa direzione». E' questo l'appello rivolto al governo e al mondo politico dal Centro Studi di Confindustria.
«Mai nella storia della Repubblica - è la premessa del Csc - ci si è trovati ad affrontare una crisi sanitaria, sociale ed economica di queste proporzioni». Questo, secondo gli economisti di Confindustria «è il momento di agire affinchè il nostro Paese possa affrontare adeguatamente questa fase drammatica e risollevarsi quando l'emergenza sanitaria sarà mitigata».
Le istituzioni europee «sono all'ultima chiamata per dimostrare di essere all'altezza della situazione». Le prime azioni messe in campo vanno accompagnate da un «cruciale passo in più: l'introduzione di titoli di debito europei, fin troppo rimandata». In Europa, secondo il Csc, «dopo i consueti balbettamenti assai gravi in questa situazione, in queste settimane sono state già prese decisioni importanti. I massicci interventi della Bce, che hanno fermato per ora l'impennata dello spread sovrano per l'Italia; la sospensione di alcune clausole del Patto di Stabilità e Crescita, per la finanza pubblica; le misure temporanee sugli aiuti di Stato». Queste azioni, però, «vanno accompagnate con un cruciale passo in più: l'introduzione di titoli di debito europei, fin troppo rimandata». L'Europa, insomma, è chiamata a compiere «azioni straordinarie per preservare i cittadini europei da una crisi le cui conseguenze rischiano di essere estremamente pesanti e di incidere duraturamente sul nostro modello economico e sociale».
Roberto Gualtieri è al bivio tra Roma e Bruxelles. Ovvero di fronte alla necessità di capire come districarsi in una fase in cui gli interessi dell’Italia, di cui è ministro dell’Economia, cozzano con il “pilota automatico” dell’indecisione sulla risposta alla crisi dell’Europa dimostrata dalla Commissione europea di Ursula von der Leyen. Assieme a lui, il Partito democratico di cui fa parte si gioca una grossa fetta della sua credibilità politica, interna ed esterna al Paese, dalla gestione della crisi in coabitazione con il Movimento cinque stelle maggioritario nel governo Conte II.
Gualtieri è a un bivio perché per la prima volta emerge con cristallina nitidezza la completa divaricazione tra le prospettive che il Paese avrebbe seguendo il pilota automatico di Bruxelles o, peggio, i condizionamenti dei falchi del rigore del Nord e quelle che si aprirebbero portando avanti la campagna iniziata nella risposta alla crisi da coronavirus. Prospettiva scomoda per chi a settembre era stato chiamato dal ruolo di Europarlamentare a quello di ministro dell’Economia del neonato governo giallorosso proprio per consolidarne i legami con l’Unione
In questi tempi bui, con quel che sta avvenendo, assistiamo in maniera sempre più evidente, al fallimento di un modello, quello europeo, o meglio, di questa Europa, che ci avevano presentato come vincente, rassicurante, solidale, attento e vicino ai bisogni delle Nazioni, delle persone.
Come vedi l Italia in questa Europa in questo critico momento e particolare ?
In questo momento di crisi e di emergenza, l’Italia è sola! Nessun aiuto europeo, alcun sostegno, nemmeno un po’ di solidarietà!
E’ questo il risultato del “castello di carta” a cui, da più di 60 anni dall’edificazione delle c.d. istituzioni europee, si è giunti.
Senza entrare in questa sede nella critica del diritto comunitario così denominato, non possiamo non constatare, oggi, che ha prevalso la costruzione dell’Europa del tecnicismo giuridico, del particolarismo, degli interessi privati e personali, dei burocrati, dei potentati economico-finanziari, delle lobbies, delle banche, del mercato.
Si, proprio del mercato, così come ce lo descrivono e ce lo magnificano, criticabile già di per sé, ma che in momenti come quelli attuali, mostra ancor più la sua essenza, il suo vero volto, il suo lato peggiore. Proprio come un mercato rionale, infatti, gli Stati membri forti, quell’asse portante franco-tedesco ma non solo, fanno la spesa.
Ognuno cerca di accaparrarsi tutto o quantomeno il meglio, in tutto gli ambiti, in tutti i settori.
Luoghi, quelli europei di Bruxelles e Strasburgo , dove prevalgono egoismi e individualismi. E tale predisposizione, tali atteggiamenti, si badi bene, non rappresentano l’eccezione, ma costiutiscono la regola.
pensi che questa UE e fuori da idea dei padri fondatori pensano solo il profito ?
Gli Stati membri, quasi da subito e sempre più, hanno compreso che quello che ancora in molti chiamano il “mercato comune europeo” , poteva essere un’occasione immensa di arricchimento, di sfruttamento, di approvvigionamento, un’opportunità di farsi gli “affari propri” (uso volutamente un eufemismo per non apparire volgare), e per di più a spese di altri Stati, quelli più deboli o più arretrati come dicono gli “opinionisti bravi”, quelli dell’area mediterranea, i “Paesi Pigs” , e aggiungerei quelli che hanno perso la guerra, come l’Italia, la cui immagine è risultata svilita, sminuita, se non addirittura derisa.
D’altronde i comportamenti cialtroneschi, gli atteggiamenti voltagabbana, le frenetiche fughe da Brindisi, pesano e si sedimentano nelle coscienze dei Popoli e delle Nazioni.
Ma tornando a questa immensa opportunità di guadagno e di profitto in tutti i sensi, al di là e al di sopra degli Stati, lo hanno compreso (e forse propugnato) soprattutto, come già espresso, le lobbies, i potentati economico-finanziari, gli speculatori senza scrupoli.
E allora, eccoci qui, al punto da cui siamo partiti, soli, abbandonati in un simile drammatico frangente, addirittura additati come “untori internazionali” e si chiede e ci si domanda: serve davvero ancora questa Europa?
Serve ancora questa Europa?
Mi si conceda ora, un po’ di sano qualunquismo politico che non è lontano, tuttavia, dalla realtà e, soprattutto, da ciò che le persone comuni, i cittadini, avvertono.
Un’Istituzione, quella europea, che è assente nel fronteggiare la situazione di pandemia attuale e che anzi si mostra divisa e per certi versi cinica; che non è servita nella lotta al terrorismo islamista (dove ogni Stato prendeva le proprie misure interne e qualcuno, forse, ha da farsi perdonare qualcosa); che è parsa tiepida, se non addirittura insensibile, nel caso di gravi fenomeni naturali (mi riferisco agli eventi sismici che hanno colpito il centro Italia nell’estate del 2016); che non interviene, specula e al più “gioca allo scaricabarile”sul fenomeno immigratorio di massa, lasciando sole Nazioni come l’Italia e la Grecia.
Senza poi minimamente contare il disinteresse delle Istituzioni europee e dei burocrati di Bruxelles, per chi, causa la crisi economica che ci attanaglia da quasi un decennio, abbia perso tutto o quasi: risparmi, lavoro, casa, dignità!
Il Coronavirus come “un’assurda opportunità” ?
Fatte queste debite premesse, serve ancora questa Europa? E’ vero e mi rendo conto che la domanda presta il fianco ai fautori del globalismo, ai no borders, a chi vorrebbe, al contrario, più Europa, proprio per intervenire e provvedere (sic), a detta loro, per simili evenienze, per simili sciagure.
A tali tipi di obiezioni e ad essi risponderò solamente in un modo: Pietà!
invece, che sia giunto il momento di rivedere la partecipazione italiana in seno all’Unione Europa, propendendo decisamente per una sua uscita (Italia-exit) e di considerare, pertanto, la riappropriazione della nostra piena sovranità: da quella politica a quella monetaria.
Rimodulare il nostro assetto nel quadro delle attuali alleanze atteso che le nostre tradizionali alleanze rappresentano un fardello che ci portiamo addosso dal dopoguerra, dalla c.d. “guerra fredda”.
Nella situazione di attuale emergenza, peraltro, gli aiuti ci sono giunti proprio da chi meno te l’aspetti (la Cina, la Federazione russa, Cuba e non da quegli “alleati classici”,che si dichiarano, a parole, sempre amici dell’Italia, salvo poi riempirla di soldati, di basi militari, oltre ad averla abbondantemente bombardata, giovi qui ricordarlo.
Avere, cioé, mano libera nello stringere alleanze con altre potenze a livello mondiale, e rafforzare contatti di tutti i tipi, con Stati terzi e indipendenti.
Tutto ciò, permetterebbe di uscire, una volta per tutte, da quell’amministrazione controllata su base americanocentrica, rappresenterebbe un’immensa opportunità per l’Italia, con l’apertura di nuovi e impensabili scenari internazionali dai quali trarre reciproco vantaggio.
Un’ulteriore opportunità è rappresentata dal fatto di riconsiderare i nostri stili di vita, i nostri comportamenti sia pubblici che privati. A cominciare dal rispetto delle regole – specie in situazioni emergenziali come quelle attuali - e quindi disciplina, abnegazione, spirito di sacrificio, prevalenza dell’interesse nazionale rispetto a quello individuale, preminenza del bene comune e dei bisogni collettivi su quelli personali, di categoria, di ceto sociale.
In tempi di quarantena e di “domicilio forzato”, accanto ai valori appena citati, occorre ricostituire/ricostruire quelli legati alla riscoperta e al rinsaldamento dei vincoli familiari, ripensare ad un “sano egoismo” nazionale (specie in campo economico), una “sana” autarchia, alla preferenza e alla valorizzazione di prodotti italiani, in tutti gli ambiti e settori commerciali. Anche più banalmente, facendo un esempio, devono sparire dal nostro lessico quotidiano frasi del tipo: “andiamo dal cinese” (piuttosto che “dall’indiano”), che pronunciamo per la scelta di un ristorante o di un negozio. Anche così, si accetta un modello ed uno stile di vita globalisti, si determina l’espandersi di un’economia straniera in Italia, si incide sull’affossamento delle aziende nazionali.
Eppoi la riscoperta di fondamentali valori quali quello dell’amore per la propria Patria, la difesa dei confini e del Sacro Suolo nazionale, l’orgoglio e la fierezza di essere italiani.
Una volta il refrain era quello del “ ce lo chiede l’Europa”, oggi a maggior ragione per quello che ci siamo appena detti, il motivo deve essere quello del “ce lo chiede l’Italia”, “ce lo chiede la nostra Storia, la nostra Tradizione”, “ce lo chiede chi ci ha preceduto e chi ci seguirà”!
Ringrazio Marcello Austini per la sua intervista fatta telefonicamente da Bruxelles
Vale la penna ricordare che nei tre decenni seguiti alla riunificazione tedesca più volte Berlino ha visto nell’Italia un Paese instabile e problematico su cui “scaricare” i costi delle sue politiche interne, della centralizzazione del suo potere in Europa e delle riforme agognate per il suo sviluppo.
Lo stiamo vedendo in queste settimane con il duello tra rigoristi del Nord e Paesi mediterranei sugli Eurobond di cui tanto si discute come risposta alla crisi del coronavirus; lo abbiamo visto negli anni scorsi con il bagno di sangue dell’austerità, delle riforme sistemiche e dei tagli alla spesa pubblica imposti ai Paesi del Sud Europa dall’impennata degli spread su cui aleggia il sospetto di una spinta finanziaria tedesca; ma il caso maggiormente emblematico di questo atteggiamento risale agli albori della Germania riunificata, a quel drammatico 1992 che fu anno di svolta per il nostro Paese.
In molti ricordano l’assalto speculativo di George Soros alla lira nel “mercoledì nero” del 1992: il magnate ungaro-americano attaccò la moneta italiana vendendo lire allo scoperto sui mercati finanziari, realizzando un forte profitto, ma nessun finanziere d’assalto avrebbe il potere di mettere in ginocchio un grande Paese come l’Italia senza una sponda politica esterna
A raccontarlo è stato lo stesso Soros in un intervento pubblico a Udine del 2013: “L’attacco speculativo contro la lira fu una legittima operazione finanziaria. Mi ero basato sulle dichiarazioni della Bundesbank, che dicevano che la banca tedesca non avrebbe sostenuto la valuta italiana. Bastava saperle leggere”. Soros non mente: la banca centrale tedesca, infatti, si era disimpegnata dalla scelta di difendere il regime di cambi fissi del Sistema monetario europeo quando il suo presidente Helmut Schlesinger aveva dichiarato che l’unione monetaria europea basata sull’European currency unit non era “un’unità monetaria omogenea”, facendo riferimento in particolar modo alla debolezza della lira.